Potsdamer platz 1920-1934 Berlin (Sounds of an era)

Da qualche tempo sto ascoltando, sono circa a metà, l’ennesimo cofanettone, dedicato questa volta alle canzoni della swinging Berlin degli anni 20 (e dintorni), un box dal ricco contenuto (10 CD per 200 canzoni) e dal lungo titolo (che dà il nome a questo post).

Chi mi conosce sa quanto ritenga interessanti, memorabili e stimolanti, artisticamente parlando, ma non solo, gli anni che seguirono la conclusione della Prima Guerra Mondiale, e, innamorato di Berlino quale sono, non potevo esimermi dal provare ad annusare l’aria che si respirava in quegli anni.

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A dispetto di quanto mi aspettassi ho trovato grosse similutudini con la coeva musica italiana (tipo questa, o quest’altra, ma con stili più spesso vicini a Rodolfo De Angelis che al Trio Lescano), ho ascoltato musicisti di primissimo livello, orchestre e interpreti raffinati, musiche mediamente più distanti da Kurt Weil di quanto fosse lecito ipotizzare, e, in generale, ho percepito come Berlino fosse attraversata da una incredibile voglia di divertimento e di allegria in anni, lo voglio sottolineare, davvero complicati. La sconfitta nella Grande Guerra, i tantissimi morti al fronte, le decisioni prese nella Conferenza di Parigi, la conseguente crisi economica, le conflittualità legate a Weimar, le repressioni a sinistra, la progressiva ascesa del nazismo… tutto spingeva per giorni in cui si dovesse stringere la cinghia e avere cautela e invece, grazie anche al boom mondiale della radiofonia, nei locali notturni berlinesi ci si lasciava andare a balli travolgenti (tanzmusik !), canzoni umoristiche e atmosfere ridanciane e peccaminose spesso ricche di esotismi evocativi.

Ma la ragione per cui sto scrivendo questo post va oltre tutto questo.

Non conoscendo il tedesco, tendo ad ascoltare soprattutto la musica e a non concedere particolare attenzione ai testi, ma, ogni tanto, capita di avere l’impressione di riuscire a cogliere dei significati e, se incuriosito, vado in rete a cercare informazioni sul testo di qualche canzone.

Mi è successo una prima volta con “Die Großstadt-infanterie“, cantata da Kurt Gerron. Il testo parla (e un po’ l’avevo azzeccato) dei rischi che correvano i pedoni nella Berlino di quegli anni, continuamente a rischio di essere investiti dalle indisciplinatissime auto circolanti (pare incredibile, ma evidentemente passeggiare lungo le strade in quei giorni esponeva a discreti rischi).

Sempre più incuriosito sono andato a cercare notizie su Gerron, una specie di Aldo Fabrizi tedesco, attore e cantante al tempo stesso, come si usava in quello che noi chiamavamo “varietà“, ma anche regista cinematografico. Vengo così a sapere che, in quanto ebreo, dovette interrompere la sua carriera di artista, fuggire in Francia prima e in Olanda poi, ma, ciò nonostante, finire comunque nel campo di Theresienstad per poi morire ad Auschwitz, poche ore dopo esserci arrivato e poco prima che il lager venisse abbandonato dai nazisti.

Qualche tempo dopo mi incuriosisco per un altro brano, intitolato “Das ist Berlin auf der Tauentzien” perché, come da titolo, mi sembra parlare di una zona berlinese famosa per lo shopping ancora oggi.

Anche qui cerco informazioni, ma non riesco a trovare il testo, non sempre in rete si trova tutto, cerco allora di sapere qualcosa di più sul suo interprete, Willy Rosen, e scopro che ha avuto un destino praticamente identico a quello di Gerron.


A questo punto continuo gli ascolti, ma qualcosa è cambiato.

Perché già suonava strana tutta questa allegria relazionata al recente passato e al presente, sia di chi scriveva e cantava questi brani, sia di chi li ascoltava, ma a questo ora si sovrappone anche la consapevolezza che, pochi anni dopo, molti di loro cadranno nel dramma della persecuzione razziale, altri diventeranno dei carnefici, altri cercheranno di rimanere nel mezzo e dovranno vivere in una Berlino bombardata giorno e notte.

Perché una delle cose che amo di Berlino è proprio la compresenza di tratti così discordanti: amore e odio, bellezza e orrore, arte e violenza, natura e tecnologia, Storia e storie.

E anche in queste canzoni che avevano il solo obiettivo di regalare qualche istante di buonumore e allegria, c’è qualcosa di più di quello che ci sarebbe dovuto essere.

A Berlino non sono mai solo canzonette.

p.s. Per chi fosse curioso sulla Berlino durante Weimar, consiglio la serie televisiva “Babylon Berlin” che prova a raccontarla in maniera dettagliata e, a mio parere, efficace.

TITO RINESI “Dargah”, 2020

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Secondo post dedicato a quegli artisti, a me cari, che hanno realizzato dischi durante la pandemia e che, in mancanza di concerti, possiamo sostenere solo attraverso l’acquisto dei loro lavori.
Questa volta parliamo di un nuovo lavoro di Tito Rinesi (vi ho parlato di lui in passato in questo post e in quest’altro post) intitolato “Dargah” e molto chiaramente sottotitolato “musiche e canti Sufi“.
Rinesi rivolge la propria attenzione all’universo delle musiche sufi senza limiti geografici e temporali, raccogliendo 12 brani dei quali propone versioni decisamente fedeli alla linea, senza arrangiamenti moderni o modernisti, ma cercando di rimanere vicino allo spirito dei brani originali. Non a caso la strumentazione vede esattamente gli strumenti che vi dovreste aspettare, a partire dall’immancabile ney, passando per oud, tar e strumenti classicamente vicini alla tradizione sufi. A questi si aggiungono, ma molto rispettosamente, strumenti meno abituali per queste musiche (viola, fisarmonica, violino, bouzouki…) per una serie di tracce nei quali lo spirito ecumenico di Rinesi si confronta con delicatezza e cura estreme con il corpus di interpretazioni che questi brani hanno avuto negli anni.
Come accennato sopra nella scelta dei brani non ci si è limitati alla tradizione turca, ma si è guardato anche molto più lontano, vedi la versione di “Allah hu“, classicone portato alla notorietà in Occidente, direttamente dal Pakistan, dal compianto Nusrat Fateh Ali Khan.

Spicca in tutti i brani l’uso delle voce fatta da Rinesi, voce solista in tutti i brani. E’, credo, la prima volta che nei suoi lavori la sua voce ha tutto questo spazio, ed è una lieta e interessante novità, così come spicca la traccia 8 “O amore“, unico brano cantato in italiano (testo tratto da una poesia di Rumi e musica che, unico caso nel disco, è farina del sacco di Rinesi).
Insomma: un disco che non può mancare nelle case di chi ama certa musica.

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Se siete interessati a questo disco potete acquistare il CD fisico (CD vero, non masterizzato, sia chiaro) con una eccellente copertina ed un libretto assai esaustivo, rivolgendovi direttamente a Tito Rinesi (lo potete contattare su Facebook o alla mail info@titorinesi.com)
Sarà lui a dirvi come pagare il CD tramite Paypal per poi riceverlo direttamente a casa. Faccio notare che da lui potete comprare, sempre in una edizione fisica, anche i due dischi linkati sopra (“Meetings“, con introduzione di Franco Battiato, e “Verso Levante“) e che il prezzo dei dischi, comprensivo dei costi di spedizione, è decisamente accettabile (fidatevi).

In alternativa (molto meno consigliata, perché, come sapete, agli artisti arrivano pochissimi soldi) potete ascoltarlo in streaming, ad esempio su Spotify.

Potete anche acquistarlo, in versione liquida, su vari store digitali, ad esempio Amazon.
Lo trovate anche, ma non è così banale rintracciarlo, su YouTube.
Qui sotto la traccia di apertura.

Concludo ribadendo l’invito a sostenere la musica che amate in questi momenti economicamente, e non solo, estremamente complicati.

IL WEDDING KOLLEKTIV “Brodo”, 2021

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Torniamo dopo lungo silenzio per segnalare alcune recenti uscite di quelle che ci sono care, ma che non necessariamente trovano spazio sui mass-media principali.
Come sapete da molti mesi non è possibile assistere ai concerti, pertanto il modo migliore per sostenere gli artisti che amiamo è acquistare la loro musica.
Sottopongo quindi alla vostra attenzione un gruppo esordiente, di nome Il Wedding Kollektiv, e il suo EP intitolato “Brodo“.
Hanno attirato la mia attenzione intanto per ragioni geografiche: il gruppo orbita tra il quartiere romano del Pigneto (dove sono cresciuto) e quello berlinese di Wedding (che si pronuncia VEDDING, non alla maniera inglese…), e sapete quanto sono legato a Berlino.
All’interno del gruppo poi ritroviamo alcuni musicisti provenienti da esperienze di cui vi ho parlato in passato: i Gronge (un pezzo enorme di storia della musica fieramente indipendente romana e non solo, ve ne parlai, ad esempio, qui) e gli eccellenti Roseluxx (ve ne parlai qua).

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Questo esordio raccoglie 5 brani per una ventina di minuti di musica splendidamente in bilico tra la forma canzone e il suo tradimento. Canzoni in diagonale, come direbbe Battiato, che non hanno paura dell’orecchiabilità, ma si permettono continui dietro-front e passaggi inaspettati. Il tutto condito dalla voce splendida di Tiziana Lo Conte, mai, come in questo caso, capace di spaziare attraverso registri diversissimi.

Come dicevo all’inizio, in mancanza di concerti, possiamo sostenere questi progetti e questi artisti acquistando la loro musica. Pertanto potete andare su Bandcamp (cliccate qua) e comprare il vinile di “Brodo” oppure, come ho fatto io che non sopporto i vecchi dischi neri, comprare il disco in formato FLAC con annessa copertina (e volendo poi masterizzarvelo).

Come ulteriore alternativa (molto meno consigliata, perché al gruppo arrivano molti meno soldi) potete ascoltarlo in streaming, ad esempio su Spotify.

O più banalmente, ma forse più comodamente, ascoltarlo da YouTube.
Qui sotto una delle tracce, tra le mie preferite.

In ogni caso sostenete la musica che amate in questi momenti economicamente, e non solo, estremamente complicati.

PIERLUIGI CASTELLANO “Paradise lost vol.1-2-3”, 2017, autoproduzione

Pierluigi Castellano è, perdonatemi l’ennesimo uso di questa espressione retorica, uno dei segreti (purtroppo) meglio custoditi della musica di ricerca italiana.
Cercheremo in questo lungo post di disvelarlo agli occhi di quei tanti che non ne hanno mai sentito parlare (anche se io stesso vi parlai a suo tempo del suo lato giornalistico in questo post).

Esordisce nel lontano 1985 con “La boule de neige“, musiche per l’omonimo spettacolo teatrale di Fabrizio Monteverde, ed è un esordio col botto: fin dalla prima traccia, “Elisabeth“, splendida e fulminante, con una eccellente Patrizia Nasini alla voce in una forsennata rincorsa tra tastiere e archi, in una specie di originalissima non-canzone minimalista. A seguire un altro pezzo bellissimo, “La boule (tema doppio)“, molto più tranquillo, con un pianoforte che prima disegna lente melodie circolari per poi passare ad un insistito vagamente mertensiano (specie nelle voci, che in entrambi i brani, cantano in una lingua inventata, Castellano avrà sempre una particolare simpatia per idiomi fuori dal comune), con accelerazioni improvvise e melodie che si intersecano deliziosamente.
Ma anche oltre le prime due tracce, “La boule de neige” è un disco che stupisce per lo spessore della scrittura: un post-minimalismo europeo di ottimo livello che non aveva nulla da invidiare ai coevi Mertens, Nyman, Poppy e compagnia cantando, con, a volte, sorprendenti vicinanze con Mikel Rouse.

Peccato (e vedremo che un certo tipo di sfortuna sarà una costante) che la General music non lo distribuisca in maniera adeguata e questo gioiellino circoli pochissimo. Io devo personalmente ringraziare un bravissimo e competente commesso di Rinascita, quella nella storica sede di via delle Botteghe Oscure a Roma, che me lo fece ascoltare (ci misi un istante a decidere di comprarlo).

L’anno dopo la romana Mantra records (etichetta legata al fondamentale negozio Disfunzioni Musicali) distribuisce il suo secondo lavoro, “Danze“.
E’, per molti versi, il secondo capitolo di un medesimo progetto: anche qui troviamo raccolte musiche per spettacoli di teatro e danza, anche qui ritroviamo brani più tipicamente post-minimalisti (il Mertens allegro di “Cookin’ you” messo in, bellissima, apertura, le tastiere iterative e danzerecce di “Depero“, con i sax illuminanti nel finale, le riflessioni per pianoforte, tastiere e violino struggente di “Astasia“, con ancora l’eccellente Patrizia Nasini alla voce, e quelle con il flauto protagonista di “Pasolini“, la placida e intensa iteratività di “Fine senza fine“) come anche brani meno legati ad invenzioni melodiche (le percussioni di “Nella notte“, l’elettronica in libertà di “Fru Fru“).
Un secondo capitolo forse leggermente meno ispirato del primo, ma ancora di ottimo livello.

Passano 4 anni e, ancora per Mantra records, esce, in un CD dalla confezione originale e ambiziosa, “Noi, my, us“, lavoro che segna la raggiunta maturità di Castellano.
Disco compattissimo, senza cadute di tono, realizzato per tastiere più un piccolo, ma funzionale, ensemble acustico (clarinetto, tromba, violino, viola, violoncello) che, incorniciati tra due estratti de “La traviata” di Giuseppe Verdi, ci delizia con gioiellini tipicamente made in Castellano quali “In a wonderland” (ancora la voce, anzi le voci, di Patrizia Nasini in un brano che unisce ripetitività e cantabilità), l’allegro e trascinante “Nate zeko” (ancora le lingue inventate da Francesco Antinucci), l’elegante e tranquilla “Towitara” (con la Nasini che ci ricorda Meredith Monk per 9 minuti di assoluta meraviglia), la ritmata “Flatland” (quanto ho amato quel libro !), le volute raffinate di “Zavasta kino“, le tastiere circolari di “Natività” che man mano si arricchiscono in un classico crescendo-Castellano.

Dopo un disco così mi aspettavo che la fama di Castellano superasse non solo il Grande Raccordo Anulare, ma volasse alta anche oltre le Alpi. E invece nulla si muove (e va pure detto che, a distanza di anni, sfortuna vuole che quasi tutte, se non tutte, le copie di questo disco si siano abbronzate e ormai nemmeno i fortunati possessori dei CD hanno più la possibilità di riascoltare queste musiche).
Tanto per gradire anche la Mantra chiude, e Castellano smette di avere una casa discografica che credeva in lui.

Inizia così un periodo abbastanza avaro di pubblicazioni, interrotto dalla pubblicazione di un CD decisamente inusuale per gli standard ai quali Castellano ci aveva abituato. “Sevilla X” (1992, per la misteriosa etichetta AS) contiene due lunghi brani ambient (o, per meglio dire, due versioni della stessa composizione), piuttosto riusciti, prodotti per la sonorizzazione di una realtà virtuale voluta dall’ENEL per l’EXPO universale di Siviglia 1992. Lavoro interessante, ma sostanzialmente un unicum musicale nella produzione di Castellano.

L’intermezzo di “Sevilla X” si colloca all’interno di un lungo silenzio discografico di circa otto anni, ed è solo a cavallo del nuovo millennio che Castellano torna a produrre alcuni lavori: “Computer dreams“, nel 1999 e “2002“, tre anni dopo, entrambi sostanzialmente autoprodotti per la sua Orlando records, ed entrambi circolati pochissimo.

Computer dreams“, se dimostra una sempre ottima vena compositiva, sembra soffrire della realizzazione in perfetta solitudine (Castellano suona tutti gli strumenti) e di un certo dominio dei suoni sintetizzati. Contiene comunque diverse composizioni molto riuscite: segnaliamo in particolare l’iniziale “Hardware sex“, dall’inizio che occhieggia a certo Jarre per poi svilupparsi in splendidi incroci tra la chitarra elettrica, uno (pseudo ?) sax e le tastiere, l’elegantissima “Lysi waltz” dalle intricate melodie e un flauto traverso in bella evidenza, l’allegra “Speed of life” dagli esplosivi crescendo.

2002“, uscito solo in CDr, contiene 19 tracce medio-brevi, da poco più di un minuto ai 6 minuti, tutte caratterizzate dall’utilizzo di una elettronica a volte quasi-ambient, a volte più dissonante. Materiale abbastanza diverso dalle consuete produzioni di Castellano. Il disco si chiude con la lunga ventesima traccia, “Walking on crystals“, 13 minuti di avvolgenti atmosfere spaziali.

Sempre nel 2002 la piccola, ma prestigiosissima, Ants pubblica (purtroppo solo in CD-r…) l’opera sull’AIDS “Zonacalda“, primo disco in cui il nostro si confronta con un tema vero e proprio e con una qualche forma di teatro musicale, ed il risultato è interessante e valido.
Il disco è, in qualche modo, figlio, anche musicalmente, della trasmissione radiofonica Audiobox, vi suonano, tra gli altri, musicisti di spessore come Paolo Fresu e Luca Venitucci, e alterna dei recitati (su tappeti di musica apparentemente improvvisata) affidati a Federica Santoro a vere e proprie arie più vicine alla normale produzione di Castellano, per poi concludersi con delle appendici realizzate con Alvin Curran (il gran maestro romano-statunitense del minimalismo e dell’avanguardia degli anni ’70).
Altro lavoro meritevole, ma passato inosservato.

Segnaliamo, solo per dovere di cronaca, una uscita del 2008, “Open space“, pubblicata da Rai Trade. Disco mai visto e, di conseguenza, mai ascoltato, sul quale nulla possiamo dire.

A questo punto, e finalmente, dopo un decennio di silenzio, Castellano ricompare con una trilogia di lavori intitolati “Paradise lost” pubblicati (purtroppamente) solo in formato digitale.

Il primo volume, 7 brani per 73 minuti di musica (potete facilmente intuire la dimensione temporale dei brani) presenta composizioni caratterizzate da una morbida iteratività nella quale melodie circolari e arrangiamenti curatissimi regalano momenti davvero intensi.
In apertura “Xantia“, una meraviglia in eterna spirale circolare, nella quale tastiere e violoncello (quelli che sembrano essere gli strumenti principali di questo lavoro) costruiscono un tema splendidamente oscillante e continuamente in ripartenza con un finale arricchito da percussioni tribaloidi di grande effetto. Un gioiellino di livello assoluto che apre il disco alla grande.
Ma tutto il primo volume è comunque di buon livello: mi piace segnalarvi anche lo splendido e continuo borbottìo di “Alpha Centauri ascending” (tastiere ripetitive ad incrociarsi e sovrapporsi in un lento crescendo che sembra davvero elevarci verso stelle lontane fino all’arrivo delle percussioni che spostano leggermente il pezzo verso lidi vagamente oldfield-ani, ma un Oldfield estremamente dilatato), il pianoforte, of course, di “Piano rendering” che, dopo una lunga introduzione solista (con una melodia che mi ricorda qualcosa, ma non so cosa), viene affiancato dagli archi in un brano che può ricordare un Mertens passato nell’ammorbidente e che ci culla indefinitamente con dolcezza dispiegando variazioni semplicemente bellissime.

Il secondo volume, 9 brani per 76 minuti, presenta un uso interessante della chitarra elettrica (usata come strumento solista a cui viene affidata la melodia principale, ad esempio nell’iniziale “Rifferama“, dove, con l’aiuto di archi e voci emerge un pezzo di grande energia e fantasia, classicamente alla Castellano) e delle atmosfere più pop, magari vicine a certo prog strumentale inclassificabile come in “Apocalypsis“, dove è ancora la chitarra lo strumento sul quale poggia il brano (e qui, in certi punti, mi viene in mente nuovamente Mike Oldfield, non a caso un polistrumentista soprattutto chitarrista).
Degli altri brani di questo secondo volume, globalmente più discontinuo del primo, qualche rapida citazione per il bel lirismo di “Paradise lost” (11 minuti di melodia ampia e sontuosa, ancora con la chitarra in primo piano insieme agli archi, alle tastiere e a un violoncello commovente), i possenti (finti ?) fiati di una circolare “Andromeda Big B“, le inaspettate chitarre acustiche di “Portixeddu sunrise“.

Il terzo volume, altri 8 brani per 76 minuti, vede una presenza importante delle voci e spicca per un lirismo di alto livello.
Si apre con la ottima “Agnus Dei one“, tastiere delicatissime e ripetitive insieme a una stranissima, eppure intrigante, voce filtrata che canta in una lingua non comprensibile una melodia di quelle che piacciono a Castellano (capace di unire una oggettiva cantabilità con uno sviluppo inaspettato e originale) in un pacifico e memorabile crescendo. Più apparentemente sfuggente “Disco Brecht“: andamento claudicante, voce femminile ad inerpicarsi lungo melodie complesse, prima in solitaria poi insieme a un sax, in quello che potrebbe sembrare un brano difficile da ascoltare e che invece, per i miracoli tipici di Castellano, si risolve in una composizione che acchiappa l’ascoltatore e non lo molla fino alla fine. Un gioiello.
Discorsi più o meno simili, e risultati finali ancora eccellenti, per “Italian western 3” (ancora voce femminile al centro del brano, ancora una melodia bella articolata, tastiere tutt’intorno a completare il quadro, ma non fatevi ingannare dal titolo, Morricone non c’entra nulla), per la spettacolare “Lotus flowers” (voci femminili, melodia bellissima e intricata, linea di basso placida + violoncello e archi, e sempre quella circolarità in ascensione che è un marchio di fabbrica del miglior Castellano) e per “Millecolori” (altissime voci femminili in un brano che odora di primavera, con una scelta dei suoni molto particolare, un forse-organetto, un forse-dulcimer, una linea di basso borbottante che rasserena, qualcosa che si potrebbe ballare all’aperto tutti insieme).
Menzione speciale per la conclusiva “Chtulhu dance” che miscela archi e fiati atonali, rullante insistito, tastiere vagamente cosmiche in un frullato stranissimo, forse dalle ambizioni spettraliste, ma di grande effetto (e dura 10 minuti abbondanti).

Provando a tirare le somme potremmo definirlo un ritorno alla grande (fermo restando che proporre così tanti materiali tutti assieme mette in una certa difficoltà l’ascoltatore, forse sarebbe stato meglio fare una maggiore selezione, ma capiamo che, dopo tanti anni di digiuno, la voglia di proporre la propria musica fosse enorme).
In sintesi, e con nostra personale gioia, Castellano torna al suo meglio, con la consueta ricca vena compositiva, il suo stile personale e tutto ciò di bello che avevamo conosciuto in passato.

Volendo segnalare gli aspetti negativi di questa trilogia non possiamo non sottolineare la assoluta mancanza di un apparato iconografico (solo la foto di copertina, peraltro senza che vi sia indicato nulla) e informativo (nulla a parte i titoli dei brani). Oggettivamente un po’ troppo poco, anche perché io resto dell’idea che anche la musica liquida debba essere corredata da metadati utili all’ascoltatore.
Anche sulla qualità della registrazione ho qualche dubbio: premesso che l’ho sentito dalle cuffiette del PC (il mio stereo ancora non sa riprodurre i file FLAC) devo dire che i suoni mi sono sembrati un tantino troppo ammucchiati, come se la musica mancasse di spazialità, e anche un po’ troppo distorti in certi momenti.

In ogni caso: un artista di grande spessore e troppa poca fortuna.

Chi volesse approfondire questa trilogia, può ascoltarla e/o acquistarla cliccando qua.

p.s. Sottolineiamo come questa incredibile incapacità a vendersi (nel senso buono) di Castellano abbia fatto si che il suo sia probabilmente il nome più importante tra quelli assenti nel bel libro di Antonello Cresti “Solchi sperimentali Italia“, sorta di ponderosa mappatura di quanto abbia partorito lo stivale in tema di musiche “altre”. Mentre sono regolarmente, e giustamente, presenti i Venosta, i Milesi e gli altri artisti musicalmente affini a Castellano e a lui perfettamente coevi, di lui non vi è traccia nelle moltissime pagine del libro. E non è certo un caso.

MARIA MONTI “Il bestiario”, 1974, Ri-Fi

Il tentativo di coniugare stilemi della musica contemporanea/d’avanguardia/di ricerca con la forma canzone non è stato praticato spesso. Per quello che ricordiamo ci vengono in mente pochi titoli (ne parleremo nella prossima top 5) oltre naturalmente agli arrangiamenti di Luciano Berio per alcuni brani dei Beatles, ma lì siamo su un piano diverso da quello di cui ci vogliamo occupare.

Oggi vogliamo parlarvi di uno di questi rari tentativi, realizzato nel 1974 in una Italia ribollente sotto molteplici punti di vista.
Maria Monti in quel momento è conosciuta soprattutto come interprete di canzoni popolari, particolarmente del nord-Italia (era molto in voga la riscoperta di questi brani), ma anche come figura trasversale capace di unire canzone e teatro (non un caso la sua lunga relazione, non solo artistica, con Giorgio Gaber oltre alle sue radici nel cabaret) e come artista impegnata nella politica (con una sensibilità spiccata per le tematiche femministe).

In questo LP spiazza gran parte del suo pubblico, affidando gli arrangiamenti ad Alvin Curran, vulcanico americano trapiantato a Roma e noto per la sua attività con il collettivo (molto aperto) di improvvisazione MEV (Musica Elettronica Viva) e per dei lavori, molto vicini al minimalismo, particolarmente quello di Terry Riley, che presto vedranno la luce anche discograficamente.

L’unione tra queste due sensibilità ci regala un disco stranissimo e particolare, molto ispirato nei testi e nelle musiche e splendidamente in bilico negli arrangiamenti tra la necessità comunicativa delle canzoni e il background del tutto alternativo di Curran. Come se non bastasse nel disco suonano musicisti anch’essi poco abituati alle canzonette quali Roberto Laneri (con il quale più avanti Maria Monti farà parte del gruppo di ricerca sul canto armonico Prima Materia) o il sassofonista Steve Lacy.

Dieci canzoni, 47 minuti, nelle quali troviamo brani diversissimi.
Iniziamo alla grande con “Il pavone“, lentissimo, con tastiere immobili da un lato e Curran che fa borbottare mirabilmente le sue macchine dall’altro, mentre la Monti canta ieratica e la chitarra acustica di Luca Balbo punteggia il tutto.
No no no no” risente (in positivo) dell’esperienze cabarettistiche della Monti, supportata da strumenti in grande libertà (Lacy cinguetta alla sua maniera, ma in apertura e chiusura del brano il tocco di Curran si fa sentire). Discorso simile per la vagamente gaberiana “Lo zoo” con il piano al centro del pezzo in una specie di ragtime libero e leggero infiocchettato anche lui dal sax di Lacy. Toni branduardiani per “I camaleonti“, con le chitarre acustiche in primo piano e tutta una serie di disturbi radiofonico-elettronici a sporcarne la filigrana, fino ad un inatteso finale cosmico. Con “La pecora crede di essere un cavallo” torniamo sul mood del brano di apertura: ritmi lentissimi, continuo borbottare di tastiere e chitarre psichedeliche per un brano che è un gioiellino di raffinatezza.

In chiusura i due brani più lunghi del disco. Prima gli otto minuti de “Il letargo“, pianoforte che fraseggia tra un silenzio e l’altro, chitarra che detta il ritmo placido, sax a sottolineare il tutto, atmosfera da prima luce dell’alba, che piano piano vede gli strumenti prendersi sempre più libertà, compresa qualche tastiera che emerge cammin facendo. Un brano dove l’equilibrio tra improvvisazione e scrittura ha del miracoloso (più un finale sardo-centrico a dir poco sorprendente).
Dura invece oltre 10 minuti “Aria, terra acqua, fuoco“, forse il capolavoro del disco: chitarra minimalista, pianoforte che mi ricorda quello di Battiato durante il famigerato periodo-Ricordi, il canto ancora una volta lento e allungatissimo, un non-ritornello a spezzare il brano nella canoniche quattro parti indicate dal titolo. Una stranissima canzone che non è una canzone ma è una canzone.

Relativamente più consueti gli arrangiamenti degli altri brani, ma sempre, come minimo, piacevoli e riusciti.

I testi, davvero di ottimo livello, partono dai vari animali per trasfigurarli in metafore evocative di varie problematiche degli esseri umani, si avverte chiara l’aria culturale del tempo, ma senza un filo di retorica. Maria Monti interpreta il tutto con una incredibile varietà di registri, dimostrando eccellenti capacità canore e una attitudine a mettersi al servizio della canzone fuori dal comune.

Un gioiellino solo recentemente dissepolto dalle sabbie del tempo dalla sempre illuminata Unseen records, una operazione coraggiosa quanto riuscita e meritevole sicuramente di una fama maggiore rispetto a quello fin qui avuta.

FRANCO NANNI “Elicoide”, 1987, Moon record

Ci ricolleghiamo alla playlist pubblicata un paio di post fa (cliccate qua per ascoltarla) e dedichiamo questo post ad un disco di quegli anni ’80 caratterizzati (anche) da un manipolo di sperimentatori in bilico tra mondi più popolari e mondi più aristocratici, capaci di musiche che riuscivano ad essere vicine a certe avanguardie, ma rimanendo godibili, musiche intriganti e originali, ma anche comunicative.

Franco Nanni è stato uno di questi sperimentatori, autore dalla discografia tutt’altro che sterminata, che nel 1987 esordisce, su di una piccolissima etichetta, con questo “Elicoide“.

Il progetto, del tutto strumentale, dichiaratamente legato alla genetica, è caratterizzato da 5 brani, due dei quali particolarmente lunghi che ne costituiscono il cuore.

Mitochondria“, con i suoi 16 minuti, è un brano ipnotico, per tastiere e contrabbasso, memore del Reich più percussivo, ma, rispetto a questo, molto più morbido e lirico. Ritmo rilassato, le tastiere a dettare l’architettura del pezzo e il contrabbasso a lavorarci melodicamente dentro, realizzando un brano post-minimalista di ottima fattura.
Elicoide” è l’altro brano che spicca per le dimensioni, 11 minuti di grande delicatezza. Anche qui le tastiere iterative disegnano una architettura di grande fascino, con più libertà rispetto al primo brano, temi che si susseguono, si incastrano, appaiono, scompaiono e poi ricompaiono.

Degli altri tre brani segnalazione doverosa per “Mitosi“, non lontana dalle atmosfere di “Mitochondria“, ma con un piglio più deciso.

Se c’è un difetto in questo disco, difetto tipico di molti dischi usciti nella seconda metà degli ’80, è una certa freddezza dei toni sintetizzati. L’impressione è che questi brani, suonati da una vera orchestra, avrebbero una maggior capacità attrattiva e risulterebbero ancor più piacevoli all’orecchio, ma sono ben chiare le motivazioni che spingevano i compositori di allora (e di oggi, a dirla tutta…) a preferire questo tipo di soluzioni.

Dopo questo disco, che non ebbe certo l’eco che meritava, Nanni pubblicò un interessante lavoro, “L’angelo dei numeri” per poi sostanzialmente scomparire dalla scena.
Recentemente la Affordable Inner Space ha ripubblicato “Elicoide” in una versione allargata (praticamente raddoppiata) con altre tracce dell’epoca, anch’esse di ottima qualità, per nulla inferiori a quelle pubblicate nel 1987 (in particolare la circolare “RNA“, “Meiosis” che mi ricorda il miglior Michael Galasso, la rilassata e stupefatta “DNA“), purtroppo solo in doppio vinile e in download (riparleremo di questa discutibile tendenza).

Ma, se siete interessati a questo oscuro, quanto talentuoso, musicista, il consiglio è di recuperare queste ristampe (e di corsa, prima che scompaiano).

MAX RICHTER “Sleep”, 2015, Deutsches Grammophon

Vi ho già parlato un paio di volte (qui e qui) di Max Richter, forse il nome più interessante in ambito post-minimalista (o neo-classico, come insulsamente dicono oggi…) emerso negli ultimi 10-15 anni.
Torno su di lui per parlarvi di questo singolare progetto intitolato (non a caso) “Sleep“.

Trattasi di un box di ben 8 cd contenente una unica composizione della durata complessiva di poco meno di 8 ore e mezza, a sua volta divisa in 31 sezioni di varia lunghezza con una strumentazione che, oltre al compositore a piano e tastiere, vede anche un minimo di archi (due violini, una viola e due violoncelli) e la voce di una soprano.

L’idea di fondo che ha mosso il compositore è stata quella di creare una musica che favorisse il sonno, che accompagnasse l’addormentarsi e ci cullasse per tutta la notte (non a caso l’ha anche sinteticamente definita “una ninna nanna di otto ore“).
In effetti nell’ascoltarla non si può non notare la lentezza dell’esposizione dei temi, la loro ripetitività, davvero figlia del minimalismo, specie quello che Gino Dal Soler definisce holy minimalism, una delicatezza e leggerezza che molto bene si sposa con la qualità della scrittura (Richter continua ad avere una ottima mano).

Il problema di questo lavoro consiste proprio nella sua qualità e nel fatto che il compositore, secondo me, abbia pienamente raggiunto i suoi obiettivi. Infatti se ascolterete questi brani, in sequenza, una traccia dopo l’altra, probabilmente vi capiterà di esserne avvolti, molto lentamente, in un’aura di vago annoiamento, e rischierete DAVVERO di addormentarvi.

Perché il punto è: come giudicare un disco che, programmaticamente, vuole essere noioso e che invece di stimolare la vostra attenzione tende ad assopirvi (e per di più ci riesce) ?

E’ una strana sensazione, perché ciò che normalmente consideriamo un errore, un’opera mal riuscita, qui diventa la dimostrazione di come il compositore abbia centrato il suo bersaglio, e non si sa proprio cosa pensare.
Forse è un capolavoro, forse una pizza mortale, forse uno strumento utile a vivere momenti meravigliosi (ma di cui non serberete ricordi coscienti). Anche perché, astutamente, agli 8 cd è stato abbinato un disco blu-ray contenente tutte le 8 ore abbondanti di musica per cui, se vorrete, potrete davvero mettervelo la sera e tenerlo acceso per tutta la notte a cullarvi con attenzione e delicatezza.

Insomma, un disco tra i più spiazzanti e ingiudicabili di sempre, e questo forse, di questi tempi, è già un grosso merito.

ATROX “Fiori neri”, 1990, Point Zero

In passato ho a volte ricordato la mia passione (anche) per l’hard-core punk italiano degli anni ’80 (la seconda metà degli anni ’80, con qualche propaggine nel decennio successivo).

Uno dei dischi che ho amato di più è questo “Fiori neri” dei lombardi Atrox (da non confondersi con i quasi omonimi A.T.R.O.X., tutta un’altra storia).

Di loro ho amato la capacità di coniugare l’irruenza e l’energia tipica dell’HC con la tendenza a non soffocare il cantato sotto tonnellate di rumore, senza escludere qualche accenno di melodia: una sorta di HC morbido e potente allo stesso tempo, nel quale i testi, politicamente impegnati, come da regolamento, riescono a risultare comprensibili e non scompaiono in un mare di distorsioni e rauche urla.

Fiori neri” contiene 25 tracce per poco più di mezzora, e già questo vi racconta l’urgenza dei pezzi, il loro bruciare rapidamente (mai sopra i 3 minuti, spessissimo sotto i 2) e nonostante ciò mantenere uno sviluppo non necessariamente banale. Formazione classica: voce, chitarra elettrica, basso e batteria più un’ulteriore voce.

Difficile segnalare qualche traccia in particolare, il livello medio è sempre molto buono. Forse “Futuro” che parte fortissimo per poi passare a cori innodici, “Città maledetta“, canzone dall’incipit bello energico, con gli occhi della tigre, che poi si concede pure un assolo di chitarra elettrica, l’accoppiata “Condannati” (batteria velocissima e chitarra elettrica a rincorrerla in un tripudio di cori) e “Prigionieri” (gran crescendo di rabbia e intensità), il puro, meraviglioso, hard-core di “Odia“, la ritmica ossessiva di “Network” condita con la chitarra e i cori più effetti speciali vari e una batteria particolarmente fantasiosa, l’ottima “Felici di educare” che si permette anche una lunga introduzione chitarristica prima di lanciare la batteria a massima velocità per poi nel finale rallentare e poi riaccelerare (e tutto questo in meno di due minuti). In “Poga !” troviamo addirittura delle tastiere in una introduzione alla quale però poi segue uno dei pezzi più intensi, veloci ed energetici del lotto, citazioni infine per la lenta, ma costante, accelerazione di “Fiori neri” con finale epico, e per “Spezzeremo le catene“, parzialmente cantata in coro, che in sé riassume, al meglio, tutte le caratteristiche di questo genere musicale.

Da segnalare anche qualche momento più leggero: il siparietto “039“, la cover insensata e accelerata, 50 secondi, di “O sole mio“, la cantabilità e morbidezza (musicale) di “Cento anni“.

Un disco che unisce perfettamente l’espressione della rabbia metropolitana con una ottima sapienza tecnica e un songwriting ispiratissimo, il tutto in una cornice che non sacrifica la cantabilità all’energia e alla velocità.

per info e tanto altro materiale, potete andare sul loro sito

JON GIBSON “Relative calm”, 2016, New World records

Se c’è un musicista al cui pensiero le prime parole che mi vengono in mente sono umiltà e professionismo, questi è Jon Gibson.

Compositore e sassofonista, classe 1940, è uno dei componenti cardine del Philip Glass Ensemble praticamente da sempre (ma ha anche suonato con Steve Reich, Terry Riley e Lamonte Young, la crème de la crème del minimalismo).
Lontano dai riflettori e dalla stampa, anche quella specializzata, Gibson da sempre vive una sorta di doppia vita. Orchestrale e musicista perennemente in tour e, quasi privatamente, compositore di eccellente livello.

Sono pochi i dischi realizzati da lui (credo sette ad oggi, nell’arco di oltre 40 anni…), ma tutti più che degni di essere ascoltati.
Compositivamente appartenente alla corrente del minimalismo (o al post-minimalismo… dipende dai punti di vista), per quanto in lui ogni tanto l’indole del sassofonista prenda il sopravvento, sembra essere uno di quei compositori che scrivono musica solo quando i loro lavori facciano pressione per emergere, solo quando la creatività si trasforma in bisogno da soddisfare necessariamente.

Niente mestiere per lui, nessun obbligo con il mercato discografico.

Questo disco, il suo più recente, non posso certo definirlo il suo migliore, da questo punto di vista i suoi primi due lavori pubblicati dalla Chatam Square di Philip Glass negli anni ’70 restano inarrivabili, ma suona così piacevole e fresco che non posso non parlarvene. E suona fresco soprattutto se lo si confronta con i lavori dei suoi colleghi, storicamente più importanti ed influenti, che, dopo tanti anni, tanti dischi e tante composizioni, sembrano invece aver perso la capacità di sorprenderci, vittime di una aurea mediocrità che faticano a scrostare dai loro spartiti.

Relative calm” si struttura su quattro lunghi brani (tutti intorno ai 17-18 minuti), molto diversi tra loro, composti nei primissimi anni ’80 per un balletto di Lucinda Childs, e solo recentemente resi disponibili per la pubblicazione (meglio tardi che mai).

Si inizia con il brano che da il titolo al disco, “Relative calm (rise)“, il pulsare di un telegrafo innesca gli altri strumenti: un pianoforte ripetitivo più una marimba delicata e anch’essa minimale (alle percussioni in tutto il disco troviamo l’eccellente David Van Tieghem) più il drone di un organo, per una composizione che fa della grazia e della iteratività la sua arma principale, cullandoci in una spirale di ascesi ed eleganza.

Q-music (race)” parte con un pianoforte molto glassiano sul quale però si inseriscono le tastiere in maniera molto morbida, ascendendo e discendendo con accordi che sembrano ondeggiare sull’acqua. Anche questo brano non nasconde la sua matrice minimalista, pur deviando verso spiagge più delicate.

Extension (reach)” cambia atmosfera, tutto realizzato per sassofono soprano sovrainciso è caratterizzato da brevi frasi che si susseguono, non si capisce bene quanto ci sia di improvvisato o di scritto, ma il risultato è un lungo dialogare tra sé e sé, piacevolmente libero.

L’ultimo brano, “Return (return)” è il più leggero del lotto, con una ritmica e delle atmosfere che possono ricordare alcuni lavori di Andrew Poppy. Percussioni, tastiere e sassofono per un pezzo solo apparentemente facile e pop, ma in realtà sempre erede della musica minimale (e decisamente il brano più post-minimalista dell’intero CD).

Ribadisco il concetto: questo disco non è un capolavoro, e nemmeno il capolavoro di Gibson, ma la conferma di un artista che meriterebbe maggiore attenzione e maggiori riconoscimenti, perché sarebbe ora che la critica musicale non si facesse troppo condizionare dalle sirene del marketing e dal sapersi mettere in mostra, imparando a valutare gli artisti per le loro oggettive qualità.

Coerenza e costanza.
Forma e sostanza.

FUTURO ANTICO “Futuro antico”, 1980, Black Sweat records

Quando nei primissimi anni ’90 comprai l’esordio in vinile del gruppo Futuro Antico, intitolato significativamente “Dai primitivi all’elettronica“, rimasi abbastanza deluso (soprattutto in relazione alle ottime recensioni che avevo letto).
Il gruppo, formato da tre musicisti di diversissima estrazione (Riccardo Sinigaglia, compositore di musica elettronica, Walter Maioli, ex-Aktuala e ricercatore di musica molto antica e Gabin Dabirè musicista di origine africana), aveva realizzato un disco nel quale si cercava di fondere le rispettive passioni e stili musicali, ma, almeno questa fu la mia impressione, i brani sembravano risentire di scarsa integrazione tra i tre con, di volta in volta, uno del gruppo a dare personalità ai brani e gli altri a fare poco più che da cornice. Il progetto sembrava mancare di omogeneità e reale integrazione tra i suoi componenti.
Riascoltato recentemente mi è sembrato migliore del ricordo che avevo, ma su questo, caso mai, torneremo nei prossimi mesi.

Quello che all’epoca non sapevo è che, prima del loro LP, era già stata pubblicata una cassetta autoprodotta a nome Futuro Antico contenente registrazioni risalenti addirittura al 1980.
A suonare c’erano solo i due italiani del gruppo: Sinigaglia alle varie tastiere elettroniche e agli effetti speciali più Maioli al ney (il ben noto flauto turco) e altri strumenti antico/primitivi (percussioni, flauti tibetani e armamentari vari).

Recentemente la Black Sweat records ha riproposto (per la prima volta) in CD questo lavoro che mi è, quasi per caso, capitato tra le mani.
E il disco mi è piaciuto davvero tanto.

Strutturato su quattro lunghi pezzi intorno ai 10 minuti, il disco vede interagire i due musicisti in maniera equilibrata e intensa.
Si parte con “Ao – ao“: le tastiere di Sinigaglia suonano ben memori del Riley di “Persian surgery dervishes” mentre il ney di Maioli disegna voli imprevedibili e incisivi. Un pezzo che si muove lentamente e rimane in costante equilibrio tra ipnosi e sprazzi di veglia.
Si prosegue con “Shirak“, stesse sonorità del primo brano e stessi riferimenti musicali (forse seconda parte di una medesima sessione di registrazione), ma una maggiore velocità e qualche momento di pura vertigine. Nelle tastiere qualche spruzzata kosmische sempre assecondata alla grande dal flauto di Maioli.
La terza traccia, “Uata Aka“, cambia mood: una leggera pulsazione elettronica, vagamente alla Cluster, sulla quale si innestano percussioni e flauto. Un pezzo di squisite libertà.
Conclusione in bellezza con il brano che da il titolo al disco (e al gruppo): percussioni, flauti e tastiere evocative in quello che appare come una specie di astratto panorama musicale dove si respira un’aria di bucolica e divertita mancanza di confini e steccati.

Per quello che mi riguarda una bella sorpresa.
Una interessante e meritoria riscoperta.

p.s. Bella la ecologica confezione del CD 🙂

p.p.s. Immagino che la Black Sweat records, e le altre etichette dedite a ristampe in ambito (più o meno) di musiche di avanguardia, abbiano le proprie buone ragioni per avere smesso di stampare le loro pubblicazioni ANCHE in CD, ma sappiano che esiste uno zoccolo duro di appassionati del supporto fisico che NON hanno il giradischi e NON vogliono comprare LP. Se questo disco NON fosse stato pubblicato anche su supporto digitale io NON l’avrei mai comprato. Siete sicuri che valga davvero la pena di non riservare una, magari piccola, tiratura in CD per quelli come me ?