Pierluigi Castellano è, perdonatemi l’ennesimo uso di questa espressione retorica, uno dei segreti (purtroppo) meglio custoditi della musica di ricerca italiana.
Cercheremo in questo lungo post di disvelarlo agli occhi di quei tanti che non ne hanno mai sentito parlare (anche se io stesso vi parlai a suo tempo del suo lato giornalistico in questo post).

Esordisce nel lontano 1985 con “La boule de neige“, musiche per l’omonimo spettacolo teatrale di Fabrizio Monteverde, ed è un esordio col botto: fin dalla prima traccia, “Elisabeth“, splendida e fulminante, con una eccellente Patrizia Nasini alla voce in una forsennata rincorsa tra tastiere e archi, in una specie di originalissima non-canzone minimalista. A seguire un altro pezzo bellissimo, “La boule (tema doppio)“, molto più tranquillo, con un pianoforte che prima disegna lente melodie circolari per poi passare ad un insistito vagamente mertensiano (specie nelle voci, che in entrambi i brani, cantano in una lingua inventata, Castellano avrà sempre una particolare simpatia per idiomi fuori dal comune), con accelerazioni improvvise e melodie che si intersecano deliziosamente.
Ma anche oltre le prime due tracce, “La boule de neige” è un disco che stupisce per lo spessore della scrittura: un post-minimalismo europeo di ottimo livello che non aveva nulla da invidiare ai coevi Mertens, Nyman, Poppy e compagnia cantando, con, a volte, sorprendenti vicinanze con Mikel Rouse.
Peccato (e vedremo che un certo tipo di sfortuna sarà una costante) che la General music non lo distribuisca in maniera adeguata e questo gioiellino circoli pochissimo. Io devo personalmente ringraziare un bravissimo e competente commesso di Rinascita, quella nella storica sede di via delle Botteghe Oscure a Roma, che me lo fece ascoltare (ci misi un istante a decidere di comprarlo).

L’anno dopo la romana Mantra records (etichetta legata al fondamentale negozio Disfunzioni Musicali) distribuisce il suo secondo lavoro, “Danze“.
E’, per molti versi, il secondo capitolo di un medesimo progetto: anche qui troviamo raccolte musiche per spettacoli di teatro e danza, anche qui ritroviamo brani più tipicamente post-minimalisti (il Mertens allegro di “Cookin’ you” messo in, bellissima, apertura, le tastiere iterative e danzerecce di “Depero“, con i sax illuminanti nel finale, le riflessioni per pianoforte, tastiere e violino struggente di “Astasia“, con ancora l’eccellente Patrizia Nasini alla voce, e quelle con il flauto protagonista di “Pasolini“, la placida e intensa iteratività di “Fine senza fine“) come anche brani meno legati ad invenzioni melodiche (le percussioni di “Nella notte“, l’elettronica in libertà di “Fru Fru“).
Un secondo capitolo forse leggermente meno ispirato del primo, ma ancora di ottimo livello.

Passano 4 anni e, ancora per Mantra records, esce, in un CD dalla confezione originale e ambiziosa, “Noi, my, us“, lavoro che segna la raggiunta maturità di Castellano.
Disco compattissimo, senza cadute di tono, realizzato per tastiere più un piccolo, ma funzionale, ensemble acustico (clarinetto, tromba, violino, viola, violoncello) che, incorniciati tra due estratti de “La traviata” di Giuseppe Verdi, ci delizia con gioiellini tipicamente made in Castellano quali “In a wonderland” (ancora la voce, anzi le voci, di Patrizia Nasini in un brano che unisce ripetitività e cantabilità), l’allegro e trascinante “Nate zeko” (ancora le lingue inventate da Francesco Antinucci), l’elegante e tranquilla “Towitara” (con la Nasini che ci ricorda Meredith Monk per 9 minuti di assoluta meraviglia), la ritmata “Flatland” (quanto ho amato quel libro !), le volute raffinate di “Zavasta kino“, le tastiere circolari di “Natività” che man mano si arricchiscono in un classico crescendo-Castellano.
Dopo un disco così mi aspettavo che la fama di Castellano superasse non solo il Grande Raccordo Anulare, ma volasse alta anche oltre le Alpi. E invece nulla si muove (e va pure detto che, a distanza di anni, sfortuna vuole che quasi tutte, se non tutte, le copie di questo disco si siano abbronzate e ormai nemmeno i fortunati possessori dei CD hanno più la possibilità di riascoltare queste musiche).
Tanto per gradire anche la Mantra chiude, e Castellano smette di avere una casa discografica che credeva in lui.

Inizia così un periodo abbastanza avaro di pubblicazioni, interrotto dalla pubblicazione di un CD decisamente inusuale per gli standard ai quali Castellano ci aveva abituato. “Sevilla X” (1992, per la misteriosa etichetta AS) contiene due lunghi brani ambient (o, per meglio dire, due versioni della stessa composizione), piuttosto riusciti, prodotti per la sonorizzazione di una realtà virtuale voluta dall’ENEL per l’EXPO universale di Siviglia 1992. Lavoro interessante, ma sostanzialmente un unicum musicale nella produzione di Castellano.
L’intermezzo di “Sevilla X” si colloca all’interno di un lungo silenzio discografico di circa otto anni, ed è solo a cavallo del nuovo millennio che Castellano torna a produrre alcuni lavori: “Computer dreams“, nel 1999 e “2002“, tre anni dopo, entrambi sostanzialmente autoprodotti per la sua Orlando records, ed entrambi circolati pochissimo.

“Computer dreams“, se dimostra una sempre ottima vena compositiva, sembra soffrire della realizzazione in perfetta solitudine (Castellano suona tutti gli strumenti) e di un certo dominio dei suoni sintetizzati. Contiene comunque diverse composizioni molto riuscite: segnaliamo in particolare l’iniziale “Hardware sex“, dall’inizio che occhieggia a certo Jarre per poi svilupparsi in splendidi incroci tra la chitarra elettrica, uno (pseudo ?) sax e le tastiere, l’elegantissima “Lysi waltz” dalle intricate melodie e un flauto traverso in bella evidenza, l’allegra “Speed of life” dagli esplosivi crescendo.

“2002“, uscito solo in CDr, contiene 19 tracce medio-brevi, da poco più di un minuto ai 6 minuti, tutte caratterizzate dall’utilizzo di una elettronica a volte quasi-ambient, a volte più dissonante. Materiale abbastanza diverso dalle consuete produzioni di Castellano. Il disco si chiude con la lunga ventesima traccia, “Walking on crystals“, 13 minuti di avvolgenti atmosfere spaziali.

Sempre nel 2002 la piccola, ma prestigiosissima, Ants pubblica (purtroppo solo in CD-r…) l’opera sull’AIDS “Zonacalda“, primo disco in cui il nostro si confronta con un tema vero e proprio e con una qualche forma di teatro musicale, ed il risultato è interessante e valido.
Il disco è, in qualche modo, figlio, anche musicalmente, della trasmissione radiofonica Audiobox, vi suonano, tra gli altri, musicisti di spessore come Paolo Fresu e Luca Venitucci, e alterna dei recitati (su tappeti di musica apparentemente improvvisata) affidati a Federica Santoro a vere e proprie arie più vicine alla normale produzione di Castellano, per poi concludersi con delle appendici realizzate con Alvin Curran (il gran maestro romano-statunitense del minimalismo e dell’avanguardia degli anni ’70).
Altro lavoro meritevole, ma passato inosservato.
Segnaliamo, solo per dovere di cronaca, una uscita del 2008, “Open space“, pubblicata da Rai Trade. Disco mai visto e, di conseguenza, mai ascoltato, sul quale nulla possiamo dire.
A questo punto, e finalmente, dopo un decennio di silenzio, Castellano ricompare con una trilogia di lavori intitolati “Paradise lost” pubblicati (purtroppamente) solo in formato digitale.

Il primo volume, 7 brani per 73 minuti di musica (potete facilmente intuire la dimensione temporale dei brani) presenta composizioni caratterizzate da una morbida iteratività nella quale melodie circolari e arrangiamenti curatissimi regalano momenti davvero intensi.
In apertura “Xantia“, una meraviglia in eterna spirale circolare, nella quale tastiere e violoncello (quelli che sembrano essere gli strumenti principali di questo lavoro) costruiscono un tema splendidamente oscillante e continuamente in ripartenza con un finale arricchito da percussioni tribaloidi di grande effetto. Un gioiellino di livello assoluto che apre il disco alla grande.
Ma tutto il primo volume è comunque di buon livello: mi piace segnalarvi anche lo splendido e continuo borbottìo di “Alpha Centauri ascending” (tastiere ripetitive ad incrociarsi e sovrapporsi in un lento crescendo che sembra davvero elevarci verso stelle lontane fino all’arrivo delle percussioni che spostano leggermente il pezzo verso lidi vagamente oldfield-ani, ma un Oldfield estremamente dilatato), il pianoforte, of course, di “Piano rendering” che, dopo una lunga introduzione solista (con una melodia che mi ricorda qualcosa, ma non so cosa), viene affiancato dagli archi in un brano che può ricordare un Mertens passato nell’ammorbidente e che ci culla indefinitamente con dolcezza dispiegando variazioni semplicemente bellissime.

Il secondo volume, 9 brani per 76 minuti, presenta un uso interessante della chitarra elettrica (usata come strumento solista a cui viene affidata la melodia principale, ad esempio nell’iniziale “Rifferama“, dove, con l’aiuto di archi e voci emerge un pezzo di grande energia e fantasia, classicamente alla Castellano) e delle atmosfere più pop, magari vicine a certo prog strumentale inclassificabile come in “Apocalypsis“, dove è ancora la chitarra lo strumento sul quale poggia il brano (e qui, in certi punti, mi viene in mente nuovamente Mike Oldfield, non a caso un polistrumentista soprattutto chitarrista).
Degli altri brani di questo secondo volume, globalmente più discontinuo del primo, qualche rapida citazione per il bel lirismo di “Paradise lost” (11 minuti di melodia ampia e sontuosa, ancora con la chitarra in primo piano insieme agli archi, alle tastiere e a un violoncello commovente), i possenti (finti ?) fiati di una circolare “Andromeda Big B“, le inaspettate chitarre acustiche di “Portixeddu sunrise“.

Il terzo volume, altri 8 brani per 76 minuti, vede una presenza importante delle voci e spicca per un lirismo di alto livello.
Si apre con la ottima “Agnus Dei one“, tastiere delicatissime e ripetitive insieme a una stranissima, eppure intrigante, voce filtrata che canta in una lingua non comprensibile una melodia di quelle che piacciono a Castellano (capace di unire una oggettiva cantabilità con uno sviluppo inaspettato e originale) in un pacifico e memorabile crescendo. Più apparentemente sfuggente “Disco Brecht“: andamento claudicante, voce femminile ad inerpicarsi lungo melodie complesse, prima in solitaria poi insieme a un sax, in quello che potrebbe sembrare un brano difficile da ascoltare e che invece, per i miracoli tipici di Castellano, si risolve in una composizione che acchiappa l’ascoltatore e non lo molla fino alla fine. Un gioiello.
Discorsi più o meno simili, e risultati finali ancora eccellenti, per “Italian western 3” (ancora voce femminile al centro del brano, ancora una melodia bella articolata, tastiere tutt’intorno a completare il quadro, ma non fatevi ingannare dal titolo, Morricone non c’entra nulla), per la spettacolare “Lotus flowers” (voci femminili, melodia bellissima e intricata, linea di basso placida + violoncello e archi, e sempre quella circolarità in ascensione che è un marchio di fabbrica del miglior Castellano) e per “Millecolori” (altissime voci femminili in un brano che odora di primavera, con una scelta dei suoni molto particolare, un forse-organetto, un forse-dulcimer, una linea di basso borbottante che rasserena, qualcosa che si potrebbe ballare all’aperto tutti insieme).
Menzione speciale per la conclusiva “Chtulhu dance” che miscela archi e fiati atonali, rullante insistito, tastiere vagamente cosmiche in un frullato stranissimo, forse dalle ambizioni spettraliste, ma di grande effetto (e dura 10 minuti abbondanti).
Provando a tirare le somme potremmo definirlo un ritorno alla grande (fermo restando che proporre così tanti materiali tutti assieme mette in una certa difficoltà l’ascoltatore, forse sarebbe stato meglio fare una maggiore selezione, ma capiamo che, dopo tanti anni di digiuno, la voglia di proporre la propria musica fosse enorme).
In sintesi, e con nostra personale gioia, Castellano torna al suo meglio, con la consueta ricca vena compositiva, il suo stile personale e tutto ciò di bello che avevamo conosciuto in passato.
Volendo segnalare gli aspetti negativi di questa trilogia non possiamo non sottolineare la assoluta mancanza di un apparato iconografico (solo la foto di copertina, peraltro senza che vi sia indicato nulla) e informativo (nulla a parte i titoli dei brani). Oggettivamente un po’ troppo poco, anche perché io resto dell’idea che anche la musica liquida debba essere corredata da metadati utili all’ascoltatore.
Anche sulla qualità della registrazione ho qualche dubbio: premesso che l’ho sentito dalle cuffiette del PC (il mio stereo ancora non sa riprodurre i file FLAC) devo dire che i suoni mi sono sembrati un tantino troppo ammucchiati, come se la musica mancasse di spazialità, e anche un po’ troppo distorti in certi momenti.
In ogni caso: un artista di grande spessore e troppa poca fortuna.
Chi volesse approfondire questa trilogia, può ascoltarla e/o acquistarla cliccando qua.
p.s. Sottolineiamo come questa incredibile incapacità a vendersi (nel senso buono) di Castellano abbia fatto si che il suo sia probabilmente il nome più importante tra quelli assenti nel bel libro di Antonello Cresti “Solchi sperimentali Italia“, sorta di ponderosa mappatura di quanto abbia partorito lo stivale in tema di musiche “altre”. Mentre sono regolarmente, e giustamente, presenti i Venosta, i Milesi e gli altri artisti musicalmente affini a Castellano e a lui perfettamente coevi, di lui non vi è traccia nelle moltissime pagine del libro. E non è certo un caso.