Il 2012, e non siamo ancora a metà, sembra essere un anno che si stia sforzando di darmi la possibilità di recuperare, in varie forme, qualcuno dei momenti (a mio parere) fondamentali degli anni ’70 musicali, momenti che all’epoca, a causa della giovane età, non ebbi modo di vivere in diretta.
E’ il caso della messa in scena dell’opera musicale che io ritengo più importante nella seconda metà del secolo scorso (per “opera musicale” intendo qualcosa che sia erede della tradizionale opera lirica ma la modernizzi significativamente pur mantenendone molte caratteristiche: rappresentazione teatrale, coreografie e scenografie, recitati e cantati e la musica che sostiene il tutto).
Mi riferisco ad “Einstein on the beach” di Robert Wilson e Philip Glass, opera che, a distanza di oltre 35 anni dalla sua prima assoluta, è stata nuovamente montata e portata in scena grazie ad un pool di produzioni (dal BAM newyorkese al Barbican londinese passando per l’Amsterdam music theatre e l’Università di Berkeley in California) in maniera filologicamente correttissima (musiche eseguite dal Philip Glass Ensemble diretto da Michael Riesman, già tastierista e direttore del gruppo nella prima edizione, coreografie di Lucinda Childs eseguite dalla sua compagnia di danza ed un gruppo di coristi e attori scelti certosinamente per rivestire le varie parti).
Non sto qui a spiegarvi il perché e il percome questa sia un’opera centrale nella storia della musica più recente e in particolare del secondo dopoguerra (nel corposo libretto dedicato a questa messa in scena altri, ben più qualificati di me, tra i quali il maestro Franco Fabbri, ne parlano a lungo), mi limiterò pertanto ad un piccolo pacchetto di osservazioni in libertà, tra il serio e il faceto, giusto per condividere con voi le sensazioni di quella che per me resterà una serata storica.

1) Preludio all’opera
Avevo sempre notato una grossa differenza tra la durata dell’opera, così come veniva raccontata nelle cronache anni ’70, e la durata delle 2 incisioni ufficiali che essa ha avuto (la prima, alla fine degli anni ’70 sulla sfortunata Tomato records, un box bellissimo di 4 vinili, edizione poi acquisita dalla CBS e ristampata in digitale, la seconda, un po’ più lunga, pubblicata dalla Nonesuch in 3 cd registrati in occasione della seconda occasione, 1992, in cui l’opera venne rimontata). A dispetto delle “oltre 4 ore” o addirittura “5 ore” di cui si vociferava nelle cronache degli anni ’70, sui dischi che io conoscevo si faticava a superare le 3 ore. Vedendola dal vivo ho capito perfettamente cosa determina questa differenza (per quello che mi riguarda posso dirvi che quello che ho visto è durato circa 4 ore e 50 minuti). In particolare mi voglio soffermare a descrivervi l’inizio dell’opera.
“Einstein on the beach” è strutturato, senza interruzioni di sorta, in 4 atti connessi l’uno all’altro da quelle che Glass e Wilson hanno chiamato knee play, espressione traducibile come scene di giunzione o, più semplicemente, giunture, che hanno anche la funzione di aprire e chiudere l’opera. Chi ha ascoltato i dischi pubblicati sinora ricorderà che l’opera si apre con la prima knee play e, in particolare, con l’organo che suona una semplice melodia di tre note ripetuta circolarmente sulla quale, dopo pochissime ripetizione, entra il coro che inizia a cantare un testo basato solo su dei numeri (“one, two, three, four, two, three, four“, e via cantando) mentre poco dopo si aggiungono anche le voci di due attrici che recitano, anch’esse circolarmente, dei testi scritti da Christopher Knowles, il tutto per circa 4 minuti.
Nella realtà le cose non stanno proprio così, e cercherò di raccontarvi come l’opera mi ha accolto nel bel teatro Valli di Reggio Emilia.
I cancelli sono stati aperti relativamente tardi, oltre le 18.30 (l’inizio dell’opera era indicato per le 19), entro nell’atrio e perdo qualche minuto per acquistare il libretto (oltre 130 pagine…) per poi dirigermi verso la platea. Apro la spessa porta e vengo accolto da Mick Rossi, unico presente nella buca dell’orchestra, che sta suonando proprio quelle 3 note di cui ho scritto sopra. In platea non c’è ancora nessuno, sul palco un telo grigio nasconde la scena, in basso a destra noto un riquadro bianco illuminato dalle luci del palcoscenico dove sono presenti 2 sedie vuote. Mi siedo, passano alcuni minuti con i primi spettatori che prendono posizione e il tastierista che continua a suonare le 3 note. D’improvviso sul palco entrano le due attrici principali dell’opera (Helga Davis e, bravissima, Kate Moran), con movimenti lentissimi ed espressione beota/sorridente si siedono. Passa qualche minuto ed iniziano a recitare il loro testo effettuando contemporaneamente piccoli movimenti con le braccia, i polsi e le mani, il tastierista continua imperterrito a suonare le stesse 3 note, gli spettatori aumentano (su di loro tornerò più avanti) e, man mano che la narrazione delle attrici procede, nella buca entra il coro, un cantante alla volta, e prende posizione. Anch’essi si muovono lentamente e hanno sui loro visi stampate quelle strane espressioni sorridenti.
Tutto questo procede per una mezzora circa.
Una volta completata l’entrata del coro prendono posizione anche i musicisti del Philip Glass ensemble e, quando il pubblico ha finalmente terminato il suo ingresso, si abbassano le luci e Michael Riesman da il via al coro che parte con il suo “one, two, three, four…” che chi ama quest’opera ben conosce.
Ecco, tutto questo preludio all’opera, questa splendida forma di accoglienza verso il pubblico, questo lento accompagnarci DENTRO l’opera, è stato tagliato dalle edizioni discografiche per il semplice fatto che non è replicabile su di un qualunque supporto. E’ un puro momento di vita che o viene vissuto direttamente oppure si può raccontare, ma non lo si può registrare (se non rendendolo l’ombra di se stesso e quindi altro). Ma, per chi era sintonizzato sulle giuste frequenze, è stata una accoglienza deliziosa (e musicalmente molto affascinante).

2) La borghesia cafona
Mi è spesso capitato, recandomi in teatri seri (generalmente lirici, ma il discorso vale anche per quelli più tradizionalmente teatrali) per sentire/vedere spettacoli che non appartenevano alla tradizione (lirica o teatrale), di ritrovarmi in compagnia di signori e signore riccamente vestiti (pellicce e gioielli per le signore, costose giacche e cravatte per i signori) completamente ignare di cosa andavano a vedere e del tutto impreparati ad assistere allo spettacolo per il quale avevano (immagino) pagato. Questa cosa è successa anche a Reggio Emilia, con l’aggravante di una serie di comportamenti discutibili che hanno creato delle situazioni grottesche.
Ma andiamo per ordine.
Come accennato sopra, “Einstein on the beach” dura quasi 5 ore senza interruzione. Pur essendo formalmente diviso in 4 atti l’azione scenica e la musica sono continue per tutta la durata dell’opera. Molto carinamente il teatro ha dato a tutti coloro che entravano in teatro un foglietto in cui si faceva presente questa peculiarità e vi era scritto anche quanto segue: “il pubblico può tranquillamente entrare e uscire dalla sala, durante lo spettacolo, facendo poi ritorno al proprio posto“. Immagino che in un paese normale quel tranquillamente sarebbe inteso come un “in modo tranquillo”, ovvero senza disturbare, e invece alla fine del primo atto (nel momento in cui è sceso il telo grigio a nascondere la scena e l’ensemble ha iniziato a suonare la seconda knee play mentre sul palco sono tornate le due attrici), non appena si è alzato dalla sedia il primo coraggioso, metà (non scherzo) del teatro si è sentita autorizzata ad alzarsi dalla sua poltrona, chiedere al vicino di alzarsi per farlo passare ed hanno abbandonato la sala. Ma il peggio è stato che tutto questo è stato fatto chiacchierando, commentando, facendo (in una parola) un gran casino. E anche alcuni di quelli rimasti seduti (era passata solo un’ora ma sembravano già duramente provati) si sono messi a chiacchierare tra loro provocando l’ovvia reazione dei (pochi) presenti realmente interessati allo spettacolo e si è quindi scatenata la consueta serie di “ssssssssssssssssshhhhhhh!” per tentare di zittire queste persone che, personalmente, non riesco a definire meglio che CAFONI. Gente presuntuosa che mancava di rispetto sia verso gli altri spettatori (quelli interessati allo spettacolo) sia verso i performers che, mentre loro chiacchieravano e facevano battute di bassa qualità, sul palcoscenico suonavano, cantavano, recitavano, sudavano di fronte a loro.
Purtroppo quando si va ad uno spettacolo solo per mettersi in mostra e non per amore dell’arte questi tristi risultati sono inevitabili.
E’ decisamente più facile sfoggiare un gioiello o un vestito di chissà quale stilista che avere la consapevolezza di dove si va e cosa si va a fare.

3) Roma, Italia
Come sapete vivo a Roma e, fortunatamente, in questi tanti anni di passione per il minimalismo ho avuto spesso l’occasione di vedere semplici concerti di questo tipo di musica e, ogni tanto, anche spettacoli più complessi (penso a cose come “Le streghe di Venezia“, “Powaqqatsi“, ” La Belle et la Bete“, “Monsters of grace“, “Les enfants terribles“, tutte di Glass, o a “Three tales” di Steve Reich) con messe in scena più o meno complicate. La cosa incredibile è che se sono riuscito a vedere questi lavori è stato quasi esclusivamente per merito di produttori esterni al circuito dei teatri d’opera tradizionali (in particolare devo ringraziare il Teatro Olimpico, per gli anni della mia giovinezza, e, attualmente, l’Auditorium Parco della Musica) mentre sono straordinariamente latitanti le istituzioni che dovrebbero essere particolarmente preposte alla divulgazione della musica (più o meno) contemporanea.
Prendiamo “Einstein on the beach“: è un lavoro che ormai ha passato i 35 anni, non è più musica d’avanguardia o roba simile, è un pezzo della Storia della musica. Eppure ogni anno i tanti enti lirici che mettono in cartellone le loro proposte continuano indefessamente a proporci l’ennesima Aida, la millesima Tosca, la solita Carmen… e al massimo aggiungono agli evergreens della lirica qualche proposta strana pescando sempre e solo in quello che propone l’Accademia. Prendere atto che negli ultimi 40 anni siano nate musiche dignitosissime e mettere in cartellone qualcuno di questi lavori, magari anche perché hanno ricevuto un certo riscontro tra un pubblico che non è quello imbalsamato e impellicciato dei teatri lirici, ma è quello di coloro che amano la musica senza fossilizzarsi sulle etichette, questo proprio non riescono a farlo.
Può darsi che per la sua struttura “Einstein on the beach” sia un’opera particolarmente complessa da realizzare (ma sono il primo a non essere convinto da questa scusa tecnica), ma allora perché non dare l’opportunità al pubblico romano (e italiano) di godersi lavori più tradizionali (dal punto di vista esecutivo e realizzativo) quali “Satiagraha” o “Akhnaten” (sempre di Philip Glass), o ripescare quella perla meravigliosa che è stata “Genesi” di Franco Battiato, o un lavoro musicalmente ricchissimo come “Generazioni del cielo” di Roberto Cacciapaglia. Oltre a quelli già citati si potrebbero mettere in scena lavori praticamente MAI visti in Italia di artisti quali Meredith Monk, Steve Reich, John Adams, Michael Nyman, Robert Ashley e chissà quanti altri, ma state pur certi che nei prossimi anni continueremo a sorbirci Rigoletti e madame Butterfly.
Sia chiaro che non ho nulla contro l’opera lirica (fermo restando che non amo particolarmente la musica dell’Ottocento e che ho enormi riserve sulla qualità delle storie narrate in molte opere liriche), ma quello che proprio non riesco a comprendere è perché gli enti preposti alla lirica si siano confinati in un ghetto così angusto e si rifiutino aprioristicamente di dare spazio alle cose più interessanti prodotte negli anni ’70 e ’80 nonostante il (relativo) successo di pubblico che queste musiche hanno avuto (forse che la pecunia di quelli con gusti simili ai miei abbia un odore che non piace ai direttori artistici degli enti lirici ?).

4) I dettagli
Tornando all’opera voglio solo sottolineare un’ultima cosa. Trattandosi di un lavoro non narrativo, in cui i testi recitati (e spesso ripetuti diverse volte) non raccontano una storia e quelli cantati sono numeri o note, quest’opera trae la sua grande forza da una parte nella geometrica potenza della struttura (5 scene connettive, 4 atti, 3 diverse ambientazioni, il treno, il processo e il campo con astronave, che tornano 3 volte, ogni volta modificate) e dall’altra nella estrema cura del dettaglio. L’utilizzo di moduli ripetitivi nella musica, nei testi e nei movimenti degli attori e dei ballerini se costringe lo spettatore ad una attenzione molto superiore al normale (non bisogna semplicemente seguire una trama o una melodia) dall’altro fa si che ogni piccola variazione all’interno degli schemi seguiti sul palco provochi una piccola/grande epifania. Ogni variazione assume un’importanza molto maggiore di quella che avrebbe in una normale pièce teatrale o lirica, e questo ha comportato una incredibile cura nei dettagli da parte di Robert Wilson che per ognuno dei personaggi in scena ha preparato con grande attenzione ogni singolo movimento da effettuare.
Il risultato finale è un’opera di grandissimo fascino che proprio perché rinuncia a raccontare qualcosa riesce a rendere interessanti, per non dire esaltanti, piccoli dettagli che normalmente non avrebbero alcuna valenza.

E’ probabile che da questa serie di spettacoli verrà tratto un film documentario e (forse) verrà immortalata in maniera degna un’opera che a distanza di tanti anni dal suo esordio continua ad essere uno dei momenti più alti del teatro musicale moderno.
A modern masterpiece.
(chi volesse altre informazioni sulla nuova messa in scena può cliccare qui)