NEL CIELO DI INDRA dal vivo a Roma, il 3 febbraio 2018

Roberto Laneri è uno di quei musicisti e compositori italiani che, in barba alla qualità dei propri lavori, risultano pochissimo noti, anche tra gli addetti ai lavori, specie quelli stranieri.

E’ stato, storicamente, il più importante interprete italiano di canto armonico e il suo disco più celebrato è il capolavoro “La coda della tigre” dei Prima Materia (quartetto composto, oltre che da Laneri, da Claudio Ricciardi, Gianni Nebbiosi e Susanne Hendricks), pubblicato nel lontanissimo 1977 e recentemente ristampato con bonus tracks interessantissime dalla sempre attenta Die Schachtel.

Nonostante le buonissime recensioni e una certa fama, nei 40 anni che sono seguiti alla pubblicazione di questo disco i lavori di Laneri sono stati relativamente pochi e scarsamente presi in considerazione dalla critica.

L’ottimo “Two views of the Amazon” (Wergo, 1985, inspiegabilmente mai ristampato in CD), l’altrettanto valido “Memories of the rain forest” (Amiata records, 1994), l’introvabile, era stato allegato ad una rivista, e consigliatissimo, “Inside notes“, ancora insieme a Claudio Ricciardi, e gli altri dischi realizzati da Laneri non riescono più ad accendere le luci sulla sua arte. Ed è un peccato perché Laneri non è solo persona dotata e competente, ma è anche un compositore estremamente consapevole del suo ruolo e un instancabile divulgatore delle tecniche del canto armonico.

Il suo progetto più recente è un coro denominato “Il cielo di Indra” (“si dice che nel cielo di Indra vi sia una rete di perle costruita in modo che, guardandone una, in essa si vedono riflesse tutte le altre“), del quale Laneri è direttore, ed abbiamo avuto la fortuna di vederlo all’opera in un concerto nella romana Basilica di S.Eustachio.

La sensazione è che con questo progetto Laneri cerchi di testare le possibilità di contaminazione tra le tecniche del canto armonico e altri stili musicali. Non a caso dopo un primo brano (“Arkeion“) che è una sorta di esposizione del vocabolario di tecniche tipiche di questo coro, si passa ad una serie di brani in cui Laneri o si confronta con altre culture attraverso sue composizioni (“Organum“, legata/ispirata a Pérotin, o magister Perotinus, e tutta la scuola di Notre-Dame) o arrangia per il suo coro composizioni provenienti da altri ambiti (una bellissima versione di un compianto di Guillaume de Machaut, una interpretazione incredibile, metà overtones e metà raga, di “Spiritual” di John Coltrane, una delle sue grandi passioni musicali, Laneri oltre che performer vocale è anche suonatore di sassofono e di tanti altri strumenti).
Si aggiungono a questi brani due pezzi della tradizione: una canzone mongola (anche questa rivista in funzione del coro) e un inaspettato canto pigmeo arrangiato in maniera deliziosa.
Ha chiuso il concerto “Undifluus“, brano composto da Laneri, che chiude un po’ il cerchio ritornando ad atmosfere simili a quelle di apertura. Come bis hanno poi presentato un lavoro work in progress con ancora al centro il mondo della scuola di Notre Dame (e ancora un gran bel sentire).

Se l’idea di fondo dietro a questo progetto è sicuramente interessante, e mira a tirare il canto armonico fuori dalle secche di una certa autoreferenzialità, e se le composizioni di Laneri sono senza dubbio buone così come gli arrangiamenti di brani altrui, il concerto ha lasciato parzialmente a desiderare perché si ha l’impressione che, tecnicamente, il gruppo sia un po’ spaccato in tre parti: Laneri capace di un controllo pazzesco degli armonici, alcuni altri componenti con buone capacità e altri piuttosto indietro e non sempre all’altezza del proprio ruolo.
Va però specificato che questo progetto musicale non nasce con l’idea di poggiarsi su professionisti di canto armonico, quanto su persone legate dalla passione per queste musiche, e, forse, è proprio questo il risultato che il direttore e fondatore del coro si proponeva: creare contesti per la diffusione e lo sviluppo del canto armonico in Italia più che un pool di straordinari interpreti in un deserto generale.

In ogni caso un ottimo concerto in un contesto adattissimo (comprese le conclusioni di fine concerto ad opera di Don Pietro, un piccolo grande mito della Roma migliore)

tante altre informazioni le potete trovare sul suo sito ufficiale

THALASSA Festival IV, Roma, 2016

Ho avuto il piacere di seguire tutte e tre le serate che hanno composto la quarta edizione dell’ormai celebrato festival Thalassa (normalmente dedicato alla “italian occult psychedelia“, ma quest’anno incentrato particolarmente intorno all’etichetta veneta Boring Machines).
Di seguito qualche osservazione/annotazione riguardante i 12 concerti svoltisi nelle tre serate, ospitati, come di consueto, dagli spazi angusti del Dal Verme.

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– l’importanza del festival

La prima riflessione che mi viene da fare riguarda l’importanza dell’esistenza di un festival simile. Mettere sotto un unico cappello (pure fosse del tutto pretestuoso) musiche così particolari (e spesso anche così distanti) significa, di fatto, costruire una lente d’ingrandimento verso artisti che si fatica a legare alla normale musica da concerti (pur se in locali, diocomeodioquestaparola, alternativi).
Musiche sostanzialmente distanti dal pop, dal rock, dal jazz, dal reggae, dal folk e da tutti quei (per altro rispettabilissimi) generi che fanno la fortuna di tanti locali, piccoli e grandi, disseminati lungo la nostra penisola.
Calcolate che lo strumento che più si è visto sulle pedane sono state delle misteriosissime scatolette ricche di ingressi, uscite e potenziometri, ne saranno passate sul palco almeno una cinquantina…

Qui si punta l’attenzione verso musiche, ne parleremo più avanti, più libere e indeterminate (i fratelli Cappelli parlerebbero di “elettronica incolta” e, forse, potrebbe essere la macro-definizione più pertinente) e il solo fatto di mettere vicino tanti artisti fa si che ognuno, invece di splendere solo di luce propria, illumini il lavoro degli altri artisti e possa godere di una visibilità e una attenzione che difficilmente si potrebbero avere attraverso un concerto al singolare o un evento più normale.
La semplice esistenza del festival si trasforma in un moltiplicatore di attenzione verso queste musiche non solo da parte dei mass-media o dei social network, ma anche, più banalmente, da parte dei presenti ai concerti e dei semplici passanti al Dal Verme che, dato il sold-out di tutte e tre le serate, si sono limitati a transitare presso il locale senza accedere alla sala dei concerti pur tuttavia respirando l’aria dell’evento e rimanendone incuriositi.

– l’organizzazione del festival

Ho davvero molto apprezzato lo sforzo degli organizzatori nella gestione dei concerti, dei continui cambi palco (un applauso infinito, in particolare, a credo-si-chiamasse-Claudia che si è prodigata con una intensità incredibile nel gestire queste situazioni), nella puntualità dei concerti (a Roma tutt’altro che scontata), nel garantire, per quanto possibile, una situazione confortevole per tutti.
Dispiace per i problemi avuti con i vigili urbani e i vicini, in tutta onestà un tantino iper-sensibili e prevenuti verso una situazione che, pur avendo richiamato molte persone e nonostante l’altissimo volume dei concerti, è stata gestita al meglio per non creare particolari problemi a chi vive nelle vicinanze del concerto

– la sala per i concerti del festival

Molti si sono lamentati per l’esiguità del pubblico che ha potuto seguire i concerti (80 persone a serata). E’ evidente che per l’importanza e l’eco dell’evento, la sala del Dal Verme (non molto più grande della sala di casa mia…) è risultata ampiamente insufficiente.
La scelta degli organizzatori di non crescere, rimanendo ancorati al locale dove tutto è iniziato, è però secondo me corretta. Spostarsi, andare altrove, se avrebbe probabilmente aumentato il numero degli spettatori (così come le problematiche di un’organizzazione da svolgersi fuori casa, e quindi i costi) dall’altro avrebbe rischiato di eliminare tutti quegli aspetti costitutivi del festival che ne determinano l’anima.
La piccola sala, dove chi suona ha gli spettatori a pochi centimetri, dove tutti si è a contatto con tutti, dove è facilissimo familiarizzare… tutto questo rende l’atmosfera dei concerti del tutto peculiare, e perdere questo aspetto del festival rischierebbe di comprometterne la natura. Senza contare che la saletta così piccola, con le casse a volume discretamente alto, facilita tutte quelle distorsioni, quei feed-back e quella sporcizia sonora che, per molte delle musiche eseguite, sono tutt’altro che una cornice, determinandone il colore ideale.

– i concerti del festival

In generale posso dire che tutti i concerti sono stati degni di essere ascoltati, che tutti i musicisti presenti hanno fatto del loro meglio e che non ci sono stati momenti noiosi o poco interessanti.
Le mie personali preferenze sono state dettate, più che dalla qualità dei set, dai miei personali amori verso certi stili musicali rispetto ad altri. Quindi, in ordine del tutto casuale, spendo qualche buona parola per l’ambient (più rumorosa di quanto mi aspettassi) di Fabio Orsi (molto più di una certezza per la musica elettronica italiana, prima o poi ne riparleremo), per il rituale esoterico dei Father Murphy (il momento più ambizioso del festival, e Dio solo sa quanto abbiamo bisogno di alzare l’asticella delle proposte musicali, con le loro percussioni, la tromba, la voce e l’archetto a ben miscelarsi con le tastiere nel tentativo di disegnare una cerimonia di grande fascino), le tastiere e le apparecchiature di Everest/Magma (in certi momenti una sorta di David Borden sotto MDMA, in altri più ascetico e dronante), gli Holiday Inn (tastiera, batteria elettronica e voce distorta) che, oltre agli inevitabili Suicide, mi hanno fatto pensare ai primi lavori, quelli più rockettari, di gruppi nostrani quali Tasaday o T.A.C., con una attitudine anni ’80 molto apprezzabile (peccato per il canto in inglese, sapete che non lo sopporto), l’incredibile energia di Passed con il suo (post?)industrial tutto noise e sofferenza.
Non posso poi non spendere due parole per l’ottima esibizione del padrone di casa, Mai Mai Mai, (la perizia con la quale si giostra tra apparecchi moderni e vecchi oggetti vintage ha dello stupefacente, ma la sua sensibilità musicale gli permette sempre di sviluppare traiettorie interessanti e avvolgenti), per gli Heroin in Tahiti (per ragioni di orario l’unico concerto che ho perso, ma le loro cose sono sempre molto affascinanti, ne riparleremo) e l’elettronica di Von Tesla (immaginate le cose meno cerebrali di Alva Noto portate ad un livello ulteriormente più fisico e coinvolgente).

Insomma, un’altra ottima edizione che (pare, forse, si mormora) potrebbe avere una appendice estiva all’aperto.

Un evento obbligatorio per tutti coloro che hanno amato le colonne sonore italiane dei ’60 e ’70, la parte più coraggiosa e sperimentale del progressive nostrano dei ’70, l’industrial e post-industrial che tante belle cose ha partorito in Italia, la tradizione contemporanea dei Berio e degli Scelsi, l’incredibile storia della library music di casa nostra… In sintesi: per tutti coloro che hanno saputo distillare l’eccellenza musicale italiana dal dopoguerra ad oggi.

il sito del Dal Verme
il sito del Thalassa festival
il sito di Boring Machines

p.s. Una nota a margine riguardante il merchandising venduto in concomitanza con l’evento. Premesso che capisco il senso di certe scelte (a volte ideologico, a volte meramente economico) devo sottolineare come, nell’arco delle tre serate, io abbia comprato 2 cd, ma ne avrei comprati altrettanti (e forse di più) se ce ne fossero stati in vendita. Invece quasi tutti i gruppi hanno portato LP o singoli in vinile. Va bene tutto, ma vorrei ricordare a chi vuol vivere di musica che esiste ancora moltissima gente che NON ha e NON vuole avere il giradischi ed invece possiede un lettore di CD. Ancora più incredibile, e a parere mio stigmatizzabile, la scelta di alcuni gruppi di vendere dei loro materiali in audiocassetta (!!!), un supporto musicalmente orrendo e che non mi sogno neanche lontanamente di comprare (un bel cd-r invece ? è vietato dalle tavole della legge del trendismo imperante ?). Fate le scelte che volete, ma poi non prendetevela con me se torno a casa a mani vuote.

KRAFTWERK in concerto a Soest, 1970

Negli ultimi tempi ho avuto poco tempo da dedicare a questa pagina, vuoi per il tempo che mi rubano gli altri miei blog (incominciano ad essere troppi…), vuoi per la difficoltà a trovare tempo da dedicare alla scrittura. L’estate e le mie prossime vacanze faranno si che questa pagina resti ulteriormente bloccata per parecchie settimane.

Per non lasciarvi troppo senza far niente vi propongo, in via del tutto eccezionale per le mie consuetudini, la visione di un live d’epoca dei Kraftwerk, filmato dalla televisione nel lontano 1970.
Ci sono diverse ragioni per cui ve lo raccomando:

  • per iniziare immagino che per molti di voi possa risultare sorprendente vedere come fosse il gruppo PRIMA di assumere sembianze robotiche ed estremamente rigorose (ebbene si, furono anch’essi dei fricchettoni purosangue) come altrettanto sorprendente dovrebbe risultare  l’ascolto della loro proposta sonora (siamo tra il primo e il secondo album del gruppo, in un momento molto delicato caratterizzato da una, anche confusa ma molto vitale, ricerca di una direzione chiara)
  • la seconda ragione è un omaggio, che non credo di aver ancora fatto, alla memoria di Klaus Dinger (qui alla batteria), che, con i Neu! prima e i La Düsseldorf poi, scriverà importantissime pagine del rock (e non solo) tedesco (e non solo); la sua presenza in “Ruckzuck” nobilita ulteriormente il pezzo (chi conosce la versione in studio non potrà non notarlo)
  • la terza ragione è di natura socio-antropologica perché la visione di queste immagini racconta benissimo, per chi sa osservare, molti aspetti importanti e peculiari di quegli anni incredibili

Per cui buona visione e buona estate 🙂

gustatevi l’acre profumo dei primi anni ’70

OPEN MUSEUM OPEN CITY, al MAXXI di Roma, 2014

Roma sulla carta è una grande capitale europea, ma sotto molti aspetti non è paragonabile alle varie Londra, Parigi, Berlino
Il suo rapporto con l’arte contemporanea non è dei più facili, e ancor più complicato è il rapporto con la sound-art, un aspetto dell’arte contemporanea particolarmente difficile da incontrare nella caput mundi.
Accogliamo quindi con un applauso e legittima soddisfazione questa iniziativa del MAXXI (il bellissimo museo dedicato all’arte del XXI secolo) intitolata “Open museum open city“.

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Per poco più di un mese il MAXXI ha (quasi) del tutto svuotato i suoi spazi da cose e oggetti e nei suoi ampi corridoi, nelle sue gallerie imponenti, ha ospitato una serie di installazioni sonore fatte solo di suoni (niente proiezioni o appendici visuali). A prescindere dalla qualità delle installazioni va davvero apprezzato il coraggio di proporre una mostra così inusuale per i romani (saranno stati in grado di farsi affascinare da essa ? Avranno ricompensato il coraggio degli organizzatori ?) all’interno non di una piccola galleria privata o di una struttura semi-clandestina, ma di una delle più importanti istituzioni dedicate all’arte.
La mia speranza è che la risposta degli appassionati sia stata positiva ed iniziative come questa diventino la norma (e non l’eccezione) in questa città che troppo spesso si appoggia esclusivamente alla sua storia e al suo passato e sembra fare enorme fatica a vivere il qui ed ora. Nel frattempo mi sono recato in via Guido Reni una domenica mattina (stendendo subito un velo pietoso sull’incredibile ed insensato orario di apertura fissato alle ore 11) e ho dedicato a questa mostra quasi due ore del mio tempo, con risultati del tutto soddisfacenti.

Essendo io interessato più alla musica che alla sound-art in generale, le installazioni che ho più apprezzato sono state quelle di Ryoji Ikeda (intitolata “A [4ch version] 2014“, dove la A va intesa come la nota LA espressa in notazione anglosassone) realizzata in uno spazio cubico con (se non erro) semplicemente 8 altoparlanti messi negli angoli, due per angolo, a diffondere, appunto, il suono continuo di diversi “LA” per un risultato molto vicino (dal punto di vista dell’ascoltatore) a quello delle classiche sinewaves di LaMonte Young, con l’ascoltatore che, se vuole, può esplorare lo spazio palmo a palmo e osservare le mutazioni del suono, i battimenti, le oscillazioni. Altra installazione splendida quella di Philippe Rahm (“Sublimated music“) nella quale una sezione di un brano per pianoforte di Debussy viene scomposta su una moltitudine di singoli altoparlanti e sta, anche qui, all’ascoltatore ricomporla o meno attraverso il suo movimento all’interno della sala. Ho apprezzato il fatto che, alla fine della fiera, il risultato dell’operazione fosse, per quello che mi riguarda, l’ascolto di qualcosa di molto vicino al minimalismo storico (e quindi estremamente gradevole).

Ho anche avuto una ottima impressione, seppur in maniera diversa rispetto ai due casi sopraelencati, dello scalpellìo insistito e moooolto (ben) amplificato di “Doing” di Lara Favaretto, dell’ironico e divertentissimo “Oracle 2.0” di Justin Bennett (adoro moltissimo il modo in cui l’arte contemporanea spesso mi strappa dei sorrisi di puro godimento e divertimento) e anche di “External binaural envelope” di Haroon Mirza, con la sua capacità di trasformare dei muri in vere e proprie membrane permeabili ai suoni esterni. Mi ha intrigato “Territoriale” di Francesco Fonassi, anche se, per un infausto problema tecnico, ho solo potuto immaginare come sarebbero state le interazioni tra i presenti al di qua e al di là del muro, centro di gravità della sua installazione.

Meno riuscite, sempre a mio poco significativo parere, le altre installazioni: “Sonic mappings” di Bill Fontana (forse non situata nel posto migliore del museo per rendere al meglio), “Hyper-forum” ancora di Bennett (mi ha lasciato molto freddo con questo suo riportare suoni romani all’interno di un cubo virtuale delimitato dagli altoparlanti), “A room of rhytms-curva” di Cevdet Erek (interessante l’idea, ma non mi ha troppo convinto la realizzazione finale, a parte gli altoparlanti dai quali usciva una emozionante voce femminile che ripeteva sempre la stessa breve frase, in italiano).
C’erano poi alcuni punti di ascolto preparati da quelli di RAM (radioartemobile), un po’ dispersivi quelli interni al museo, più interessanti quelli esterni dove si potevano selezionare dei file audio molto interessanti (io mi sono ascoltato una intervista ad Alvin Curran davvero imperdibile).

Come scritto sopra due ore molto stuzzicanti passate in compagnia del puro suono (e di qualche altro viandante, a volte, coraggiosamente, con figli al seguito, sperduto nelle sale).

Il mio invito è, a quelli del MAXXI, di insistere su questa strada, mentre ai romani suggerisco di cogliere queste occasioni perché non è detto che ne avranno molte altre in futuro per annusare forme d’arte così poco usuali per questa città a volte troppo provinciale.

FRANCO BATTIATO dal vivo a Roma, il 23 marzo 2014

Battiato compie 69 anni e ci regala un concerto anomalo e insperato il sottotitolo del quale potrebbe essere: “qui non si butta mai niente“.

Nelle presentazioni e nel titolo, “Concerto sperimentale per voce ed elettronica“, il rimando principale sembra essere quello ai concerti elettronico-improvvisativi tipici del suo periodo più introverso, intorno alla metà degli anni ’70. In realtà in questa occasione Battiato propone qualcosa di diverso (anche se vicino allo spirito di quegli anni vissuti in prima linea).

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foto di Roberto Masotti e Bruna Tesseri

In buona sintesi Battiato (voce, pianoforte, e sintetizzatore), insieme all’ottimo Pino “Pinaxa” Pischetola (ritmiche e computers), costruisce una lunga suite divisa in parecchie sezioni alla base di ognuna delle quali ci sono frammenti di sui lavori poco, a volte pochissimo, conosciuti.
Il musicista siciliano, con un’opera iniziale di pura de-costruzione, seleziona questi frammenti, spogliandoli spesso del contorno che essi avevano e riducendoli a suoni puri ed essenziali, ma lasciandoli pur sempre familiari e riconoscibili per i più attenti conoscitori del suo percorso musicale.
Intorno a questi frammenti effettua una vera e propria ri-costruzione musicale, in parte aggiungendo un nuovo contorno fatto (a volte) di ritmi sintetici, più spesso improvvisandoci sopra con il suo sintetizzatore pieno di tasti e switch, o con il pianoforte, e/o modulando la voce liberamente così come cantando/salmodiando testi noti e ignoti (spesso filtrando la voce e manipolandola elettronicamente). Il risultato è una musica sia nuova che vecchia (conosciuta e sconosciuta) nella quale l’improvvisazione e il lasciarsi andare rivestono un ruolo fondamentale.

Spesso poi i due si divertono ad operare secondo queste modalità:

  • parte la base del pezzo (utilizzando, come detto sopra, materiali pre-esistenti)
  • Battiato, muovendosi con attenzione all’interno delle battute, improvvisa un qualcosa (una piccola scala, una micromelodia, una breve sequenza di accordi…)
  • Pischetola mette in loop questa prima sequenza che, essendo correttamente tarata con il ritmo base si inserisce perfettamente nel contesto sonoro
  • Battiato sulla base così rinnovata ripete il gesto sonoro improvvisando una seconda breve sequenza
  • Pischetola registra e mette in loop anche questa seconda micro-improvvisazione
  • …e così via

In pratica l’improvvisazione si sviluppa in verticale con Battiato che dialoga ed improvvisa con se stesso (qualcuno riconoscerà stilemi simili a quelli che praticava Terry Riley nei primi ’70, ma qui, grazie alla tecnologia odierna, la cosa si sviluppa in maniera più controllata e più stratificata, e forse meno istintiva).

Tutto queste aride parole per descrivervi un modus operandi che se non fosse riempito dalla sensibilità musicale (sempre straordinaria) di Battiato avrebbe poco valore, perché poi quello che conta è la capacità di lasciarsi andare (vale sia per chi suona che per chi ascolta) e far emergere il meglio del musicista Battiato (che non è poco).

Ma quali sono ‘sti materiali originali trattati e sbatacchiati durante il concerto ?
Battiato ha pescato tra tutte quelle cose che normalmente NON suona nei concerti e quindi:
ghost-track senza titolo (a partire da quella, relativamente, celebre che recita “Sai dire a Dio…“), lavori spiccatamente elettronici (ad esempio pezzetti estrapolati da “Campi magnetici” o dalla coda di “Shakleton“), frammenti dalle varie colonne sonore che ha scritto (edite e inedite), sezioni dalle sue opere (m’è sembrato di cogliere qualcosa sia da “Genesi” che dal “Gilgamesh“), ricordi dai suoi dischi degli anni ’70 (compreso l’uso del pianoforte nel periodo Ricordi).

In assoluto i due momenti per me più coinvolgenti sono stati la riemersione della mitica “Novena” direttamente dal 1974-1975 (una di quelle cose che non hai neanche il coraggio di desiderare, tanto mi sembrava impossibile potesse accadere, ma in questi ultimi anni questo tipo di evento mi si presenta con una ricorrenza stupefacente) e la sezione costruita a partire da uno dei pezzi della colonna sonora dello sceneggiato “Cellini – Una vita scellerata“, uno di quei pezzi che io amo molto e che ero convinto fosse stato dimenticato dallo stesso Battiato.

Un concerto puramente musicale, essenzialmente musicale, senza le sovrastrutture e la seriosità tipiche delle produzioni alte di Battiato (le opere) e senza la divertita scontatezza dei concerti pop.
Probabilmente il MIO concerto di Battiato, quello che aspettavo da una vita.

Sarebbe un reato non proseguire in questa direzione. Chissà, suonando con più frequenza questo tipo di cose potrebbero uscire fuori musiche incredibilmente strane e magari anche incredibilmente belle. Anche perché Battiato mi è sembrato decisamente divertito dalla situazione e sembrava apprezzare con evidenza la musica che stava producendo (pur, a onor del vero, apparendomi un tantino ingessato nella gestione delle improvvisazioni).

Peccato per il vizio italico delle riprese a tutti i costi. Avrei gradito che i tanti appassionati di fotografia e videoclip che proprio non resistono a immortalare l’evento avessero avuto l’accortezza, oltre a NON usare il flash, di silenziare i loro apparecchi in maniera tale che ad ogni foto non si sentisse il classico bip o clic o qualche-altro-rumore-simpatico tipico di questi macchinari moderni che lontano dai concerti pop-rock risultano assai fastidiosi.

Ma tant’è, una serata eccellente.

p.s.

Il titolo, credo scelto da Battiato o perlomeno da lui condiviso, suona incredibilmente ingenuo (verrebbe da dire naif). Al giorno d’oggi parole come avanguardia o sperimentazione sono pressoché inutilizzabili (vedi a tal proposito anche il bel documentario di Elisabetta SgarbiQuiproquo“), in musica in particolare si è fatto talmente di tutto (dal 100% rumore dell’industrial a certe musiche, mistiche o, come si diceva qualche anno fa, isolazioniste, fatte quasi solo di silenzio), che una serata come quella appena illustrata non solo non ha nulla di sperimentale, ma, al contrario, si muove attraverso stilemi ben noti (sebbene non a tutti). Ma ad un uomo di 70 anni, che ha vissuto l’epopea della ricerca a tutto campo della musica degli anni ’70, tutto questo si perdona senza problemi.

FRANCO BATTIATO “Patriots tour”, 1981

Le vie dei bootleg sono misteriose. In tanti anni di carriera e dopo tantissimi tour fatti, quasi sempre a supporto di un nuovo disco, il tour di Battiato che risulta meglio documentato (almeno per quello che risulta a me) è quello susseguente all’uscita dell’LP “Patriots“, presumibilmente iniziato all’uscita del disco (seconda parte del 1980) e terminato in coincidenza con l’uscita de “La voce del padrone” (1981).

Di questo tour mi sono arrivate le registrazioni delle date di Rimini, Firenze, Torino e Roma, e di quest’ultima data abbiamo anche una preziosa (ma purtroppo parziale) video-registrazione grazie alla RAI all’epoca molto attiva nel filmare (e poi trasmettere) concerti di artisti italiani.

Tanta abbondanza è singolare perché “Patriots” non fu un disco particolarmente venduto e ci saremmo aspettati tante registrazioni del tour seguente o di quelli realizzati durante il massimo fulgore di Battiato (tra l’81 e l’83) o più tardi nelle date che seguirono l’uscita de “L’imboscata” e di “Gommalacca” (periodo 1996-1998). E invece gli indomiti bootlegers sembrano essersi scatenati in questi strani anni in cui Battiato cercava di non perdere coloro che l’avevano seguito negli anni della sperimentazione radicale e contemporaneamente cercava di guadagnare nuovi ascoltatori abbassando notevolmente l’osticità della sua proposta musicale. Anni di una nuova gavetta per un musicista che già negli anni ’60 ne aveva fatta tanta, anni di trasferimenti faticosi in automobile da una città all’altra dell’Italia con il suo nucleo di collaboratori strettissimi con cui condivise questi anni ruggenti (su tutti Giusto Pio e Filippo Destrieri).

Proveremo a seguire Battiato attraverso i concerti che ci sono pervenuti per provare a tessere una cronaca postuma di questo periodo di formazione del Battiato pop-star 😉

Per tutti i concerti la formazione sul palco è la seguente:

  • Franco Battiato: voce, chitarra elettrica e tastiere
  • Giusto Pio: violino e tastiere
  • Filippo Destrieri: tastiere
  • Donato Scolese: batteria e vibrafono
  • Gianfranco D’Adda: batteria e percussioni
  • Toni Dresti: basso

– Firenze 8 febbraio 1981

In questa occasione Battiato divide la scaletta in due parti qualitativamente diverse: nella prima da spazio alla recente produzione pop, selezionando 14 canzoni tra le quali tutte le tracce di “Patriots” e 6/7 de “L’era del cinghiale bianco” (manca all’appello la sola “Pasqua etiope“). Negli arrangiamenti in evidenza il violino di Giusto Pio (che si fa carico di moltissimo lavoro, spettacolare nelle versioni ad alta energia di “Frammenti” e “Strade dell’est“, immensamente lirico in “Sequenze e frequenze” e “Aria di rivoluzione“), il vibrafono di Donato Scolese (“Il re del mondo“, “Stranizza d’amuri“, “No U turn“…) e le tastiere di Phil Destrieri (base di gran parte dei pezzi, spettacolare e brillante in “Frammenti“). I brani non sono pedissequamente allineati alle versioni in studio, ma acquistano in spazio con un pizzico di energia in più (specie i brani di “Patriots“) e la grande capacità del Battiato di allora (oggi forse si è un po’ persa) di adattare i pezzi alle possibilità e ai colori dei musicisti coinvolti nel tour (e non il contrario).
In questa prima parte del concerto spicca anche l’inedito “Bulgarian song” (la cui musica, qualche anno dopo, notoriamente, trasmigrerà ne “Il sole di Austerlitz“) per voce e tastiere.

Dopo questa prima parte Battiato regala ai presenti una ricca scelta dal suo repertorio più antico (da “Fetus” a “Clic“): “Mutazione” (ottime le tastiere conclusive), “Areknames“, “Sequenze e frequenze” (la versione di questo tour rimane insuperata rispetto a tutte quelle che seguiranno), “No U turn” (insolitamente delicatissima), “Propiedad prohibida” e “Aria di rivoluzione” (ancora con “chi andrà alla fucilazione” e un bella coda finale con il violino di Pio che si intreccia con la voce di Battiato splendidamente). Sono versioni abbastanza ammorbidite rispetto alla forza e all’ambizione degli originali, ma sempre di tutto rispetto.

Conclusione del concerto con (veri) bis: tornano “Up patriots to arms” e “L’era del cinghiale bianco” più, su richiesta insistita del pubblico, una versione sostanzialmente improvvisata, ma niente male, di “Per Elisa“, la canzone scritta per Alice che proprio il giorno prima aveva vinto il Festival di Sanremo. Una chicca che potrebbe essere un’esecuzione più unica che rara.

Battiato vocalmente in gran forma (qua e la anche ardito nell’uso della voce), allegro (oserei dire giocoso) e a suo agio sul palco e l’impressione generale è quella di una band che si diverta molto e nella quale i musicisti abbiano spesso la possibilità di sbizzarrirsi con qualche improvvisazione.
C’è tanta voglia di suonare più che attenzione ad eseguire uno spartito.

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– Roma 15 febbraio 1981

Dopo una settimana ritroviamo Battiato a Roma. La scaletta cambia e mischia brani vecchi e nuovi senza più le rigidità della tappa fiorentina. Diminuiscono però le canzoni: tra quelle provenienti da “Patriots” sparisce “Prospettiva Nevski” (all’epoca non era ancora diventata il classico che è oggi) mentre tra i pezzi del Cinghiale evapora “Stranizza d’amuri” (e anche per questo pezzo vale il discorso fatto prima). Sopravvive “Bulgarian song” (qui in una versione dove compare anche il violino) mentre non c’è più traccia (ma questo ce lo aspettavamo) di “Per Elisa“. Tra i pezzi antichi sparisce pure “No U turn“. Globalmente un set più corto di una ventina di minuti (e vai a sapere perché…).

Gli arrangiamenti, ovviamente, sono gli stessi del concerto fiorentino, uniche cose da segnalare il clima meno rilassato e giocoso (forse la presenza delle telecamere), il bel borbottare della coda de “Le aquile“, una “Strade dell’est” ancora strepitosa e le versioni stellari di “Sequenze e frequenze” e “Aria di rivoluzione“, quest’ultima dal finale dilatato all’inverosimile (evidentemente l’eseguirle ripetutamente aveva affinato la sintonia tra i musicisti, con il violino di Giusto Pio grandissimo sia nelle improvvisazioni sia nel suonare i temi principali dei due pezzi).

Come accennato sopra, di questo concerto esiste anche una registrazione RAI che ne mandò in onda meno di 40 minuti (circa metà concerto, esagerati…) che è fortunosamente reperibile in rete (non certo per merito della RAI che di tutte queste registrazioni sembra non volersene far nulla).

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– Rimini 1981

Del concerto riminese non conosciamo la data esatta, e ci sono giunte solo un pugno di tracce per meno di un’ora di musica. Il set sembra comunque costruito (come i precedenti) soprattutto sui brani tratti dal Cinghiale e da “Patriots“.
Il re del mondo” apre il concerto con una esecuzione sopraffina, ma è tutto il concerto ad essere suonato divinamente, con una band che ormai si conosce a memoria e conosce a memoria il repertorio. Battiato un po’ più ingessato rispetto ai concerti precedenti, che fa il suo senza gigioneggiare più di tanto.
Il gioiellino di questo bootleg è l’ennesima splendida esecuzione di “Sequenze e frequenze” con il dialogo tra le tastiere e il violino semplicemente perfetto, il giusto spazio all’improvvisazione, la voce di Battiato da brividi e il vibrafono ad aggiungere emozione. Siamo lontanissimi dall’originale, ma i 10 minuti abbondanti di questa interpretazione avrebbero meritato una pubblicazione ufficiale tanto sono belli.

L’impressione che sia un concerto estivo, o comunque tardo-primaverile, viene sia dalla location, tipicamente vacanziera, sia dall’annuncio di Battiato che presenta l’allora inedita “Bandiera bianca” dicendo che in precedenza la cantava su una base e che qui per la seconda volta la esegue completamente dal vivo (eccellente la performance vocale del nostro caratterizzata in certi frangenti da note allungatissime).

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– Torino 9 giugno 1981

Anche il concerto di Torino si apre con “Il re del mondo“, un pochino più veloce del solito, per un concerto che, rispetto ai precedenti, si conferma per il consueto blocco di canzoni provenienti dai due album più recenti (gli stessi  pezzi provenienti da “Patriots” e da “L’era del cinghiale bianco” suonati nel concerto fiorentino).
Scompaiono invece alcuni dei brani anni ’70 (sopravvivono solo “Sequenze e frequenze“, “Areknames” e una “Mutazione” più rockettara del solito) e “Bulgarian song” (ormai destinata all’Olimpo della mitologia abBattiata). Anche qui viene eseguita “Bandiera bianca” (“La voce del padrone” è ormai prossima, e di conseguenza il Patriots tour si sta per convertire nel La voce del padrone tour).

Esecuzioni più brillanti rispetto al concerto riminese, con un’aria più divertita che sembra riversarsi in interpretazioni particolarmente frizzanti. Splendide le improvvisazioni vocali alla fine di “Prospettiva Nevski” (quando Battiato osa con la voce, i risultati sono sempre splendidi) e in “Sequenze e frequenze” (altra ottima esecuzione), bella anche una “Passaggi a livello” tiratissima.

Pubblico estremamente coinvolto dalle canzoni più recenti, segno che già prima dell’uscita de “La voce del padrone” esisteva un pubblico di nuovi fedelissimi pronto a seguire Battiato nel suo percorso. L’impressione è che, rispetto alle uscite invernali, già a metà del 1981 Battiato avesse trovato un pubblico che apprezzava la sua svolta musicale indipendentemente dai trascorsi eroici dei ’70, come se tanto seminare (concerti, passaggi televisivi e radiofonici) stesse finalmente dando i meritati frutti.

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– Conclusioni

Un Battiato in movimento. In rapido cammino verso la celebrità e pienamente immerso nel ruolo di pop-star dal quale era fuggito a gambe levate qualche anno prima.
Una band relativamente ridotta di numero ma il cui potenziale viene sfruttato nel migliore dei modi, da un lato lasciando a tutti i musicisti spazi liberi per giocare con le musiche e divertirsi e dall’altro sforzandosi di tarare gli arrangiamenti in funzione dei musicisti (lo ribadisco: molto meglio che costringere i musicisti dentro la griglia degli arrangiamenti e delle sonorità utilizzati in sala d’incisione, la differenza dal vivo si sente in maniera evidentissima, chi va ai concerti lo sa).
Un pubblico anch’esso in movimento con Battiato, in parte consapevole della tanta strada già fatta dal nostro e in parte ignaro di tutto ma affascinato dai suoni e dalle parole nuove che tanto contrastavano in quegli anni con l’altra musica che ci girava intorno.

Un tour memorabile per molti aspetti che è divertente riassaporare oggi (ringrazieremo mai abbastanza tutti i fissati/maniaci che registrano i concerti per se stessi e, soprattutto, per i posteri ?), pieno di energia e di divertimento e senza mestieranti (d’altra parte uno che durante il concerto dice che “gli orchestrali sono uguali in tutto il mondo simili ai segnali orario delle radio” poi non può presentarsi con dei session-men capaci solo di eseguire il proprio compitino), con tanta voglia di lavorare sui brani mettendo al centro il violino, le tastiere e la voce (se ci si pensa, una scelta tutt’altro che banale per delle canzoni pop).
E il fatto che si sia svolto all’interno di spazi piccoli (teatri soprattutto) ha fatto si che il rapporto tra Battiato e il pubblico fosse molto forte, con continue interazioni (cosa che i palasport e gli spazi molto grandi rendono molto complicata).

Insomma, beato chi c’è stato 🙂

ENNIO MORRICONE in concerto a Roma, 25/07/2012

La mia generazione (o almeno una sua parte) è cresciuta col mito dell’hi-fi, il mito dello stereo che suonava alla grande, che riusciva a riprodurre nelle nostre camerette il suono con una fedeltà al limite dell’iperreale. E anche senza cadere nel dramma sociale dell’audiofilia (chi la conosce lo sa) era facile trovarsi a discutere con gli amici di come quelle casse suonassero più calde o quella certa puntina fosse capace di rendere il suono più vero del vero.

Poi passano gli anni e un bel giorno ti capita di sentire all’Auditorium Parco della Musica, nella loro sala più prestigiosa, l’Orchestra e il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia suonare SENZA amplificazione e ti rendi conto che QUEL suono che stai ascoltando (così rotondo, perfetto, pulito, dolce e affascinante) ha poco a che spartire con quello che si sente a casa tua quando metti nel lettore un cd di Mozart o di Glass.

E rimani a bocca aperta, ti ci perdi in questo suono ammaliante. Ti senti, felicemente, un uomo dell’800, che non aveva altra scelta che uscire di casa ed andare in qualche sala da concerto per poter ascoltare queste armonie meravigliose.
E qualunque cosa suoni l’orchestra sei felicissimo di ascoltarla, a maggior ragione se il programma della serata prevede una serie di suite costruite su temi di colonne sonore scritte da Ennio Morricone.

Prima di passare ai dettagli devo premettere (si lo so, excusatio non petita…) che Morricone non si discute, ha scritto tantissima musica di assoluto livello ed è uno di quei rarissimi casi dove quantità si sposa con qualità e fare musica su commissione non significa svendersi al miglior offerente.

Sul palco c’è l’orchestra al gran completo (con due arpe in bella vista…), il coro, maschile e femminile, assai nutrito, Ennio Morricone alla direzione ed alcuni ospiti/solisti d’eccezione. Il programma è strutturato su 6 sezioni all’interno delle quali si susseguono alcuni temi tratti da diverse colonne sonore selezionate sia per affinità musicale sia per analogie nell’atmosfera dei film… le premesse per un concerto spettacolare ci sono tutte.

La prima sezione del concerto (“Fra sogno favola e cronaca“) è dedicata a film assai diversi: si parte con i (meravigliosi!) titoli di “Uccellacci e uccellini” cantati da un Angelo Branduardi sorridente e molto partecipe (tanto da lasciarsi andare alla tentazione di contribuire anche a lui a dirigere l’orchestra) e poi a seguire estratti da “Bugsy“, “Una pura formalità” (ancora Branduardi alla voce) e “Metti una sera a cena“.

Ma è con la seconda che, per quello che mi riguarda, si tocca l’estasi della serata. Due colonne sonore di altrettanti sceneggiati televisivi (stra-ingiustamente considerate minori) quali “Mosè” e “Marco Polo” (del secondo ve ne parlai lungamente in questo post) ci regalano momenti di intensissima liricità con entrambi i temi principali che emergono lentamente (ma con un vivo e vibrante crescendo) da una introduzione delicatissima. Temi dalla melodia morriconiana doc che troppo sono stati dimenticati e che trovano in questa nuova dimensione orchestral-sinfonica nuova linfa e nuova dignità.

Per chiudere la prima parte del concerto Morricone va sul sicuro e recupera alcuni temi da “Il buono, il brutto e il cattivo“, “C’era una volta il West” e “Giù la testa” chiudendo con una bella versione di un tema grandioso (e in parte, anche questo, dimenticato) come “L’estasi dell’oro” (per ragioni misteriose capita spesso che di una intera colonna sonora sia il tema legato ai titoli iniziali del film quello che più si sedimenta nella memoria popolare a discapito di altri temi, magari molto più belli, che vengono presentati più avanti…).

Dopo un breve intervallo il concerto è ripreso con altre 3 suite che hanno utilizzato temi del Morricone (relativamente) più recente (anni ’90) tratti da “Un delitto italiano“, “La città della gioia” e “Nostromo” per poi chiudere con una suite intitolata “Cinema tragico, lirico, epico” in cui ha recuperato temi da “Il deserto dei tartari“, quelli scritti per la sonorizzazione del “Riccardo III” (muto del 1912), per poi chiudere con un altro classico, “Mission“, il cui maestoso “On Earth as it is in Heaven” benissimo si è prestato per concludere intensamente (e davvero epicamente) un concerto bello come questo.

Ma Abul non sarebbe Abul se non indicasse alcune cose che non lo hanno convinto di questa serata (perdonatelo, ma proprio non riesce a stare zitto).

Da ascoltatore devo dire che le riorchestrazioni dei pezzi che ha fatto Morricone non mi hanno sempre convinto, in particolare mi è sembrato che in alcuni casi il Maestro non abbia tenuto conto dei corretti livelli sonori tra i vari strumenti e (di fatto) gli strumenti solisti (ad esempio il violoncello del “Marco Polo“) si siano un po’ persi, sommersi dall’orchestra che pompava a tutto volume. Molte volte meno è meglio, e se si vuole dare enfasi ad uno strumento rispetto all’orchestra bisogna fare in modo che il volume sonoro sia adeguato a questa esigenza. In altri casi invece (particolarmente nel tema principale de “Il buono, il brutto e il cattivo“) ho trovato discutibile orchestrare per orchestra (scusate il gioco di parole) brani la cui espressività è fortemente legata agli strumenti utilizzati a suo tempo per le colonne sonore originali.

Nei primi anni della sua collaborazione con Sergio Leone Morricone è riuscito a creare un determinato e molto riconoscibile “sound” (il fischio di Alessandroni, la chitarra, certe percussioni, un certo uso delle voci maschili…) che nulla aveva a che spartire con le musiche del Far West ma che, nonostante ciò, perfettamente rappresentava l’atmosfera di quei villaggi assolati e polverosi raccontati da Leone. Prendere questi temi e sostituire gli strumenti originali con archi e legni normalizza questi pezzi e li rende, perlomeno, inoffensivi privandoli di quella spessa carica evocativa che possedevano.

Qualche dubbio anche sulla scelta dei solisti, non tanto per Branduardi che se la cava discretamente su “Uccellacci e uccellini” e tentenna un pochino per “Ricordare” (meglio eseguito nel primo dei bis), quanto per il violoncello di Luigi Piovano (qualche insicurezza di troppo che da un musicista del suo calibro non ti aspetti) e per la voce della soprano Susanna Rigacci che risulta troppo ingessata per non perdere (e alla grande) il paragone con Edda Dell’Orso, straordinaria e indimenticata interprete femminile di tanti temi morriconiani.

Ma quel che resta è il ricordo di grandi musiche, di una gran bella serata e di suoni meravigliosi che hanno rinfrescato una delle tante (troppe…) calde serate romane di questa estate 2012.

Questo post è dedicato a Fiorella che, casualmente seduta accanto a me, mi ha rievocato quei giorni incredibili in cui lei, e gli altri componenti dei Cantori Moderni di Alessandroni, incidevano queste colonne sonore e, non so con quanta consapevolezza, contribuivano a scrivere pagine memorabili della storia della musica italiana (e non solo).

MASSIMO ZAMBONI & FRIENDS in concerto a Roma, 05/07/2012

Le ferie forzatamente passate a Roma mi hanno permesso di assistere a parecchi concerti. Alcuni mi hanno turbato (I Cani, live act potentissimo e con un pubblico giovanissimo incredibilmente coinvolto), altri mi hanno regalato momenti che mi sono negato per troppo tempo (Massimo volume, grandissimi, Uochi Toki, integerrimi e spietati), altri hanno rinverdito i fasti di un’epoca ormai lontana (Alan Stivell, un’istituzione), altri ancora mi hanno stupito in positivo (Francesco De Gregori perfetto e misurato comprimario con Ambrogio Sparagna e la sua Orchestra Popolare Italiana).

Ma il momento emotivamente più intenso l’ho vissuto a Caracalla, di fronte al Circo Massimo, dove, nella improbabile cornice della Festa dell’Unità (o Festa Democratica ? Boh…) Massimo Zamboni, in compagnia di Angela Baraldi, Cisco, Giorgio Canali e dell’immenso Fatur, ha dedicato la serata al trentennale del primo singolo pubblicato dai CCCP-Fedeli alla linea (“Ortodossia“), l’inizio di una avventura che ha segnato per sempre il rock italiano.

Riavvolgiamo il nastro.

Chi, come me, era presente in quei primi anni ’80 in cui esplodeva la furia iconoclasta di Ferretti&Zamboni mai avrebbe immaginato che da lì a 30 anni ci saremmo ritrovati a stare in tanti, in gran parte over-40, a riascoltare QUELLE canzoni e, soprattutto, a rimpiangerle, a ricordare un momento breve ma intensissimo della storia musicale del Belpaese.

Sia chiaro: nelle intenzioni di Zamboni non voleva esserci nulla di celebrativo, ma solo il piacere di risuonare e ridare voce a quelle canzoni (desiderio che, singolarmente, sembra aver sviluppato in perfetta sincronicità anche Giovanni Lindo Ferretti), ciò nonostante nel momento in cui la chitarra ha aperto il concerto intonando filologicamente le prime note di “Emilia paranoica” per i presenti è stato un improvviso ritrovarsi, è stato un rievocare una comunione (complessa, articolata, a tratti anche aspra e controversa) tra i CCCP e il loro (?) popolo della quale, inutile negarlo, molti sentono la mancanza.

Non è semplice nostalgia canaglia e nemmeno l’inevitabile accondiscendenza verso gli anni della giovinezza. E’ proprio la consapevolezza di un momento unico e particolarissimo che, giustamente, si è bruciato in un pugno di anni lasciando dietro di sé un vuoto che né i CSI né i PGR sono mai riusciti veramente a colmare.

Per quello che riguarda la serata, detto della reazione entusiastica dei presenti ai classiconi (?) dei CCCP (“Spara Juri“, “Curami“, “Live in Pankow“, una immensa “Punk Islam“…”), suonati peraltro in versioni estremamente potenti e grezze, va sottolineata la eccellente performance della Baraldi capace di cantare le canzoni a lei affidate con convinzione e credibilità senza neanche vagamente provare ad imitare il salmodiare ferrettiano (davvero ottima la scelta di Zamboni di puntare su di lei), la presenza senza compromessi di un Giorgio Canali perfettamente a suo agio al contrario di un Cisco completamente fuori contesto (d’altra parte le differenze etiche ed estetiche fra Modena City Ramblers e CCCP-Fedeli alla Linea credo dovrebbero saltare all’occhio a chiunque).

Sul palco a dimenarsi e sudare la versione 2012 di Fatur che, a dispetto degli anni passati e dei chili di troppo, è riuscito nella difficilissima missione di non fare la parodia di se stesso e di dimostrare come anche gli aspetti legati al mettersi in scena sul palco del gruppo non siano per niente invecchiati (così come non lo sono le canzoni).

Nella serata sono stati suonati anche brani dei CSI, alcune cose del Zamboni solista ed è stata presente come ospite solo apparentemente fuori contesto la sempre ottima Nada che (e qui mi sono tornate alla mente le canzoni del singolo fatto con Amanda Lear…) ha anche eseguito (ben accolta dai presenti) la sua sanremeseLuna in piena” (peraltro una signora canzone).
Due parole infine per la batteria (perfetta) dell’ex-Ustmamò Simone Filippi e il basso+tastiere del sorprendente Cristiano Roversi (che io mi ricordavo legato soprattutto a sonorità progressive e me lo sono invece trovato a suonare punk distorto e insistito…).

Una strana serata. Il piacere (anche fisico) di risentire quei suoni, quelle parole, in un modo assolutamente degno.
E la sicurezza che 30 anni prima non avremmo mai immaginato di ritrovarci 30 anni dopo a fare una cosa del genere.

Un concerto al di la del bene e del male.

Voglio rifugiarmi sotto il patto di Varsavia
voglio un piano quinquennale
la stabilità

DIVNA in concerto a Roma, 20/04/2012

Divna Ljubojevic non l’ho cercata, mi è capitata.
Prima sono rimasto attratto dalla paginetta dedicata sul sito dell’Auditorium Parco della Musica ad introdurre il suo concerto, poco dopo me la sono ritrovata interprete del “Telesio” di Battiato.

Si può dire tranquillamente che fino a sei mesi fa non sapevo neanche della sua esistenza.
Ma per fortuna l’Auditorium romano regala spazi anche ad artisti la cui fama nel nostro paese è indirettamente proporzionale al loro valore.

La scaletta del concerto prevedeva l’alternanza tra brani della tradizione sacra slava e bizantina (il pane quotidiano di Divna) e composizioni di John Tavener. Si è iniziato con un pezzo cantato da Divna insieme all’altra componente femminile del Coro Melodi di Belgrado, una rapida introduzione tanto per mettere in chiaro quello che sarebbe stato il mood della serata. A seguire la più piacevole delle 3 composizioni di Tavener (un autore che non amo particolarmente) intitolata “Prayer of the heart“: un quartetto d’archi muove all’unisono (lentissimo) una armonia ciclica sulla quale Divna canta (in varie lingue) una preghiera portando nella sala un’atmosfera non lontana da quella della “Messa arcaica” di Battiato. E subito mi stupisce la sicurezza mostrata dalla cantante serba unita ad una raffinatezza impressionante nell’esposizione del testo.

A seguire entra il Coro Melodi (oltre a Divna e all’altra cantante anche quattro uomini) ed eseguono alcune immense composizioni selezionate tra i canti per la liturgia bizantina. Il resto del coro tiene l’armonia sulla quale Divna agisce da solista. Ed è musica che arriva diritta al cuore, musica che dona beatitudine e innamora.

Siamo, ovviamente, dalle parti dei cori russi che Battiato notoriamente non sopporta, molto vicini ai canti della liturgia cattolico-russa dei quali vi parlai in quest’altro post, ma si sentono anche affinità con quelle misteriose voci bulgare che negli anni ’80 fecero impazzire l’Europa (fino ad arrivare a contaminare il “Pipppero” di Elio e le storie tese) delle quali, scomparsa la libertà e l’effervescenza, si recuperano alcune tecniche vocali spostandole in un contesto più misurato e rivolto all’interiorità.

Se vogliamo trovare un difetto nel concerto forse Divna è sembrata in alcuni momenti un tantino algida e non del tutto immersa nella musica. Probabilmente era un po’ tesa, forse per un piccolo problema di tosse o forse era preoccupata per la prestazione del coro, che lei dirige. Ho avuto la sensazione che viaggiasse con il freno tirato, e non voglio immaginare cosa possa fare quando dedica tutta se stessa al canto.

Il concerto è poi proseguito con “My gaze is ever upon you” di Tavener (e preferisco tacere su questa composizione), una serie di brani dalla liturgia slava (non particolarmente differenti da quelli bizantini) per concludersi con “Song of angel” di Tavener (lavoro dignitoso) e alcuni bis reclamati a gran voce dai presenti letteralmente estasiati da questa giovane donna serba dalle grandissime possibilità e della quale (mi riprometto) approfondirò la discografia.

Ancora una volta la magia delle voci, e degli strumenti, NON amplificati ci regala attimi di meraviglia e commovente bellezza.

EINSTEIN ON THE BEACH, dal vivo a Reggio Emilia, 24/03/2012

Il 2012, e non siamo ancora a metà, sembra essere un anno che si stia sforzando di darmi la possibilità di recuperare, in varie forme, qualcuno dei momenti (a mio parere) fondamentali degli anni ’70 musicali, momenti che all’epoca, a causa della giovane età, non ebbi modo di vivere in diretta.

E’ il caso della messa in scena dell’opera musicale che io ritengo più importante nella seconda metà del secolo scorso (per “opera musicale” intendo qualcosa che sia erede della tradizionale opera lirica ma la modernizzi significativamente pur mantenendone molte caratteristiche: rappresentazione teatrale, coreografie e scenografie, recitati e cantati e la musica che sostiene il tutto).

Mi riferisco ad “Einstein on the beach” di Robert Wilson e Philip Glass, opera che, a distanza di oltre 35 anni dalla sua prima assoluta, è stata nuovamente montata e portata in scena grazie ad un pool di produzioni (dal BAM newyorkese al Barbican londinese passando per l’Amsterdam music theatre e l’Università di Berkeley in California) in maniera filologicamente correttissima (musiche eseguite dal Philip Glass Ensemble diretto da Michael Riesman, già tastierista e direttore del gruppo nella prima edizione, coreografie di Lucinda Childs eseguite dalla sua compagnia di danza ed un gruppo di coristi e attori scelti certosinamente per rivestire le varie parti).

Non sto qui a spiegarvi il perché e il percome questa sia un’opera centrale nella storia della musica più recente e in particolare del secondo dopoguerra (nel corposo libretto dedicato a questa messa in scena altri, ben più qualificati di me, tra i quali il maestro Franco Fabbri, ne parlano a lungo), mi limiterò pertanto ad un piccolo pacchetto di osservazioni in libertà, tra il serio e il faceto, giusto per condividere con voi le sensazioni di quella che per me resterà una serata storica.

1) Preludio all’opera

Avevo sempre notato una grossa differenza tra la durata dell’opera, così come veniva raccontata nelle cronache anni ’70, e la durata delle 2 incisioni ufficiali che essa ha avuto (la prima, alla fine degli anni ’70 sulla sfortunata Tomato records, un box bellissimo di 4 vinili, edizione poi acquisita dalla CBS e ristampata in digitale, la seconda, un po’ più lunga, pubblicata dalla Nonesuch in 3 cd registrati in occasione della seconda occasione, 1992, in cui l’opera venne rimontata). A dispetto delle “oltre 4 ore” o addirittura “5 ore” di cui si vociferava nelle cronache degli anni ’70, sui dischi che io conoscevo si faticava a superare le 3 ore. Vedendola dal vivo ho capito perfettamente cosa determina questa differenza (per quello che mi riguarda posso dirvi che quello che ho visto è durato circa 4 ore e 50 minuti). In particolare mi voglio soffermare a descrivervi l’inizio dell’opera.

Einstein on the beach” è strutturato, senza interruzioni di sorta, in 4 atti connessi l’uno all’altro da quelle che Glass e Wilson hanno chiamato knee play, espressione traducibile come scene di giunzione o, più semplicemente, giunture, che hanno anche la funzione di aprire e chiudere l’opera. Chi ha ascoltato i dischi pubblicati sinora ricorderà che l’opera si apre con la prima knee play e, in particolare, con l’organo che suona una semplice melodia di tre note ripetuta circolarmente sulla quale, dopo pochissime ripetizione, entra il coro che inizia a cantare un testo basato solo su dei numeri (“one, two, three, four, two, three, four“, e via cantando) mentre poco dopo si aggiungono anche le voci di due attrici che recitano, anch’esse circolarmente, dei testi scritti da Christopher Knowles, il tutto per circa 4 minuti.
Nella realtà le cose non stanno proprio così, e cercherò di raccontarvi come l’opera mi ha accolto nel bel teatro Valli di Reggio Emilia.
I cancelli sono stati aperti relativamente tardi, oltre le 18.30 (l’inizio dell’opera era indicato per le 19), entro nell’atrio e perdo qualche minuto per acquistare il libretto (oltre 130 pagine…) per poi dirigermi verso la platea. Apro la spessa porta e vengo accolto da Mick Rossi, unico presente nella buca dell’orchestra, che sta suonando proprio quelle 3 note di cui ho scritto sopra. In platea non c’è ancora nessuno, sul palco un telo grigio nasconde la scena, in basso a destra noto un riquadro bianco illuminato dalle luci del palcoscenico dove sono presenti 2 sedie vuote. Mi siedo, passano alcuni minuti con i primi spettatori che prendono posizione e il tastierista che continua a suonare le 3 note. D’improvviso sul palco entrano le due attrici principali dell’opera (Helga Davis e, bravissima, Kate Moran), con movimenti lentissimi ed espressione beota/sorridente si siedono. Passa qualche minuto ed iniziano a recitare il loro testo effettuando contemporaneamente piccoli movimenti con le braccia, i polsi e le mani, il tastierista continua imperterrito a suonare le stesse 3 note, gli spettatori aumentano (su di loro tornerò più avanti) e, man mano che la narrazione delle attrici procede, nella buca entra il coro, un cantante alla volta, e prende posizione. Anch’essi si muovono lentamente e hanno sui loro visi stampate quelle strane espressioni sorridenti.

Tutto questo procede per una mezzora circa.

Una volta completata l’entrata del coro prendono posizione anche i musicisti del Philip Glass ensemble e, quando il pubblico ha finalmente terminato il suo ingresso, si abbassano le luci e Michael Riesman da il via al coro che parte con il suo “one, two, three, four…” che chi ama quest’opera ben conosce.

Ecco, tutto questo preludio all’opera, questa splendida forma di accoglienza verso il pubblico, questo lento accompagnarci DENTRO l’opera, è stato tagliato dalle edizioni discografiche per il semplice fatto che non è replicabile su di un qualunque supporto. E’ un puro momento di vita che o viene vissuto direttamente oppure si può raccontare, ma non lo si può registrare (se non rendendolo l’ombra di se stesso e quindi altro). Ma, per chi era sintonizzato sulle giuste frequenze, è stata una accoglienza deliziosa (e musicalmente molto affascinante).

2) La borghesia cafona

Mi è spesso capitato, recandomi in teatri seri (generalmente lirici, ma il discorso vale anche per quelli più tradizionalmente teatrali) per sentire/vedere spettacoli che non appartenevano alla tradizione (lirica o teatrale), di ritrovarmi in compagnia di signori e signore riccamente vestiti (pellicce e gioielli per le signore, costose giacche e cravatte per i signori) completamente ignare di cosa andavano a vedere e del tutto impreparati ad assistere allo spettacolo per il quale avevano (immagino) pagato. Questa cosa è successa anche a Reggio Emilia, con l’aggravante di una serie di comportamenti discutibili che hanno creato delle situazioni grottesche.
Ma andiamo per ordine.
Come accennato sopra, “Einstein on the beach” dura quasi 5 ore senza interruzione. Pur essendo formalmente diviso in 4 atti l’azione scenica e la musica sono continue per tutta la durata dell’opera. Molto carinamente il teatro ha dato a tutti coloro che entravano in teatro un foglietto in cui si faceva presente questa peculiarità e vi era scritto anche quanto segue: “il pubblico può tranquillamente entrare e uscire dalla sala, durante lo spettacolo, facendo poi ritorno al proprio posto“. Immagino che in un paese normale quel tranquillamente sarebbe inteso come un “in modo tranquillo”, ovvero senza disturbare, e invece alla fine del primo atto (nel momento in cui è sceso il telo grigio a nascondere la scena e l’ensemble ha iniziato a suonare la seconda knee play mentre sul palco sono tornate le due attrici), non appena si è alzato dalla sedia il primo coraggioso, metà (non scherzo) del teatro si è sentita autorizzata ad alzarsi dalla sua poltrona, chiedere al vicino di alzarsi per farlo passare ed hanno abbandonato la sala. Ma il peggio è stato che tutto questo è stato fatto chiacchierando, commentando, facendo (in una parola) un gran casino. E anche alcuni di quelli rimasti seduti (era passata solo un’ora ma sembravano già duramente provati) si sono messi a chiacchierare tra loro provocando l’ovvia reazione dei (pochi) presenti realmente interessati allo spettacolo e si è quindi scatenata la consueta serie di “ssssssssssssssssshhhhhhh!” per tentare di zittire queste persone che, personalmente, non riesco a definire meglio che CAFONI. Gente presuntuosa che mancava di rispetto sia verso gli altri spettatori (quelli interessati allo spettacolo) sia verso i performers che, mentre loro chiacchieravano e facevano battute di bassa qualità, sul palcoscenico suonavano, cantavano, recitavano, sudavano di fronte a loro.
Purtroppo quando si va ad uno spettacolo solo per mettersi in mostra e non per amore dell’arte questi tristi risultati sono inevitabili.
E’ decisamente più facile sfoggiare un gioiello o un vestito di chissà quale stilista che avere la consapevolezza di dove si va e cosa si va a fare.

3) Roma, Italia

Come sapete vivo a Roma e, fortunatamente, in questi tanti anni di passione per il minimalismo ho avuto spesso l’occasione di vedere semplici concerti di questo tipo di musica e, ogni tanto, anche spettacoli più complessi (penso a cose come “Le streghe di Venezia“, “Powaqqatsi“, ” La Belle et la Bete“, “Monsters of grace“, “Les enfants terribles“, tutte di Glass, o a “Three tales” di Steve Reich) con messe in scena più o meno complicate. La cosa incredibile è che se sono riuscito a vedere questi lavori è stato quasi esclusivamente per merito di produttori esterni al circuito dei teatri d’opera tradizionali (in particolare devo ringraziare il Teatro Olimpico, per gli anni della mia giovinezza, e, attualmente, l’Auditorium Parco della Musica) mentre sono straordinariamente latitanti le istituzioni che dovrebbero essere particolarmente preposte alla divulgazione della musica (più o meno) contemporanea.

Prendiamo “Einstein on the beach“: è un lavoro che ormai ha passato i 35 anni, non è più musica d’avanguardia o roba simile, è un pezzo della Storia della musica. Eppure ogni anno i tanti enti lirici che mettono in cartellone le loro proposte continuano indefessamente a proporci l’ennesima Aida, la millesima Tosca, la solita Carmen… e al massimo aggiungono agli evergreens della lirica qualche proposta strana pescando sempre e solo in quello che propone l’Accademia. Prendere atto che negli ultimi 40 anni siano nate musiche dignitosissime e mettere in cartellone qualcuno di questi lavori, magari anche perché hanno ricevuto un certo riscontro tra un pubblico che non è quello imbalsamato e impellicciato dei teatri lirici, ma è quello di coloro che amano la musica senza fossilizzarsi sulle etichette, questo proprio non riescono a farlo.
Può darsi che per la sua struttura “Einstein on the beach” sia un’opera particolarmente complessa da realizzare (ma sono il primo a non essere convinto da questa scusa tecnica), ma allora perché non dare l’opportunità al pubblico romano (e italiano) di godersi lavori più tradizionali (dal punto di vista esecutivo e realizzativo) quali “Satiagraha” o “Akhnaten” (sempre di Philip Glass), o ripescare quella perla meravigliosa che è stata “Genesi” di Franco Battiato, o un lavoro musicalmente ricchissimo come “Generazioni del cielo” di Roberto Cacciapaglia. Oltre a quelli già citati si potrebbero mettere in scena lavori praticamente MAI visti in Italia di artisti quali Meredith Monk, Steve Reich, John Adams, Michael Nyman, Robert Ashley e chissà quanti altri, ma state pur certi che nei prossimi anni continueremo a sorbirci Rigoletti e madame Butterfly.
Sia chiaro che non ho nulla contro l’opera lirica (fermo restando che non amo particolarmente la musica dell’Ottocento e che ho enormi riserve sulla qualità delle storie narrate in molte opere liriche), ma quello che proprio non riesco a comprendere è perché gli enti preposti alla lirica si siano confinati in un ghetto così angusto e si rifiutino aprioristicamente di dare spazio alle cose più interessanti prodotte negli anni ’70 e ’80 nonostante il (relativo) successo di pubblico che queste musiche hanno avuto (forse che la pecunia di quelli con gusti simili ai miei abbia un odore che non piace ai direttori artistici degli enti lirici ?).

4) I dettagli

Tornando all’opera voglio solo sottolineare un’ultima cosa. Trattandosi di un lavoro non narrativo, in cui i testi recitati (e spesso ripetuti diverse volte) non raccontano una storia e quelli cantati sono numeri o note, quest’opera trae la sua grande forza da una parte nella geometrica potenza della struttura (5 scene connettive, 4 atti, 3 diverse ambientazioni, il treno, il processo e il campo con astronave, che tornano 3 volte, ogni volta modificate) e dall’altra nella estrema cura del dettaglio. L’utilizzo di moduli ripetitivi nella musica, nei testi e nei movimenti degli attori e dei ballerini se costringe lo spettatore ad una attenzione molto superiore al normale (non bisogna semplicemente seguire una trama o una melodia) dall’altro fa si che ogni piccola variazione all’interno degli schemi seguiti sul palco provochi una piccola/grande epifania. Ogni variazione assume un’importanza molto maggiore di quella che avrebbe in una normale pièce teatrale o lirica, e questo ha comportato una incredibile cura nei dettagli da parte di Robert Wilson che per ognuno dei personaggi in scena ha preparato con grande attenzione ogni singolo movimento da effettuare.
Il risultato finale è un’opera di grandissimo fascino che proprio perché rinuncia a raccontare qualcosa riesce a rendere interessanti, per non dire esaltanti, piccoli dettagli che normalmente non avrebbero alcuna valenza.


E’ probabile che da questa serie di spettacoli verrà tratto un film documentario e (forse) verrà immortalata in maniera degna un’opera che a distanza di tanti anni dal suo esordio continua ad essere uno dei momenti più alti del teatro musicale moderno.

A modern masterpiece.

(chi volesse altre informazioni sulla nuova messa in scena può cliccare qui)