Potsdamer platz 1920-1934 Berlin (Sounds of an era)

Da qualche tempo sto ascoltando, sono circa a metà, l’ennesimo cofanettone, dedicato questa volta alle canzoni della swinging Berlin degli anni 20 (e dintorni), un box dal ricco contenuto (10 CD per 200 canzoni) e dal lungo titolo (che dà il nome a questo post).

Chi mi conosce sa quanto ritenga interessanti, memorabili e stimolanti, artisticamente parlando, ma non solo, gli anni che seguirono la conclusione della Prima Guerra Mondiale, e, innamorato di Berlino quale sono, non potevo esimermi dal provare ad annusare l’aria che si respirava in quegli anni.

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A dispetto di quanto mi aspettassi ho trovato grosse similutudini con la coeva musica italiana (tipo questa, o quest’altra, ma con stili più spesso vicini a Rodolfo De Angelis che al Trio Lescano), ho ascoltato musicisti di primissimo livello, orchestre e interpreti raffinati, musiche mediamente più distanti da Kurt Weil di quanto fosse lecito ipotizzare, e, in generale, ho percepito come Berlino fosse attraversata da una incredibile voglia di divertimento e di allegria in anni, lo voglio sottolineare, davvero complicati. La sconfitta nella Grande Guerra, i tantissimi morti al fronte, le decisioni prese nella Conferenza di Parigi, la conseguente crisi economica, le conflittualità legate a Weimar, le repressioni a sinistra, la progressiva ascesa del nazismo… tutto spingeva per giorni in cui si dovesse stringere la cinghia e avere cautela e invece, grazie anche al boom mondiale della radiofonia, nei locali notturni berlinesi ci si lasciava andare a balli travolgenti (tanzmusik !), canzoni umoristiche e atmosfere ridanciane e peccaminose spesso ricche di esotismi evocativi.

Ma la ragione per cui sto scrivendo questo post va oltre tutto questo.

Non conoscendo il tedesco, tendo ad ascoltare soprattutto la musica e a non concedere particolare attenzione ai testi, ma, ogni tanto, capita di avere l’impressione di riuscire a cogliere dei significati e, se incuriosito, vado in rete a cercare informazioni sul testo di qualche canzone.

Mi è successo una prima volta con “Die Großstadt-infanterie“, cantata da Kurt Gerron. Il testo parla (e un po’ l’avevo azzeccato) dei rischi che correvano i pedoni nella Berlino di quegli anni, continuamente a rischio di essere investiti dalle indisciplinatissime auto circolanti (pare incredibile, ma evidentemente passeggiare lungo le strade in quei giorni esponeva a discreti rischi).

Sempre più incuriosito sono andato a cercare notizie su Gerron, una specie di Aldo Fabrizi tedesco, attore e cantante al tempo stesso, come si usava in quello che noi chiamavamo “varietà“, ma anche regista cinematografico. Vengo così a sapere che, in quanto ebreo, dovette interrompere la sua carriera di artista, fuggire in Francia prima e in Olanda poi, ma, ciò nonostante, finire comunque nel campo di Theresienstad per poi morire ad Auschwitz, poche ore dopo esserci arrivato e poco prima che il lager venisse abbandonato dai nazisti.

Qualche tempo dopo mi incuriosisco per un altro brano, intitolato “Das ist Berlin auf der Tauentzien” perché, come da titolo, mi sembra parlare di una zona berlinese famosa per lo shopping ancora oggi.

Anche qui cerco informazioni, ma non riesco a trovare il testo, non sempre in rete si trova tutto, cerco allora di sapere qualcosa di più sul suo interprete, Willy Rosen, e scopro che ha avuto un destino praticamente identico a quello di Gerron.


A questo punto continuo gli ascolti, ma qualcosa è cambiato.

Perché già suonava strana tutta questa allegria relazionata al recente passato e al presente, sia di chi scriveva e cantava questi brani, sia di chi li ascoltava, ma a questo ora si sovrappone anche la consapevolezza che, pochi anni dopo, molti di loro cadranno nel dramma della persecuzione razziale, altri diventeranno dei carnefici, altri cercheranno di rimanere nel mezzo e dovranno vivere in una Berlino bombardata giorno e notte.

Perché una delle cose che amo di Berlino è proprio la compresenza di tratti così discordanti: amore e odio, bellezza e orrore, arte e violenza, natura e tecnologia, Storia e storie.

E anche in queste canzoni che avevano il solo obiettivo di regalare qualche istante di buonumore e allegria, c’è qualcosa di più di quello che ci sarebbe dovuto essere.

A Berlino non sono mai solo canzonette.

p.s. Per chi fosse curioso sulla Berlino durante Weimar, consiglio la serie televisiva “Babylon Berlin” che prova a raccontarla in maniera dettagliata e, a mio parere, efficace.

SoundScapeS vol.15

Solo un annetto per arrivare a questa (lasciatemelo dire) strepitosa raccolta, come sempre indispensabile appendice del blog.

19 brani per i soliti 80 minuti (scarsi) di ottime canzoni (e non solo) raccolte sotto il titolo “Classics” da intendersi in almeno due modi.

Il primo è un modo elegante per sottolineare che, alla fine della fiera, anche questa antologia è la solita zuppa che vi propongo periodicamente, infatti dentro ci troviamo:

  • materiali della Battiato factory (in assenza del lider maximo che negli ultimi tempi è stato abbastanza latitante)
  • musiche dagli anni ’80 più oscuri (para-industrial e post-wave, in particolare)
  • uno spruzzo di Africa
  • qualcosina di molto vecchio
  • qualcosina di molto recente
  • qualcosa di sudamericano
  • qualcosina di molto romano
  • qualcosa di pop internazionale (dall’Inghilterra, dall’Islanda, dalla Germania)

Ovvero ESATTAMENTE quello che dovreste aspettarvi.

L’altro modo in cui si può intendere il titolo riguarda invece un fenomeno che lentamente ha preso piede in queste raccolte.
Negli ultimi tempi è diventato abbastanza frequente incontrare da queste parti materiale di musica classica. Non certo sinfonie o concerti, cose imponenti, ma magari piccole arie o, come in questo caso, meravigliose ninne nanne.

Questo quindicesimo volume vede addirittura due brani legati alla tradizione colta europea (entrambi mooooooolto datati) di cui mi sono innamorato, e la cosa che mi sorprende è come, inserita in questo contesto, la loro presenza suoni piuttosto naturale, come se davvero non ci sia poi una enorme distanza tra questi gioiellini classici e il meglio della musica pop-rock e dintorni degli ultimi cento anni.

A chi si chiede come mai non realizzo queste antologie utilizzando strumenti come Spotify segnalo che molti dei materiali che vi inserisco sono completamente (e colpevolmente) assenti da queste piattaforme.

Io questa raccolta ve la consiglio (tra l’altro in due brani c’è la magica voce di Tiziana Lo Conte), poi voi fate come volete 🙂


Chi fosse interessato non dovrà fare altro che contattarmi e darmi le coordinate per potergliela spedire tramite WeTransfer (per chi non lo sapesse, trattasi di una piattaforma che permette lo scambio di file fino a 2 gigabyte, è gratuita e non prevede alcuna iscrizione, in pratica io spedisco all’interessato un link, lui lo preme e tramite il suo browser, e seguendo una semplicissima ed essenziale procedura, scarica i file in poco tempo).

Un’ora di canzoni a 78 giri

Ribadendo che non sono un esperto di canzoni anni ’30 e ’40, eccovi una personalissima e discutibilissima playlist dedicata ai fasti della musica incisa sui fragili 78 giri.

Come al solito abbiamo dovuto fare i conti con la disponibilità del materiale su Spotify. Purtroppo, e con mia sorpresa, non ho trovato diverse canzoni che avrei voluto inserire di Rodolfo De Angelis e Natalino Otto (che, rispetto alle intenzioni, risultano così sottorappresentati), viceversa l’abbondanza del materiale relativo al Trio Lescano ha fatto sì che ci siano parecchie loro (belle) canzoni.

Sottolineo pure che, incredibilmente, non sempre i nomi dei cantanti sono indicati in maniera corretta.
Ne paga le conseguenze l’ottima Maria Jottini.

Tutte le canzoni che sentite sono state pubblicate in un periodo che va dal 1933 al 1948, e sono solo la punta di un iceberg di eccellente livello e che vale la pena approfondire.

Buon ascolto.

RODOLFO DE ANGELIS “Ma… cos’è questo De Angelis ?”, 1995, Fonit Cetra

Già in passato ebbi a manifestare la mia passione per la musica italiana degli anni ’30. Per quel poco che conosco di questa scena, se dovessi farvi un nome, un nome solo, di un autore geniale e meritevole di approfondimento, non potrei che indicarvi Rodolfo De Angelis.

Proveniente dagli ambienti del caffè concerto (forse a voi più noto come cafè-chantant), vicino alle avanguardie futuriste (Marinetti e Depero tra gli altri), autore, cantante e interprete sensibile, uomo di teatro e personaggio poliedrico, ha realizzato svariati 78 giri che spiccano per originalità e qualità sotto ogni punto di vista.

Se oggi ve ne parlo è perché, a fine anni ’70, la meritoria collana “Fonografo italiano” gli dedicò 3 LP antologici, a loro volta, a metà anni ’90, convertiti pedissequamente in 3 CD (anche se secondo me sarebbe stato più sensato fare un unico doppio CD piuttosto che 3 distinti dischetti mezzi vuoti). Tutto materiale oggi purtroppo fuori catalogo e non banale da trovare.

All’interno di questi LP mi si è aperto un mondo davvero stupefacente e singolare. Nulla in De Angelis è scontato: niente canzoni d’amore, niente drammoni nazional-popolari, nessuna particolare derivazione dalla tradizione lirica o da quella della canzone napoletana (pur essendo lui nato a Napoli), ma un canzoniere sfacciato e pieno di sorprese, a partire dalla sua celeberrima trombetta (molto spesso nelle sue canzoni, nelle sezioni strumentali, De Angelis canticchia simulando il suono di una tromba, con dei “perepè perepè” personalissimi e un tantino assurdi).

E’ l’ironia a dominare le sue canzoni, di volta in volta messa al servizio di temi diversi:

da canzoncine proto-demenziali (la surreale “Tinghe tinghe tanghe“, con elementi dixieland, le tre affascinanti sorelle “Babà Bebè Bubù“, le rime baciate di “Cinque contro uno“),

divertissement tinti di exotismi (“La carioca“, dai chiari riferimenti latino-americani, l’oriente di cartapesta di “Nel Parapapà” e il medio-oriente altrettanto fantasioso di “Sciali sciali“, la Cina inverosimile di “Liulai“, i ritmi e le percussioni di una delirante “Il venditore di nastrini“, una assurda “Canzone tirolese” strapiena di stereotipi sugli austro-tedeschi con tando di rapida citazione marinettiana),

pezzi che ricordano la comicità dell’avanspettacolo (“Pesci e frutti di mare“, dai doppisensi volgari eppure di un’eleganza che abbiamo irrimediabilmente perso, musicalmente trascinantissima, gli stereotipi sulle varie nazionalità in “Donne e mariti“, la cinica “C’è troppa concorrenza“, l’ironia sugli oratori in “Lo sport delle parole“, la scettica, probabilmente non a torto, “E se non fosse vero ?“),

canzoni che affrontano questioni di costume (la famosissima, e sempre d’attualità, “Ma… cos’è questa crisi ?“, “Il colore che vuoi tu“, dai continui cambi di melodia, le riflessioni semiserie su arte, mass-media e massimi sistemi di “Schiocca la frusta e va“, i vizi italiani stigmatizzati in “Le presento e raccomando“, lo sguardo pessimista sulla contemporaneità di “Di sera dove andare“, con i fiati che spingono tantissimo),

fino ad arrivare ad alcune clamorose meta-canzoni che, da vero nobile precursore di Elio e le Storie tese, ironizzano sui mezzi e mezzucci utilizzati per scrivere le canzoni (la deliziosa e sfaccettata “Per fare una canzone“, pure questa ancora attualissima), o descrivono la soppressione delle canzoni americane dal mercato e dalle trasmissione italiane (una straordinariamente ambigua “Addio canzoni americane“, musicalmente del tutto affine alle canzoni che il regime aveva proibito e che sono l’argomento del brano), fino al meraviglioso (non)plagio dichiarato di “Ho rubato un motivo” nel quale gioca con ampi e riconoscibili frammenti della famosa canzone “Quel motivetto che mi piace tanto“.

Musicalmente si accoppiano melodie azzeccate e immediatamente memorizzabili con strutture che dimostrano una evidente conoscenza di tanti e diversi stili musicali, con i quali tendenzialmente il De Angelis compositore si diverte a giocare insieme all’orchestra leggera che di volta in volta lo accompagna.

Non mi nascondo dietro un dito: se oggi pochi ricordano De Angelis è anche per le sue simpatie verso il regime fascista, simpatie che sono tranquillamente esplicitate in alcune delle sue canzoni, il cui ascolto ai giorni nostri risulta difficoltoso, se non altro perché è complicato entrare in sintonia con le cose che vengono cantate.
Ma bisogna dire anche che, non solo De Angelis non fu mai organico al Partito Fascista (nel ’22 irruppero a Firenze dove stava effettuando uno spettacolo per sospenderglielo), ma soprattutto il suo approccio ironico mal si adattava alla retorica fascista (non avrebbe mai potuto scrivere “Faccetta nera“) e una figura anarcoide come la sua prima o poi non poteva non entrare in contrasto con l’establishment. Ciò nonostante anche un brano come “C’è una bella società“, riferito alla Società delle Nazioni, dimostra come almeno qualcuno dei suoi brani ricchi di riferimenti politici possa essere ascoltato ancora oggi (una cosa è la propaganda, altra cosa è avere una opinione, non necessariamene condivisibile da tutti).

Aggiungo pure che molti potrebbero trovare alcuni aspetti del linguaggio di De Angelis politicamente scorretti, ma, anche qui, va sottolineato che, ad esempio, quando parla di “canzoni negre” si limita ad utilizzare un modo di parlare e di pensare del tutto normale per l’epoca (credo faccia bene a tutti sforzarsi di contestualizzare ciò che si ascolta, senza giudicarlo su parametri contemporanei che, inevitabilmente, ci porterebbero a fraintendere ciò che viene cantato o narrato).
Analogamente quando disegna scenari di improbabili paesi lontani non fa altro che utilizzare stereotipi dell’epoca che, spesso, descrivevano l’oriente (vicino o lontano) o l’Africa in maniera fantasiosa e mitizzata, lontanissima da una realtà che in quegli anni, fondamentalmente, la gente semplicemente non conosceva.

Rodolfo De Angelis è stato un artista incontrollabile e dalla fantasia sfrenata, difficilmente irregimentabile e difficilmente gestibile, che ci ha lasciato in eredità, oltre alla mia amatissima Discoteca di Stato (da lui istituita, oggi Istituto per i beni sonori ed audiovisivi), un pacchetto di canzoni spesso irresistibili e imprevedibili.

Le belle canzoni di una volta.

ROBERTO MUROLO ” Napoli e le sue canzoni “, 2007, Recording Arts

Tra le tante cose di cui NON sono esperto c’è la musica napoletana e i suoi interpreti. Mi affaccio perciò su figure quali Roberto Murolo con la consapevolezza di sapere poco o nulla della scena alla quale è appartenuto così come della sua storia personale.

Questo doppio CD, dalla copertina esageratamente ed inutilmente retorica, ha il pregio di essere assai economico (come sempre in casa Recording Arts) e di raccogliere una lunga serie di brani celeberrimi appartenenti alla recente tradizione partenopea. Anche i difetti sono i soliti, tipici dei prodotti di questa casa discografica, registrazioni non sempre di buon livello e libretti spartani (tra le altre cose in questa edizione manca qualunque informazioni sulle registrazioni dei brani, non sappiamo quando siano stati registrati, chi ci abbia suonato, ecc.).

Ma ciò che fa scintillare questo cofanetto e lo rende prezioso è, ovviamente, la voce di Murolo e le sue straordinarie capacità interpretative.
Lontanissimo da tutti quei moduli tenorili che hanno ridotto la canzone napoletana a divertissement per voci possenti, Murolo affronta brani con una così ricca storia dietro le loro spalle forte di una sensibilità fuori dal comune, una intonazione perfetta, una eleganza e una gentilezza da togliere il fiato.
Quindi tra questi solchi non aspettatevi di trovare un simil-Enrico Caruso ne, tantomeno, una vocalità dallo stile effervescente come quella di un Peppe Barra. In un’epoca nella quale le voci muscolate erano servite e riverite Murolo si rifiuta di urlare e schiamazzare e si affida a quella che è la dote più rara nei cantanti: la capacità di interpretare, la capacità di comunicare emozioni a chi ascolta invece di stupirlo con effetti speciali, la capacità di commuovere e di vivere in prima persona ciò che si canta, la capacità di valorizzare ogni singola nota che viene cantata.
Non credo di esagerare nel dire che ascoltando “Scalinatella” si viene travolti dalle pene d’amore del protagonista provando la sua stessa tristezza e il suo stesso sconforto, mentre “Lacreme napulitane” (canzone, purtroppo, tremendamente attuale) ci materializza fin dentro le viscere la durezza della vita dell’emigrante e il suo difficilissimo status psicologico.
Ma sono tantissimi i titoli (strafamosi) che Murolo rende meravigliosi ed è impossibile farne un elenco.
Peccato che tanta capacità non sia affiancata da un accompagnamento di pari valore. Perché se la semplicità di una solitaria chitarra evita di rubare la scena alla delicatissima voce di Murolo è anche vero che si poteva azzardare qualcosa in più e, soprattutto, la chitarra poteva essere affidata a musicisti più valenti.
Ma questi sono peccati veniali per l’opera di un artista il cui ruolo nella storia della canzone italiana non è stato ancora sufficientemente esaltato.

Puro velluto.

SHANGHAI LOUNGE DIVAS, 2004, EMI

Doppio CD curato da tale Ian Widgery che mi aveva molto incuriosito e il cui ascolto, dalle alterne qualità, mi spinge ad un paio di riflessioni.

Tutta l’operazione gira attorno ad alcune registrazioni risalenti agli anni ’30 di cantanti cinesi (le divas del titolo) che incisero, all’epoca, per la Pathe Marconi e delle quali, evidentemente, si è riusciti a recuperare parte della produzione d’epoca (siano sempre ringraziati i collezionisti di 78 giri e vinili vari e il loro cocciuto quanto infantile entusiasmo).

Il primo disco contiene quelli che vengono definiti, con formula che fa drizzare i peli della schiena, remix for today. Fortunatamente non si tratta di appoggiare le voci altissime di queste chanteuses orientali sul classico ritmo ossessivo da discoteca, piuttosto Widgery tenta una operazione ESTREMAMENTE simile a quella fatta qualche anno fa da Moby. Costui prese alcuni frammenti vocali di musicisti che oggi si definirebbero di pre-war folk (registrazioni storiche di cantanti di blues e dintorni) e ci costruì attorno delle canzoni elettro-pop di buona fattura, senza maltrattare troppo gli originali e soprattutto trovando un buon equilibrio tra la creatività propria e l’uso delle melodie originali.
In buona sostanza Moby si limitò a rubare alcune melodie essenziali e ad utilizzarle all’interno di brani suoi. L’operazione, seppur discutibile e in parte blasfema, ebbe un grande successo (specie tra i pubblicitari che cercavano musiche per i loro spot) e buone critiche, ed era naturale producesse degli epigoni.
Qui, purtroppo, mancano sia le capacità musicali di Moby sia la chiarezza del suo progetto, e quelle che ascoltiamo sono solo versioni modernizzate dei brani originali, neanche troppo dissimili, e solo raramente apprezzabili (la battuta bassa di “Plum blossom“, la techno dolce di “The pretender“). Widgery le rende appena appena più moderne (e più banali) aggiungendoci di suo molto poco (e quel poco suona molto di maniera). Tra l’altro tra tutti i campionamenti aggiuntivi che poteva inserire in queste versioni moderne sfrutta ogni occasione possibile per metterci frammenti di brani dei Kraftwerk che, francamente, hanno troppa personalità per passare inosservati e suonano completamente fuori posto.

Per moltissimi versi è più interessante il secondo cd contenente le original recordings. Inutile dirvi che nulla sapevo di questo estremo Oriente canterino di inizio secolo scorso, mi aspettavo quindi qualcosa di molto cinese e invece mi sono sorpreso ad ascoltare brani non molto dissimili da quelli che nella stessa epoca venivano cantati in Europa, Stati Uniti e Sud America.
Evidentemente già allora, grazie alla radio, alla neonata industria del vinile e, ovviamente, a tutto l’enorme fenomeno del colonialismo, il mondo era già molto globalizzato (sicuramente molto più di quanto immaginassi io) e pure in un paese lontanissimo come la Cina si potevano ascoltare canzoni fortemente debitrici alla musica nera e alle sue evoluzioni nord-americane (soprattutto al jazz e al blues come in “Waiting for you” o “The pretender“, ma si può ascoltare anche lo straniante swing exotico-tribale di “Beautiful spring night“, il quasi-country di “Rose rose I love you” o il Broadway-musical di “Shangri-la“). Naturalmente la vocalità acuta di queste artiste (tra quelle che ho apprezzato di più vi cito Bai Kwong, Li Xiang-Ian e Chang Loo) restava giustamente condizionata da secoli di storia musicale cinese, ma se vi capiterà di ascoltare qualcuno di questi brani non potrete non notare la vicinanza tra queste musiche e quelle, ad esempio, del coevo Trio Lescano.

Il disco si ascolta con grande piacere e contiene diversi brani di cristallina bellezza con interpretazioni da brivido. E’ il caso dello pseudo-boleroPlum blossom” dove Li Xiang-Ian si supera in una performance semplicemente perfetta, o del Cotton Club made in China di “All the stars in the sky” e di “Listen up“.

Spiccano anche, qui e la, echi della tradizione melodico-operistica italiana ed europea (il violino strappacuore di “You in my dream“, le nacchere spagnoleggianti di “Intoxicating lip rouge“), e imbarazzanti somiglianze con famosissimi brani occidentali (“The Blossom Youth” dall’inizio molto simile al classicone “Happy birthday/Tanti auguri a te” o “Without you” una polka non lontana dalla nostrana “Reginella campagnola“)

Era un (sorprendentemente) piccolo mondo già 80 anni fa…


p.s. Scusatemi per i titoli impropriamente in inglese, ma questo passa il convento (solito vizio di noi occidentalocentrici)
p.p.s. Di questa antologia esiste anche un “volume 2” che, per quello che riguarda i remix, è ancora peggio del primo, mentre la qualità dei brani originali è alterna e mediamente inferiore (e secondo me anche contaminata da cose molto più recenti e meno interessanti).

PREWAR FOLK

Qualcuno avrà forse notato che da qualche mese nella colonnina dei link (sulla vostra sinistra) ne compare uno collegato al sito dove la mia rivista di riferimento (Blow Up) ospita una serie di podcast relativi alle musiche di cui si occupano nei loro (spesso interessanti) articoli. Tra i tanti già resi disponibili mi fa piacere segnalarvi 3 corposi mp3 da un’oretta l’uno in cui si ripercorrono, per sommi capi e poche chiacchiere, le vicende legate a quello che oggi si usa chiamare prewar folk (la musica popolare americana incisa a cavallo tra le due guerre mondiali dello scorso secolo). Li trovate nella sezione “Other sounds“.

Detto grossolanamente: trattasi delle radici degli stili che saranno chiamati country e blues e che, a loro volta, sono alla base di gran parte della musica pop moderna.
Ad accompagnarci in questo viaggio c’è Stefano Isidoro Bianchi, direttore della rivista e recente autore di un libro che approfondisce proprio queste musiche e tutti questi musicisti ormai entrati nel mito come veri e propri padri fondatori della musica di oggi.
Chi mi conosce e segue questo blog sa che sono abbastanza allergico alla musica nera. Ciò nonostante ho trovato queste 3 ore di ascolto molto stimolanti, piene di curiosità e utilissime a meglio comprendere il modo in cui si è evoluta la musica popolare del ‘900 smentendo anche alcuni diffusi luoghi comuni (interessantissima la parte dedicata all’influenza che la neonata industria discografica, codificando i generi musicali, ha avuto su una realtà che era molto più complessa e razzialmente indistinta deformandola e modificandola).
Credo ci siano più cose interessanti e sorprendenti in queste 3 ore che in un anno di programmazione musicale di Radio DJ o di RadioRai2.

Dall’ascolto di questi che sono, a tutti gli effetti, dei veri e propri programmi radiofonici (seppur diffusi attraverso un canale diverso dalla radio) mi sono nate alcune riflessioni che voglio condividere con voi (sperando di riuscire ad essere comprensibile).

Nel sentire SIB parlare di questi musicisti e penetrando in questo universo che mi era quasi completamente sconosciuto mi è venuto naturale pensare che quello che fa Blow up (oltre, ovviamente, alla legittima promozione della rivista e dei suoi libri) è vero e proprio SERVIZIO PUBBLICO. Quello che la RAI non ci da più, o non ci da in maniera adeguata.

Le grandi case editrici di musica (peraltro ormai dirette da personaggi emblematici come Eric Nicoli, presidente della EMI dal 1999 al 2007, che proveniva dalla United Biscuits e che nella sua vita aveva lavorato esclusivamente nel settore alimentare, il suo più grande successo fu la barretta di cioccolato Lion….) continuano con la loro caccia alle streghe contro i cosiddetti pirati informatici e il download selvaggio (identificati ipocritamente come unica vera e indiscutibile causa del crollo delle vendite dei CD) e non si rendono minimamente conto che quella che ormai manca in tutto il mondo occidentale, e particolarmente nei giovani, è una vera cultura della musica unita ad una appropriata educazione all’ascolto della stessa.

Negli ultimi 20 anni le major si sono sforzate di vendere la musica come fosse una merce qualsiasi CERCANDO DI PERSUADERE i ragazzini ad appassionarsi a divi e divetti di plastica (vedi le tante boy-band o le tante nuove ed ennesime strafiche della musica nera). In questo hanno avuto anche un discreto successo ma non si sono resi conto che si trattava di una vittoria di Pirro. Non hanno pensato/provato a fare musica di qualità con la quale far crescere i propri “clienti” portandoli ad avere passione ed interesse REALI per la musica. No.
Li hanno persuasi a correre appresso alla moda del momento senza mai appassionarli al contenuto dei dischi che venivano venduti (contenuto al quale i ragazzini sono, alla fine della fiera, fondamentalmente indifferenti, non a caso con la stessa rapidità con la quale si entusiasmano per Tizio altrettanto rapidamente se lo dimenticano per passare al nuovo “artista” trendy).
In questo modo hanno cresciuto generazioni di fanciulli che una volta adulti si sono inevitabilmente disinteressati alla musica smettendo, logicamente, di comprare dischi.
Non è un caso che sembra siano rimasti solo gli over-40, formatisi oltre due decenni fa, ad essere interessati all’acquisto di musica, ancora convinti che valga la pena spendere qualcosina per avere dei dischi che, essi ritengono, li possano accompagnare piacevolmente per anni facendo parte stabilmente delle loro giornate.
Non rapide fiamme di passioni ormonali ma veri amori adulti che durano tutta una vita.

Una strada seria per riacciuffare per i capelli il mercato dei dischi potrebbe essere quella implicitamente indicata da Blow Up. La RAI dovrebbe, a parer mio, preparare decine di programmi dedicati a tutta la storia della musica. Da quella antica a quella classica, dal rock alla techno, dal folk sud-americano a quello asiatico e così via. Ma invece di limitarsi a trasmetterli una tantum per radio dovrebbe creare un archivio facilmente consultabile in cui conservare queste trasmissioni, dall’esplicito intento didattico/enciclopedico, rendendole liberamente scaricabili da chiunque. Ovviamente questi programmi dovrebbero essere fatti da esperti (e possibilmente appassionati) della materia in maniera tale da risultare il più possibile appropriati (da un lato) e coinvolgenti (dall’altro).

Mi piace immaginarmi un ragazzo che, incuriosito chissà come sulla musica di Verdi, si va a scaricare un’oretta di estratti dalle sue opere liriche per decidere se approfondirlo o meno, o un altro che avendo sentito parlare del rock progressivo inglese degli anni ’70 (oppure del krautrock, o della dodecafonia, o del tango argentino, o della musica pop etiope degli anni ’60 e ’70…) va in rete e con un paio di click ha subito la possibilità di farsi una idea (approssimativa, sbrigativa, generalissima, forzatamente schematica, ma, comunque, una prima accettabile e condivisibile idea) di quello che nasconde quel genere (o quell’autore).
Ancor di più mi entusiasmo al pensiero delle singole scuole (elementari, medie, superiori) dove i docenti potrebbero ogni anno scegliere alcuni temi, fornire ai ragazzi gli ascolti (sempre pescando dall’archivione RAI), darglieli come compito a casa (oh yeah !) per poi integrarli con lezioni, dibattiti, approfondimenti, ulteriori ascolti, libri e quant’altro.
La rinascita di una cultura musicale in Italia degna di questo nome passa obbligatoriamente per l’istituto scolastico (sulle tanto mitizzate famiglie meglio non contare…). E’ quello il luogo e il momento nel quale si può provare a far nascere nei cuori dei nostri giovani (o almeno in alcuni di loro) un sano interesse verso questa arte ingiustamente ridotta a puro marketing.

In questa maniera si potrebbe (forse) rimettere in moto un meccanismo che porterebbe (parte del)le nuove generazioni ad amare la musica, ad ascoltarla, a comprarla e, soprattutto, a desiderarla come una componente importante e fondamentale della propria cultura e non solamente come qualcosa da usare come tappezzeria o per avere compagnia in automobile.

Costerebbe poco. Basterebbe organizzarsi.

Ma naturalmente la RAI avrà altre cose da fare (tipo inseguire l’audience delle radio commerciali), mentre il parlamento italiano continuerà a voler credere che è tutta colpa del P2P e persisterà nel fare leggi assurde in difesa del diritto d’autore (mito moderno dai piedi di argilla) compiacendo non tanto i cittadini del belpaese quanto l’industria discografica.

Ecco com’è che va il mondo.

CARLOS GARDEL “Déjà vu golden collection”, 2006, Recording arts

Non sono un esperto di tango, incomincio solo adesso a scoprire questo universo che tanti amanti annovera. Di Gardel so solo che è da sempre considerato l’uomo che ha incarnato il tango alla massima potenza. Sono rimasto folgorato, casualmente, da questa musica ascoltata in un negozietto berlinese visitato durante la mia vacanza del luglio scorso e non appena tornato a casa sono corso ad approfondire la questione.

Il tango è una musica allo stesso tempo conosciuta e ignota, familiare ed esotica.
Conosciuta perché fa parte della nostra cultura musicale in maniera profondissima (da “La cumparsita” al “Tango delle capinere” è uno stile che non si può non avere nel nostro DNA di ascoltatori italiani, lo si incontra facilmente anche in alcune canzoni di cantautori nostrani, da Guccini a Morgan per non parlare delle pubblicità strapiene di temi di Piazzolla).
Ma è anche ignota perché da noi non si è colto che qualcosa di molto superficiale, e non abbiamo sviluppato che in minima parte il culto, la dedizione, che in Argentina circonda questo ritmo appassionato ne tantomeno ci siamo interessati della raffinatezza che ha raggiunto questa musica e delle tante articolazioni che ormai la compongono.

Questo mega-cofanetto (4 cd più un dvd) raccoglie 80 canzoni (3 ore e mezzo di musica) cantate da Gardel nel breve arco di un quindicennio (1920-1935) e la sensazione principale che si prova ascoltandole è quella di uno straordinario e particolarissimo coinvolgimento emotivo. La voce di Gardel è abilissima nel caricare di enfasi le interpretazioni di brani che sembrano parlarci di amori lontani, non corrisposti o finiti male (l’intenso odio espresso in “Rencor” è qualcosa di strano e inusuale per una canzone), più raramente di amori felici e sereni, incrociando questi amori con il rapporto struggente con la terra natia. Siamo al limite della teatralità con l’espressività vocale molto pronunciata e che, di volta in volta, veste i personaggi protagonisti delle vicende cantate dalle canzoni (a volte ricoprendo contemporaneamente più di un ruolo).
Il rischio di cadere nella macchietta o nell’avanspettacolo è sempre presente (per tacere dell’incubo sceneggiata-strappacuore nascosto dietro l’angolo), ma lui sempre, e con grande abilità, riesce a rimanere vero e credibile con il risultato di commuoverci e far risuonare le corde dell’empatia con precisione quasi scientifica. La dizione è attenta e curata, il cantante accelera o rallenta ad arte i versi cantati in maniera da renderli meglio aderenti alla storia raccontata, insomma c’è una capacità interpretativa di tutto rispetto (e non ci volevo certo io a scoprirlo).
Naturalmente non tutti i brani sono riusciti allo stesso modo, alcuni si appoggiano su melodie affascinanti che ti entrano in testa e non ti abbandonano per giorni e giorni mentre altri scivolano via abbastanza distrattamente. Ma resta lo stupore per una musica che sembra comunicare con parti di noi straordinariamente intime, che raramente riescono ad essere sollecitate dall’universo musicale tutto.

Difficile citare qualche titolo, tra i tanti, forse, posso segnalare “Por una cabeza“, dagli archi e coro struggenti come non mai, la drammaticissima “Sus ojos se cerraron“, “Almagro“, piena di rimpianto per il quartiere della giovinezza e appoggiata su di una melodia maschia e nostalgica allo stesso tempo, o ancora le classicissime “Volver“, “Clavel del aire” e “Mi Buenos Aires querido” fino alla divertente deriva anglofona di “Cheating muchachita” dove sembra di ascoltare un Dean Martin ante-litteram emigrato in Patagonia.
Le canzoni sono spesso arrangiate in maniera essenziale, voce e una o più chitarre, anche se ogni tanto si presentano dei cori di accompagnamento (“Lo han visto con otra“) o altri strumenti (gli archi di “Lejana terra mia“, il violino+fisarmonica di “Senda florida“, dei, presunti, mandolini, come in “Silbando“), dosati sempre con misura e buonissimo gusto, che aggiungono pathos alle canzoni. Com’è naturale che sia non ascoltiamo sempre e solo tango, ogni tanto l’interprete allarga i propri orizzonti eseguendo canzoni di altro genere come la messicaneggianteMi tierra” o “Caprichosa” dall’intenso odore mediterraneo.
Singolare (a dir poco) la scelta della casa discografica di mettere la gran parte dei brani in ordine alfabetico (?) o alfabetico-rovesciato (????). Più interessante sottolineare come questa musica non venga rovinata dalla inevitabile scarsa qualità audio delle incisioni, ma, al contrario, i fruscii e le distorsioni del grammofono sembrino donargli energia emotiva con effetto simile a quello che si prova guardando graffiati film muti in bianco e nero con gli attori che si muovono a scatti.

Il dvd, seppur non fondamentale, contiene oltre un’ora di estratti da film o da proto-video di misteriosa provenienza (forse furono fatti per i cinema dell’epoca ?) nei quali possiamo vedere il nostro eroe cantare e recitare (spesso sopra delle navi…), ed è un utile compendio al materiale prettamente audio che ci regala immagini di una epoca lontana (canonicamente in bianco e nero) che è bello ritrovare.

Dritto al cuore.

Occasioni

Sempre a chi dice che i CD costano troppo segnalo alcune cose viste e/o comprate in questi giorni a prezzi davvero bassi:

  • gran parte della discografia di Alice è in vendita a 5 euro, tra gli altri titoli “Il sole nella pioggia” pieno zeppo di capolavori camisaschiani
  • The sinking of Titanic” di Gavin Bryars nella splendida esecuzione pubblicata dalla Point music a 5,90 euro
  • un mega-cofanetto di 4 CD + 1 DVD “DEJA VU GOLD COLLECTION” (?) dedicato a Carlos Gardel a 10,90 euro contenente musica davvero immortale
  • Minimal piano collection” del pianista Jeroen Van Veen contenente 9 CD con musiche di Glass, Adams, ten Holt, Part, Tiersen, Nyman, Mertens, Riley, ecc. a 23 euro (l’ho preso a Berlino ma si dovrebbe trovare anche qua) che per chi è interessato ad una buona introduzione al rapporto tra minimalismo e pianoforte è davvero un’ottima scelta

Quindi non lamentatevi ed evitate di affermare che siete “costretti” a scaricare la musica !

p.s. Per nuove recensioni ci aggiorniamo a dopo le vacanze 

AA.VV. “Ma cos’è questo vintage ?”, Warner Music, 2005

Sembra incredibile, ma, nell’asfittico panorama odierno, dobbiamo ringraziare Sorrisi e Canzoni TV (si, proprio la rivista…) per aver portato nelle edicole di tutto il paese dischi di qualità e decisamente coraggiosi. E’ bene specificare che normalmente i CD venduti con Sorrisi… sono dischi di successo e non particolarmente originali, ma, ogni tanto, succede che tra i Nek e le Pausini compaiano piccole chicche come il doppio CD sul Gaber giovanile, di cui già scrissi, o come il meritorio doppio CD dedicato a brani di Sergio Endrigo da tempo fuori catalogo.

Questa volta tocca a questo (ennesimo) doppio CD che raccoglie canzoni soprattutto degli anni ’30 e ’40 (ma con puntatine fino ai primissimi ’60) estratte dal catalogo della mitica Fonit Cetra. Un repertorio non ancora sufficientemente apprezzato che ci ha regalato straordinari interpreti e meravigliose canzoni.

Com’era da aspettarsi nel CD compaiono sia interpreti di assoluto valore (Alberto Rabagliati, il Trio Lescano, Natalino Otto, il Quartetto Cetra, l’immenso Rodolfo De Angelis) sia singole canzoni strepitose (“Mambo italiano” di Carla Boni, “Quel motivetto che mi piace tanto” di Pippo Barzizza, “Voglio vivere così” di Ferruccio Tagliavini“), ma non mancano tra i 38 brani che compongono la scaletta alcune tracce la cui presenza è immotivata (per non dire incomprensibile…) come il “Passo di corsa” della Fanfara dei Bersaglieri  (?) o un’aria da “I puritani” cantata da Maria Callas (???).
Altri brani sembrano infilati in mezzo un po’ a forza (la classica Milva di “Milord“, Paolo Poli che canta “La madre dell’alpino“, “Finalmente solo” interpretata da Alberto Sordi…).

La parte più interessante, secondo me, è costituita da alcune splendide canzoni minori (“I ragazzi dello swing” del Duo Fasano, “C’è un’orchestra sincopata” dello straordinario Trio Lescano, “Dammi un bacio e ti dico di si” cantata da Vittorio De Sica) o da alcuni interpreti ingiustamente dimenticati (l’ottimo Ernesto Bonino qui presente con la divertente “A quindici anni” o Elio Lotti e la sua “Che musetto“).

Tra le canzoni che sembrano essere invecchiate peggio figurano le due cantate da Nilla Pizzi (“Bongo bongo bongo“, dal testo di un razzismo imbarazzante e ingiustificabile, e la famigerata “Papaveri e papere“) e certe canzoni esageratamente melodiche (il “Vecchio scarpone” di Gino Latilla) mentre fanno comunque una buona figura gli artisti degli anni ’50 (che io personalmente amo molto meno…) da Domenico Modugno, in versione spiritosa sia ne “La donna riccia” sia nella carosonicaPasqualino Maragià“, ad un Johnny Dorelli iper-confidenziale mentre canta “Boccuccia di rosa” fino al grande Fred Buscaglione qui presente con una raraNon partir” e la non molto conosciuta “Porfirio Villarosa“.

Insomma una raccolta con delle pecche evitabili ma che vale comunque la pena di prendere (anche perchè non va sottovalutato il costo ridotto a soli 10,90 euro).

Restiamo in attesa di un progetto più organico che riporti nella giusta luce un patrimonio molto interessante e purtroppo abbastanza dimenticato, qualcosa che non sia solo per gli addetti ai lavori (come fu, di fatto, l’enciclopedico ed apprezzatissimo “Fonografo italiano” di qualche anno fa) ma capace di risvegliare anche nelle nuove generazioni l’interesse per un’epoca fatta di radio e di orchestre, di cantanti sensibilissimi e di musiche raffinatissime, di testi disimpegnati ma interpretati con attenzione commovente.