BIS [2016]

Mi capita spesso di ascoltare eccellenti dischi di artisti, o scene musicali, dei quali ho già parlato in passato. Dischi che non aggiungono nulla di particolare a quanto già scritto, e che quindi non meriterebbero un ulteriore post su queste pagine (sarei costretto a riesprimere gli stessi concetti già espressi in precedenza), ma che, allo stesso tempo, sono lavori davvero belli, lavori che se li avessi conosciuti prima sicuramente sarebbero stati citati nei post in questione.
Ho deciso pertanto, a partire da questo ormai terminale 2016, di dedicare a tutti questi dischi una sorta di post riassuntivo (a scadenza annuale) per segnalarveli rapidamente e non farli cadere nell’oblio (sia chiaro, parlerò di dischi che ho ASCOLTATO nel 2016 non necessariamente di dischi USCITI nel 2016).


Iniziamo questa rubrica citando il 17° volume della serie “Éthiopiques ” (ve ne parlai qua) dedicato alla incredibile voce di Tlahoun Gèssèssè, un disco paradigmatico di tutto il fenomeno di cui vi parlai, caratterizzato da ottime canzoni splendidamente eseguite e con protagonista il cantante che più di tutti veniva considerato, non a torto, il migliore in Etiopia in quegli anni. Uno dei must have di tutta la serie.

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Passiamo ora ad un quadruplo (!) CD contenente 6 LP di Ravi Shankar (cliccate qua per leggere come lo ricordai in occasione della sua morte) relativi ai suoi esordi discografici (parliamo di un periodo che va dal 1956 al 1962). Intitolato semplicemente “Six classic albums” è un gioiellino che spicca per la qualità della musica contenuta, per l’ottimo livello delle registrazioni (incredibile come suonino bene certe incisioni d’epoca, a dispetto di quello che si potrebbe pensare) e per il costo decisamente (per non dire ridicolmente) basso. Tutta roba imperdibile per chi ama la musica classica indiana (e dentro ci trovate pure il maestro delle tabla Allah Rakha). Peccato per il libretto non all’altezza, ma credetemi che non vi pentirete dell’eventuale acquisto

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Due parole anche su “Lost and found” atto (forse) conclusivo dell’epopea del Buena Vista Social Club (ci andai in fissa anni fa e ve ne parlai ripetutamente in questo e quest’altro post). Realizzato con tagli, ritagli e frattaglie (frammenti live, scarti dalle registrazione dei tanti dischi usciti, session improvvisate, registrazioni di progetti abortiti…) sarebbe potuto essere il punto debole di tutta l’operazione e invece, lo ammetto, con mia sorpresa, risulta essere un disco bellissimo che può del tutto competere in bellezza ed eleganza (e cuore) con tutta la produzione curata dalla World Circuit. Un disco che vi suggerisco di non sottovalutare e che mi sta regalando ottimi momenti.

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Continua l’epopea dei cofanettoni di classica (ve la ricordate ? qui e qui ciò che vi raccontai). Quest’anno mi sono particolarmente dedicato al recupero di materiali della storicissima etichetta Archiv (sub-label della Deutsche Grammophon) che ha raccolto in alcuni cofanetti sue incisioni, soprattutto relative agli anni ’80. Tra queste segnalo, anche per il prezzo che, se si sa cercare in rete, può essere davvero conveniente, quello intitolato “Concertos & orchestral suites” dedicato a Johann Sebastian Bach ed eseguito dall’English Concert diretto da Trevor Pinnock. Al suo interno 8 CD con una serie incredibile di capolavori (dai Concerti Brandeburghesi alle Orchestral suites passando per i Concerti per clavicembalo, quelli per violino e quelli per varie altre strumentazioni) registrati benissimo e suonati divinamente. Vi serve sapere altro ?

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Segnalo poi le conferme di artisti quali:

– i Boards of Canada (ve ne parlai qua) che con il loro “Tomorrow’s harvest” realizzano un album particolarmente raffinato e godibile

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Antonella Ruggiero (leggete qua e qua cosa scrissi) che nel suo “L’impossibile è certo” trova modo di arricchire il suo repertorio con canzoni di buon (a volte ottimo) livello, impreziosite dalla sua voce sempre splendida e oramai a livelli interpretativi semplicemente stellari

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Fabio Orsi (qui l’articolo a lui dedicato) che continua a stupirmi con un altro gioiellino, il triplo (!) “The new year is over“, progetto davvero riuscito con la sua elettronica ambient avvolgente e mai banale

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Arturo Stalteri (anche di lui vi parlai in questo post) che torna con un disco di suoi lavori, intitolato “Préludes“, che si posiziona tra le sue migliori opere di sempre segnando una notevole maturità compositiva

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Brian Eno (di lui ho parlato spessissimo, ad esempio qua e qua, ma anche qua e qua) che con “The Ship” realizza un’opera ambient per molti versi particolare e particolarmente riuscita (ma lui è una garanzia)

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Catherine Christer Hennix, compositrice di culto, ve ne parlai per questa opera spettacolare, che, con il suo progetto Born of six (insieme ad Amelia Cuni e Werner Durand), ha realizzato un bellissimo disco, “Svapiti“, con sonorità un po’ a metà strada tra Prima Materia, i raga indiani e il minimalismo estatico di LaMonte Young e Terry Riley, registrazione che non suona mai scontata e stupisce ed illumina ad ogni ascolto (quando gli artisti centellinano le uscite, fatalmente il livello medio cresce a dismisura)

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Buon Anno (ricco, vi auguro, di buona musica)

5 dischi non propriamente di musica classica della Deutsche Grammophon

  • Max Richter Recomposed by Max Richter: Vivaldi – The four season” (2012)
  • Ravi Shankar The spirit of India” (1980)
  • Steve ReichDrumming – Six pianos – Music for mallet instruments, voices and organ” (1974)
  • Philip GlassViolin concerto” (1993)
  • Mercedes SosaCorazon libre” (2005)

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PHILIP GLASS & RAVI SHANKAR “Passages”, 1990, Private music

La fine del 2012 ha portato, tra gli altri, due lutti piuttosto importanti per la musica. Di uno si è parlato diffusamente, dell’altro se n’è trovata qualche vaghissima traccia in giro per la rete. Dedicherò un post ad entrambi i musicisti iniziando da quello più famoso e celebrato.

Con Ravi Shankar non è scomparso soltanto un musicista, un ottimo interprete del sitar, un autore di tanta musica nuova e moderna fortemente radicata nella tradizione classica indiana. Con lui scompare un formidabile divulgatore della musica indiana ed il principale responsabile della notorietà che ebbe questa musica in Occidente negli anni ’60 (e che continua ancora ai giorni nostri).

Oggi può sembrare incredibile, ma ancora negli anni ’60 la musica indiana era nota solo ad una piccolissima élite di musicologi ed esperti di musiche non-occidentali, mentre il grosso dei consumatori di musica e degli stessi musicisti occidentali non la conosceva affatto. Fu questo signore ad imporla all’attenzione di noi tutti tramite un’incessante opera di divulgazione effettuata sia attraverso concerti ed apparizioni televisive, in Europa e in America, sia “conquistando” l’attenzione e l’interesse di musicisti celebrati (su tutti, inevitabilmente, George Harrison ed i Beatles). Se oggi è possibile con relativa facilità comprare dischi di musica indiana, se oggi posso pronunciare la parola raga senza venire guardato come un marziano, gran parte del merito è di questo autentico ambasciatore della cultura musicale dell’India. E, retrospettivamente, è un merito enorme (come è merito enorme quello di tutti quei tanti musicisti che hanno cercato di costruire ponti tra culture diverse, promuovendo incroci e meticciati).

Non è un caso che tra i suoi tanti dischi, quelli a me più cari non sono quelli contenenti i tradizionali raga indiani, di cui pure è stato grande interprete, quanto due collaborazioni illustri: quella con Yehudi Menuhin (“West meets East“, un grande violinista classico occidentale e un grande sitarista indiano provano a trovare i punti di contatto tra queste due straordinarie tradizioni già nei lontani anni ’60) e quella con Philip Glass. Ed è di quest’ultima che vi voglio parlare.

Glass e Shankar si incrociano la prima volta quando quest’ultimo sta realizzando la colonna sonora del film di Conrad RooksChappaqua” (film incredibile, psichedelico e molto difuorista). Glass si occupa di trascrivere sullo spartito le composizioni di Shankar, ma per lui questa collaborazione sarà qualcosa di importantissimo, una vera e propria epifania. Vedendo lavorare il maestro indiano incomincia a intravedere un modo completamente nuovo e diverso di comporre e di pensare la musica (rispetto a quanto da lui studiato in Accademia) che lo porterà in tempi rapidissimi ad abbandonare l’approccio fin lì usato per la composizione ed a cambiare stile per produrre i suoi primi lavori ascrivibili a quello che poi verrà chiamato minimalismo.

Passages

Ad un quarto di secolo da questo primissimo incontro Glass e Shankar decidono di realizzare un disco assieme ed escogitano un modus operandi molto particolare: ognuno consegna all’altro due temi affidandogli anche lo sviluppo e l’arrangiamento degli stessi. Le sei tracce del disco conterranno pertanto due composizioni di Glass realizzate a partire dal materiale fornito da Shankar (ed eseguite da musicisti occidentali), due composizioni di Shankar realizzate a partire dal materiale fornito da Glass (eseguiti anche da musicisti indiani), più due tracce realizzate in proprio dai due musicisti.

Il risultato è qualcosa di diverso da tutto quello che i due abbiano mai fatto ed il disco appare davvero come appartenente ad entrambi, senza che nessuno dei due prevalga, in una sintesi potente e affascinante.

Offering” è il primo dei due brani in cui Glass arrangia e interpreta Shankar, ed è subito vertigine. La strumentazione è occidentale (archi e fiati in evidenza), ma l’atmosfera richiama chiaramente l’India mentre certe reiterazioni, soprattutto dei violoncelli, richiamano il Glass più meditativo. Quando il brano accelera e aumentano le ripetizioni davvero non si sa più cosa stiamo ascoltando, rapiti da un suono che ci è familiare e straniero allo stesso tempo. Solo nella terza parte del brano la metamorfosi verso lo stile glassiano si compie pienamente manifestandosi in una sezione dove il modo minimalista prende il sopravvento in quello che è forse un delizioso esercizio di stile pienamente riuscito.
L’altro brano concepito in questo modo è “Meetings along the edge” e anch’esso vede Glass piegare il proprio stile verso un’atmosfera nella quale le complesse melodie di Shankar si insinuano in maniera molto naturale nelle strutture glassiane creando un brano che brilla per la capacità di trascinarci con sé forte dei suoi ritmi rapidissimi e dei suoi contrappunti micidiali.

L’altra faccia della medaglia sono i due brani in cui Shankar, ed i suoi musicisti, lavorano sui temi di Glass ovvero la seconda traccia, “Sadhanipa“, (intro calma ed evocativa che subito lascia spazio al sitar che ripete, molto minimalisticamente, brevi e semplici frasi melodiche con gli altri strumenti che portano presto il brano verso suoni decisamente più vicini all’India che agli USA, in un brano che, pur essendo estremamente godibile, risente solo marginalmente del compositore americano) e la quarta, “Ragas in minor scale” (con, in particolare, il sarod e il sitar piuttosto vicini all’estetica glassiana e i flauti a remare verso il subcontinente indiano, in un pezzo che meglio dell’altro, anche per la presenza degli archi, disegna improbabili quanto affascinanti vie di mezzo tra Oriente e Occidente).

Restano i due brani autonomi, “Channels and winds” di Glass (classicamente suo con in bella vista la voce di Jeanie Gagne) e la conclusiva, bellissima ed inafferrabile, “Prashanti” di Shankar, con un uso delle voci molto interessante nella prima parte (affidata al Madras Choir Orchestral group) e semplicemente entusiasmante nella seconda parte (dove canta lo stesso Ravi Shankar supportato da S.P. Balasubramanyam) prima con le voci che corrono a velocità folle e poi, nella sezione conclusiva, con ritmi molto più lenti intonando melodie di estrema delicatezza.

I due stavano progettando un sequel di questa opera, e non so dirvi se i lavori fossero abbastanza avanti da poterci regalare nuovi passaggi, ma questo disco resta valida testimonianza del valore di due grandi artisti e di come le musiche dovrebbero cercarsi ed inseguirsi, senza rimanere sempre e solo chiuse dietro alti, e fin troppo comodi, steccati.

YUNGCHEN LHAMO in concerto a Roma, 24/03/2008

E’ d’obbligo premettere che ascolto la musica di questa straordinaria cantante tibetana da tempi non sospetti (almeno una decina d’anni) e non mi sono quindi recato ad ascoltarla spinto dalla grande visibilità che in questi ultimi mesi ha avuto il dramma del Tibet (e, peraltro, dopo quasi 50 anni, era anche l’ora che il Tibet avesse un po’ di visibilità…).

Evidentemente le tante polemiche di questi giorni su olimpiadi si – olimpiadi no hanno fatto che si che alle 11 del mattino ci fosse una sorprendente ressa di gente interessata ad ascoltare questa musicista, una folla così numerosa da farmi disperare per essere rimasto tra i tanti esclusi dall’evento. Poi, fortunatamente, mi sono molto rallegrato per la decisione dell’organizzazione e dell’artista di far svolgere due concerti consecutivi in maniera da accontentare più persone possibile (la sala all’interno della deliziosa Casa del cinema, ennesimo miracolo veltroniano, può ospitare, ad occhio, circa 300 persone).
Era la prima volta che avevo l’occasione di vedere la Lhamo dal vivo e devo dire che se su disco le sue qualità colpiscono, dal vivo ti lasciano letteralmente interdetto. Si è presentata tutta vestita di bianco con i lunghissimi capelli a incorniciarle il corpo fino alle ginocchia (data l’altezza non ci vuole poi molto… ma è comunque una lunghezza notevole) ed un foulard con i colori della sua bandiera appoggiato sulle spalle.
Per tutta la prima parte ha cantato da sola, senza nessunissimo tipo di accompagnamento, le sue canzoni (chiamiamole così… in realtà sono linee melodiche estremamente dilatate sulle quali lei si arrampica con sapienza sopraffina, salendo lentamente e lentamente discendendo, c’è molto poco della nostra classica struttura con strofa e ritornello…) mentre nella seconda parte si è fatta accompagnare da un musicista tedesco (Budi Siebert) che, in buona sostanza, si è limitato a qualche percussione o a minime sonorità, generalmente acustiche, da contrapporre alla nuda voce della Lhamo.
Quello che più mi ha stupito è stato vedere, da un lato, l’estrema attenzione e concentrazione della cantante attentissima a padroneggiare con perfezione le sue corde vocali modulando i suoni con precisione chirurgica e, spesso, tenendo (anche molto) a lungo la stessa nota con perizia assoluta. Dall’altro lato c’e stata una analoga estrema attenzione verso l’aspetto “estetico” della performance: ha sempre accompagnato l’esibizione sforzandosi di mascherare lo sforzo fisico, mantenendo una mimica corporale e facciale adeguata a trasmettere il senso di ciò che veniva cantato senza cedere minimamente alla tentazione di concentrarsi esclusivamente sul cantare col rischio di rovinare il tutto con qualche smorfia inopportuna o con qualche respiro troppo profondo.
Un atteggiamento molto orientale che sembra dare pari valore sia a ciò che si canta sia al come lo si mostra e nel quale l’enorme capacità vocale di questa cantante fa il paio con l’eleganza di una messa in scena nella quale non smette mai di dispensare sorrisi, dolci occhiate e di muovere con delicatezza braccia e mani.
Durante la performance ha anche provato a coinvolgere il pubblico nei suoi canti con risultati non troppo brillanti (a dispetto della folla presente, non ho idea di quanti si siano pentiti di aver sacrificato la mattina della Pasquetta per ascoltare questa musica, a giudicare dalle facce che ho visto direi che più di qualcuno, per quanto solidale con il Tibet, avrebbe preferito ascoltare tutt’altro). A fine concerto, con grande disponibilità, si è trattenuta nei dintorni della sala per chi avesse desiderio di incontrarla più da vicino fosse anche solo per un autografo.

Celestiale (Tibet).


http://www.yungchenlhamo.com
http://www.yungchenlhamo.org/

SHANGHAI LOUNGE DIVAS, 2004, EMI

Doppio CD curato da tale Ian Widgery che mi aveva molto incuriosito e il cui ascolto, dalle alterne qualità, mi spinge ad un paio di riflessioni.

Tutta l’operazione gira attorno ad alcune registrazioni risalenti agli anni ’30 di cantanti cinesi (le divas del titolo) che incisero, all’epoca, per la Pathe Marconi e delle quali, evidentemente, si è riusciti a recuperare parte della produzione d’epoca (siano sempre ringraziati i collezionisti di 78 giri e vinili vari e il loro cocciuto quanto infantile entusiasmo).

Il primo disco contiene quelli che vengono definiti, con formula che fa drizzare i peli della schiena, remix for today. Fortunatamente non si tratta di appoggiare le voci altissime di queste chanteuses orientali sul classico ritmo ossessivo da discoteca, piuttosto Widgery tenta una operazione ESTREMAMENTE simile a quella fatta qualche anno fa da Moby. Costui prese alcuni frammenti vocali di musicisti che oggi si definirebbero di pre-war folk (registrazioni storiche di cantanti di blues e dintorni) e ci costruì attorno delle canzoni elettro-pop di buona fattura, senza maltrattare troppo gli originali e soprattutto trovando un buon equilibrio tra la creatività propria e l’uso delle melodie originali.
In buona sostanza Moby si limitò a rubare alcune melodie essenziali e ad utilizzarle all’interno di brani suoi. L’operazione, seppur discutibile e in parte blasfema, ebbe un grande successo (specie tra i pubblicitari che cercavano musiche per i loro spot) e buone critiche, ed era naturale producesse degli epigoni.
Qui, purtroppo, mancano sia le capacità musicali di Moby sia la chiarezza del suo progetto, e quelle che ascoltiamo sono solo versioni modernizzate dei brani originali, neanche troppo dissimili, e solo raramente apprezzabili (la battuta bassa di “Plum blossom“, la techno dolce di “The pretender“). Widgery le rende appena appena più moderne (e più banali) aggiungendoci di suo molto poco (e quel poco suona molto di maniera). Tra l’altro tra tutti i campionamenti aggiuntivi che poteva inserire in queste versioni moderne sfrutta ogni occasione possibile per metterci frammenti di brani dei Kraftwerk che, francamente, hanno troppa personalità per passare inosservati e suonano completamente fuori posto.

Per moltissimi versi è più interessante il secondo cd contenente le original recordings. Inutile dirvi che nulla sapevo di questo estremo Oriente canterino di inizio secolo scorso, mi aspettavo quindi qualcosa di molto cinese e invece mi sono sorpreso ad ascoltare brani non molto dissimili da quelli che nella stessa epoca venivano cantati in Europa, Stati Uniti e Sud America.
Evidentemente già allora, grazie alla radio, alla neonata industria del vinile e, ovviamente, a tutto l’enorme fenomeno del colonialismo, il mondo era già molto globalizzato (sicuramente molto più di quanto immaginassi io) e pure in un paese lontanissimo come la Cina si potevano ascoltare canzoni fortemente debitrici alla musica nera e alle sue evoluzioni nord-americane (soprattutto al jazz e al blues come in “Waiting for you” o “The pretender“, ma si può ascoltare anche lo straniante swing exotico-tribale di “Beautiful spring night“, il quasi-country di “Rose rose I love you” o il Broadway-musical di “Shangri-la“). Naturalmente la vocalità acuta di queste artiste (tra quelle che ho apprezzato di più vi cito Bai Kwong, Li Xiang-Ian e Chang Loo) restava giustamente condizionata da secoli di storia musicale cinese, ma se vi capiterà di ascoltare qualcuno di questi brani non potrete non notare la vicinanza tra queste musiche e quelle, ad esempio, del coevo Trio Lescano.

Il disco si ascolta con grande piacere e contiene diversi brani di cristallina bellezza con interpretazioni da brivido. E’ il caso dello pseudo-boleroPlum blossom” dove Li Xiang-Ian si supera in una performance semplicemente perfetta, o del Cotton Club made in China di “All the stars in the sky” e di “Listen up“.

Spiccano anche, qui e la, echi della tradizione melodico-operistica italiana ed europea (il violino strappacuore di “You in my dream“, le nacchere spagnoleggianti di “Intoxicating lip rouge“), e imbarazzanti somiglianze con famosissimi brani occidentali (“The Blossom Youth” dall’inizio molto simile al classicone “Happy birthday/Tanti auguri a te” o “Without you” una polka non lontana dalla nostrana “Reginella campagnola“)

Era un (sorprendentemente) piccolo mondo già 80 anni fa…


p.s. Scusatemi per i titoli impropriamente in inglese, ma questo passa il convento (solito vizio di noi occidentalocentrici)
p.p.s. Di questa antologia esiste anche un “volume 2” che, per quello che riguarda i remix, è ancora peggio del primo, mentre la qualità dei brani originali è alterna e mediamente inferiore (e secondo me anche contaminata da cose molto più recenti e meno interessanti).

KRONOS QUARTET & ASHA BHOSLE “You’ve stolen my heart”, 2005, Nonesuch

Che il Kronos Quartet sia una istituzione benemerita della musica contemporanea non ci sono dubbi. Di loro non si può non apprezzare il loro porsi esclusivamente come interpreti delle musiche altrui (approccio quasi scandaloso in un mondo come il nostro dove l’ego di ognuno cresce a dismisura e tutti tendono ad essere “autori”, un mondo dove si è persa la capacità di essere artigiani della musica, umili servi nella vigna di Euterpe). Parimenti non si può non apprezzare il loro porsi senza preclusioni verso la musica (verso tutte le musiche) e il loro aver navigato in tutte le direzioni stimolati da grande curiosità e altrettanta apertura mentale: li abbiamo visti perciò entrare nella baia minimalista, attraversare il grande oceano della musica contemporanea, azzardare qualche puntatina nei pressi dell’enorme continente della musica pop (Hendrix, ad esempio) e verso autori di continenti e culture lontane (da Hamza El din e tutta l’Africa alla brace nascosta, ma ardente, che caratterizza le ex-repubbliche sovietiche). Con i loro antichi strumenti della tradizione europea sono sempre riusciti a trovare punti di contatto con mondi che potevano sembrare lontanissimi.

 

Su tutto questo non ci piove.

 

Questo disco però (e a questo punto un però sono sicuro che ve lo aspettavate…) mi lascia assai insoddisfatto. Le premesse erano intriganti: il colto quartetto d’archi europeo si confrontava questa volta con le musiche da film indiane (particolarmente quelle di Rahul Dev Burman) e nel farlo chiamava come guest star la voce (ormai mitica, forse qualcosa in più…) della regina di quella musica (e moglie del compositore): Asha Bhosle. Mi aspettavo un disco che unisse questi due mondi musicali regalandoci qualcosa che non appartenesse a nessuna delle due tradizioni. Invece il risultato è deludente.

Non si è riusciti a limitare le session al quartetto d’archi e alla voce della Bhosle (azzardando un unplugged che poteva risultare esplosivo) ma hanno deciso di aggiungere percussioni, tastiere, sitar e altri elementi pop che hanno spinto le canzoni verso lidi più ortodossi. Inoltre il Kronos più che a reinventare gli arrangiamenti delle canzoni si limita ad eseguire quelle che, già in origine, erano parti affidati agli archi. La Bhosle, nonostante l’età, canta ancora splendidamente, ma quelle che ascoltiamo, alla resa dei conti, sono versioni abbastanza fedeli agli originali, semplicemente rese più ingessate e rigide da arrangiamenti che spengono tutta l’effervescenza (a volte anche kitsch-barocca, ma sempre piacevole) delle versioni originali. Versioni timide che non hanno il coraggio di spiccare il volo verso mondi nuovi ma si limitano a ripercorrere percorsi già noti senza mai lasciarsi andare fino in fondo. Anche un hit assoluto come “Dum maro dum/Take another toke” scivola via svogliato e intristito da un ritmo (chissà perché) troppo rallentato. Tra gli altri brani spiccano la versione lento-psichedelica di “Rishte bante hain/Relationship crow slowly“, “Mera kuchh saaman/Some of my things” da ballare cheek-to-cheek, la divertente e spigliata “Piya tu ab to aaya/Lover, come to me now“.

Fondamentalmente il merito per le buone vibrazioni che riceviamo va quasi esclusivamente alla flessuosa e sapiente voce della Bhosle (non a caso i brani strumentali scivolano via senza lasciare tracce e ricordi particolari), ovviamente senza dimenticare le ben note doti compositive di suo marito, ma questa operazione non supera lo sfizioso guado che le si presentava.

 

Un’occasione sprecata.

SRILA GURUDEVA “Armonia”, ISKCON

Questo disco è il secondo di una trilogia molto interessante, uscita nella prima metà degli anni ’80, dietro la quale, oltre alla voce di Gurudeva, c’è l’ottima mano di Krishna Prema Dasa/Paolo Tofani, già chitarrista e fondatore degli immensi Area.

Il primo (bellissimo) capitolo, “Il canto della liberazione“, ancora non metteva bene a fuoco il progetto. L’obiettivo era reinterpretare alcuni brani della tradizione induista, più o meno recente, ma in questa fase iniziale gli arrangiamenti risultano abbastanza timidi e, tutto sommato, fedeli agli originali. Alla voce venivano sommate le tradizionali tabla e gli altrettanto tradizionali flauti indiani (strumenti suonati, peraltro, dai più-che-celebrati Hariprasad Chaurasia e Zakhir Ussain). Tofani vi aggiungeva la sua chitarra e qualche spolverata di tastiere senza mai porsi in primo piano e senza stravolgerne la struttura.

Con il secondo capitolo, “Armonia“, si alza il tiro e si tenta di aggiornare i brani tradizionali donandogli arrangiamenti nuovi e decisamente pop. Le chitarre e le tastiere si fanno decisamente più presenti, si aggiungono anche degli archi classicamente occidentali, si tenta un azzardato doppio mix tra tradizione e modernità e tra Oriente e Occidente.
Il rischio, al solito, era quello di (s)cadere nella temutissima “messa beat” ovvero di rovinare con un vestito inadatto brani che, oltre alla loro valenza musicale, cercano, in qualche modo, di esprimere un profondo sentimento religioso e di porre in essere un ponte tra cielo e terra.
Fortunatamente lo spessore dei partecipanti a questo secondo capitolo (oltre ai ritrovati Tofani, Chaurasia e Ussain abbiamo la presenza, tra gli altri, di Michele Fedrigotti e Roberto Cacciapaglia e l’ombra lunga di Franco Battiato) evita questo destino e realizza un gran bel disco che indica una via (ai tempi) decisamente innovativa di commistione intelligente tra l’universo della musica (cosiddetta) leggera e l’espressione atavica del sentimento devozionale. Non siamo ancora ai livelli eccelsi che qualche anno dopo raggiungerà Franco Battiato con alcuni brani di “Fisiognomica” e di “Come un cammello in una grondaia“, ma si segna una direzione e si da corpo ad un’ipotesi affascinante.

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Gli otto brani che compongono il disco (mai ristampato in CD e che difficilmente rivedrà la luce a causa della separazione tra Gurudeva e il gruppo del quale faceva parte, l’Associazione Internazionale per la Coscienza di Krishna, più noti, semplicemente, come “Hare Krishna“) sono tutti di buon livello con melodie accattivanti e gioiosamente cantabili, arrangiamenti di gran classe particolarmente riusciti nella fusione dei suoni dell’orchestra con gli elementi più tipicamente indiani e le chitarre di Tofani (particolarmente in “Bahajahu re mana“).
Menzione particolare anche per la vagamente branduardianaOhe Vaisnava Thakura“, per le dolci ballate “Sri Damodarastaka” e “Sri Guruvastaka” (con un bellissimo inserto di pianoforte), per gli archi e le armonie vibranti di “Jaya Rhada Madhava” (forse il brano più riuscito in assoluto con i suoi cori cristallini e le campane tubolari efficacissime).
Ovviamente è presente un po’ dappertutto il classico mantra “Hare Krishna” vero e proprio marchio di fabbrica di questo gruppo religioso eseguito in forme diverse e, a volte, molto riuscite ed originali.

Il progetto verrà chiuso con il terzo capitolo, “Suoni senza tempo“, piuttosto vicino alle atmosfere di “Armonia“, ma leggermente meno ispirato (forse perché realizzato con collaboratori di minore qualità, anche se il violino di “Sri Rupa Manjari pada” mi suona mooooolto familiare…).
Dopo l’allontanamento di Gurudeva, Krishna Prema Dasa realizzerà ancora diversi lavori (questi ultimi reperibili abbastanza facilmente) quasi esclusivamente strumentali, abbastanza indecisi tra uno sviluppo pop, qualche deriva new-age e qualche spruzzo di fusion. Dischi un po’ troppo di maniera che non riescono ad emozionare come questi primi 3 lavori.

Chi fosse interessato ad ascoltare queste cose può, fortunatamente, scaricarle cercandole tra i moltissimi mp3 gratuitamente disponibili sul sito di Radio Krishna Centrale http://www.radiokrishna.com/ (sono mp3 di qualità piuttosto bassa, ma aiutano a rendere bene l’idea delle cose di cui sto parlando)

Un grande successo internazionale 🙂

per altre informazioni:
www.harekrsna.it


—-aggiornamento 2019—-

Quando avevamo ormai perso la speranza di rivedere in circolazione questi album, siamo casualmente incappati nella notizia che colui che si faceva chiamare Srila Gurudeva ora ha preso il nome di  Bhagavandas Goswami (e in origine si chiamava William Ehrlichman).
E’ sotto questo nome che ha ripubblicato i tre lavori citati sopra, rinominati, rispettivamente “Sri Namamrita“, “Armonia” e “Sound Beyond Time“.
Con questi titoli si possono trovare, se avete fortuna, ancora in vendita in qualche store digitale (ne esiste anche una versione cofanetto che raccoglie tutti e 3 i dischi).

Per gli interessati segnaliamo sia il sito ufficiale di colui che un tempo era Srila Gurudeva (cliccate qua) sia questo negozio on-line dedicato a materiale vario di matrice induista.

Ma la cosa più sorprendente è che queste musiche ora sono (addirittura) anche su Spotify, e si possono ascoltare con un semplice clic.

Buon ascolto 🙂