Certi dischi ci entrano nel cuore in maniera ineffabile, riascoltarli ogni volta ci produce una strana sensazione a metà tra meraviglia e commozione. Ritrovandoli dopo tanti anni ci chiediamo come è stato possibile dimenticarli. Magari non sono capolavori assoluti, forse sono semplicemente dischi che fanno vibrare le nostre corde più intime, dischi che, per ragioni speciali, che noi non comprendiamo e che chi ha scritto e interpretato queste musiche non è detto debba conoscere, sono capaci di regalarci attimi di serenità e di piacere assoluti.
Nel 1987 l’etichetta Hi Folks! records, legata all’omonima rivista specializzata in quella che oggi si chiama world music e che allora veniva etichettata come folk, neo-folk, etnica (e a sua volta veniva poi organizzata in moltissimi sottocategorie), pubblicò un LP antologico intitolato “Acoustics in Italy” tramite il quale far conoscere i propri gioielli.
Di quel disco mi impressionarono i brani di due gruppi: La ciapa rusa (di loro vi ho parlato in questo post) e gli Aes Dana. Nordici e legati alla loro tradizione i primi, meridionali e affascinati dalla tradizione celtica i secondi.
Da lì a comprare il loro disco “The far coasts of Sicily” (siamo sempre nel 1987) il passo fu breve e l’amore fu a prima vista.
Gli Aes Dana si muovevano nel solco di quella “musica celtica” che tanto affascinò gli italiani nei primi anni ’70 quando anche da noi personaggi come Alan Stivell, i Chieftains o i Pentangle erano delle vere e proprie star capaci di riempire i teatri (se non gli stadi). La loro interpretazione di queste musiche era rotonda e raffinata, senza le asperità e certe ruvidezze tipiche della musica popolare, con una eleganza naturale, una pulizia ed una morbida musicalità alla quale, probabilmente, le radici e la cultura musicale del belpaese non sono affatto estranee.
Il gruppo era capitanato da Giuseppe Leopizzi (che purtroppo ci ha lasciato nel 2007), anche autore degli arrangiamenti, e si caratterizzava per una strumentazione quasi esclusivamente acustica (rari gli spruzzi di tastiere all’interno dei brani) che univa strumenti della tradizione anglosassone (arpa celtica, cittern dulcimer, bodhran…) a strumenti classici occidentali (flauto traverso, contrabbasso, oboe…), il tutto legato da quegli strumenti che appartengono ad entrambe le tradizioni (l’immancabile chitarra, centro di gravità del disco, e il violino). In molti dei brani vengono anche realizzati interessanti impasti vocali con particolare spazio per le voci femminili.
Il disco presenta due tipologie di brani:
da un lato ci sono i brani tradizionali rielaborati e riarrangiati da Leopizzi (la classica ed impeccabile ballata “Farewell Nancy“, la chitarra strappacuore di “The rights of man“, l’allegra e trascinante “Two sisters“, la solenne “The hielan laddie” dalle impervie melodie vocali, l’intensa eleganza della danza di “Kesh jig/Port ui muirgheasa” strutturata, come ogni tanto Leopizzi sceglieva di fare, in forma di mini-suite).
e dall’altro le composizioni originali (sempre di Leopizzi) che, per quello che mi riguarda, sono la parte più interessante e, all’epoca, promettente per la capacità di unire l’amore per queste musiche con la propria creatività e l’aria dei nostri tempi realizzando alcuni brani davvero superbi (la bellissima “The clouds beyond the curtains” dalla melodia che unisce con rara perfezione complessità e orecchiabilità per uno dei brani più belli che io abbia mai ascoltato nell’universo delle musiche moderne ispirate alla tradizione, “Lasciando la città” che musicalmente potrebbe essere un brano rubato al Branduardi anni ’70 con il suo unire gli stilemi medioevaleggianti con una batteria pop-rock, ma con un impasto di voci femminili di prima qualità, “Musica per N.” dall’arpa struggente e le atmosfere assonnate da prime ore del giorno).
Le due anime del disco sono perfettamente sintetizzate dalla prima traccia che si apre con “The far coasts of Sicily“, creazione di Leopizzi con arpa e chitarra a dialogare con immensa dolcezza per poi aprirsi ad archi e flauti in un crescendo che non lascia indifferenti e cede poi naturalmente il passo al traditional “Farewell to Erinn” dall’andamento rapidissimo ad aprire idealmente le danze
Questo disco è stato recentemente ristampato dai coraggiosi ragazzi di FolkClub Ethnosuoni con l’aggiunta di 3 bonus tracks e un’accurato ed essenziale libretto (peccato per un piccolo audiodifetto, probabilmente dovuto al nastro del master rovinato, proprio sulla traccia più bella…).
Se siete interessati a questa ora abbondante di musica acquistare il CD è un dovere e un gesto di civiltà.
Musiche che parlano direttamente alla nostra essenza migliore.