BJÖRK “Black lake”, 2015, One Little Indian

Come alcuni di voi avranno intuito, questo blog sta vivendo un periodo di pausa. Non tanto per scelta editoriale, quanto per mancanza di tempo. Le mie, già poche, risorse energetico-temporali (?) sono indirizzate, per varie ragioni, verso alcuni altri miei blog (e su uno nuovo in preparazione, che chissà quando vedrà la luce).

Nell’attesa di un ritorno ad una scrittura con una certa regolarità, vi propongo questo (abbastanza) recente video di Björk.

Se l’artista islandese negli ultimi anni ha partorito “solo” buoni dischi, generalmente con alcuni brani di buona qualità e altri un po’ meno riusciti, è anche vero che ogni tanto la leonessa riesce a dare delle zampate più che degne della sua storia musicale.

E’ il caso di questo “Black lake“, tratto dall’album “Vulnicura“, che, nei suoi 10 minuti abbondanti, racconta con grande efficacia del dolore seguente alla separazione con il di lei ex-marito.

Sincerità, emozione e classe da vendere.

My heart is enormous lake,
black with potion.
I am blind
drowning in this ocean

MARIA MONTI “Il bestiario”, 1974, Ri-Fi

Il tentativo di coniugare stilemi della musica contemporanea/d’avanguardia/di ricerca con la forma canzone non è stato praticato spesso. Per quello che ricordiamo ci vengono in mente pochi titoli (ne parleremo nella prossima top 5) oltre naturalmente agli arrangiamenti di Luciano Berio per alcuni brani dei Beatles, ma lì siamo su un piano diverso da quello di cui ci vogliamo occupare.

Oggi vogliamo parlarvi di uno di questi rari tentativi, realizzato nel 1974 in una Italia ribollente sotto molteplici punti di vista.
Maria Monti in quel momento è conosciuta soprattutto come interprete di canzoni popolari, particolarmente del nord-Italia (era molto in voga la riscoperta di questi brani), ma anche come figura trasversale capace di unire canzone e teatro (non un caso la sua lunga relazione, non solo artistica, con Giorgio Gaber oltre alle sue radici nel cabaret) e come artista impegnata nella politica (con una sensibilità spiccata per le tematiche femministe).

In questo LP spiazza gran parte del suo pubblico, affidando gli arrangiamenti ad Alvin Curran, vulcanico americano trapiantato a Roma e noto per la sua attività con il collettivo (molto aperto) di improvvisazione MEV (Musica Elettronica Viva) e per dei lavori, molto vicini al minimalismo, particolarmente quello di Terry Riley, che presto vedranno la luce anche discograficamente.

L’unione tra queste due sensibilità ci regala un disco stranissimo e particolare, molto ispirato nei testi e nelle musiche e splendidamente in bilico negli arrangiamenti tra la necessità comunicativa delle canzoni e il background del tutto alternativo di Curran. Come se non bastasse nel disco suonano musicisti anch’essi poco abituati alle canzonette quali Roberto Laneri (con il quale più avanti Maria Monti farà parte del gruppo di ricerca sul canto armonico Prima Materia) o il sassofonista Steve Lacy.

Dieci canzoni, 47 minuti, nelle quali troviamo brani diversissimi.
Iniziamo alla grande con “Il pavone“, lentissimo, con tastiere immobili da un lato e Curran che fa borbottare mirabilmente le sue macchine dall’altro, mentre la Monti canta ieratica e la chitarra acustica di Luca Balbo punteggia il tutto.
No no no no” risente (in positivo) dell’esperienze cabarettistiche della Monti, supportata da strumenti in grande libertà (Lacy cinguetta alla sua maniera, ma in apertura e chiusura del brano il tocco di Curran si fa sentire). Discorso simile per la vagamente gaberiana “Lo zoo” con il piano al centro del pezzo in una specie di ragtime libero e leggero infiocchettato anche lui dal sax di Lacy. Toni branduardiani per “I camaleonti“, con le chitarre acustiche in primo piano e tutta una serie di disturbi radiofonico-elettronici a sporcarne la filigrana, fino ad un inatteso finale cosmico. Con “La pecora crede di essere un cavallo” torniamo sul mood del brano di apertura: ritmi lentissimi, continuo borbottare di tastiere e chitarre psichedeliche per un brano che è un gioiellino di raffinatezza.

In chiusura i due brani più lunghi del disco. Prima gli otto minuti de “Il letargo“, pianoforte che fraseggia tra un silenzio e l’altro, chitarra che detta il ritmo placido, sax a sottolineare il tutto, atmosfera da prima luce dell’alba, che piano piano vede gli strumenti prendersi sempre più libertà, compresa qualche tastiera che emerge cammin facendo. Un brano dove l’equilibrio tra improvvisazione e scrittura ha del miracoloso (più un finale sardo-centrico a dir poco sorprendente).
Dura invece oltre 10 minuti “Aria, terra acqua, fuoco“, forse il capolavoro del disco: chitarra minimalista, pianoforte che mi ricorda quello di Battiato durante il famigerato periodo-Ricordi, il canto ancora una volta lento e allungatissimo, un non-ritornello a spezzare il brano nella canoniche quattro parti indicate dal titolo. Una stranissima canzone che non è una canzone ma è una canzone.

Relativamente più consueti gli arrangiamenti degli altri brani, ma sempre, come minimo, piacevoli e riusciti.

I testi, davvero di ottimo livello, partono dai vari animali per trasfigurarli in metafore evocative di varie problematiche degli esseri umani, si avverte chiara l’aria culturale del tempo, ma senza un filo di retorica. Maria Monti interpreta il tutto con una incredibile varietà di registri, dimostrando eccellenti capacità canore e una attitudine a mettersi al servizio della canzone fuori dal comune.

Un gioiellino solo recentemente dissepolto dalle sabbie del tempo dalla sempre illuminata Unseen records, una operazione coraggiosa quanto riuscita e meritevole sicuramente di una fama maggiore rispetto a quello fin qui avuta.

SoundScapeS vol.15

Solo un annetto per arrivare a questa (lasciatemelo dire) strepitosa raccolta, come sempre indispensabile appendice del blog.

19 brani per i soliti 80 minuti (scarsi) di ottime canzoni (e non solo) raccolte sotto il titolo “Classics” da intendersi in almeno due modi.

Il primo è un modo elegante per sottolineare che, alla fine della fiera, anche questa antologia è la solita zuppa che vi propongo periodicamente, infatti dentro ci troviamo:

  • materiali della Battiato factory (in assenza del lider maximo che negli ultimi tempi è stato abbastanza latitante)
  • musiche dagli anni ’80 più oscuri (para-industrial e post-wave, in particolare)
  • uno spruzzo di Africa
  • qualcosina di molto vecchio
  • qualcosina di molto recente
  • qualcosa di sudamericano
  • qualcosina di molto romano
  • qualcosa di pop internazionale (dall’Inghilterra, dall’Islanda, dalla Germania)

Ovvero ESATTAMENTE quello che dovreste aspettarvi.

L’altro modo in cui si può intendere il titolo riguarda invece un fenomeno che lentamente ha preso piede in queste raccolte.
Negli ultimi tempi è diventato abbastanza frequente incontrare da queste parti materiale di musica classica. Non certo sinfonie o concerti, cose imponenti, ma magari piccole arie o, come in questo caso, meravigliose ninne nanne.

Questo quindicesimo volume vede addirittura due brani legati alla tradizione colta europea (entrambi mooooooolto datati) di cui mi sono innamorato, e la cosa che mi sorprende è come, inserita in questo contesto, la loro presenza suoni piuttosto naturale, come se davvero non ci sia poi una enorme distanza tra questi gioiellini classici e il meglio della musica pop-rock e dintorni degli ultimi cento anni.

A chi si chiede come mai non realizzo queste antologie utilizzando strumenti come Spotify segnalo che molti dei materiali che vi inserisco sono completamente (e colpevolmente) assenti da queste piattaforme.

Io questa raccolta ve la consiglio (tra l’altro in due brani c’è la magica voce di Tiziana Lo Conte), poi voi fate come volete 🙂


Chi fosse interessato non dovrà fare altro che contattarmi e darmi le coordinate per potergliela spedire tramite WeTransfer (per chi non lo sapesse, trattasi di una piattaforma che permette lo scambio di file fino a 2 gigabyte, è gratuita e non prevede alcuna iscrizione, in pratica io spedisco all’interessato un link, lui lo preme e tramite il suo browser, e seguendo una semplicissima ed essenziale procedura, scarica i file in poco tempo).

DIAMANDA GALÁS “The divine punishment”, 1986, Mute

Quando si è dedicato tanto tempo all’esplorazione di mondi musicali estremamente variegati, diventa sempre più rara l’esperienza di un ascolto che ci suoni diverso da ciò che abbiamo imparato a conoscere. Ancora più rara l’esperienza di un’opera che suoni alle nostre orecchie nuova e contemporaneamente riuscita. Estremamente rara (soprattutto se confrontata con quanto spesso ci succedeva da adolescenti e post-adolescenti) l’esperienza di qualcosa che ci risulti allo stesso tempo diverso da quanto conosciuto e porti con sé le stimmate del capolavoro.

Il disco di cui mi voglio occupare appartiene a quest’ultima, rarissima, specie.

divine2

Primo capitolo di una trilogia dedicata all’AIDS (intitolata globalmente “Masque of the Red Death“), conseguenza del lutto che colpì direttamente la musicista statunitense, cui questa malattia portò via il fratello Philip-Dimitri, questo disco si caratterizza per due lunghe suite, una per lato, dove a dominare è la camaleontica voce della Galás assistita da effetti e suoni elettronici.
Con l’eccezione dell’ultima traccia, tutti i testi cantati sono estratti da alcuni passi della Bibbia (della quale, come sapete, non sono certo un esperto).

La suite che occupa il lato A, intitolata “Deliver me from mine enemies” è a sua volta divisa in sei sezioni (alcune strumentali) che cercherò di raccontarvi per descrivervene la incredibile forza e intensità.

I “This is the law of plague”

Il disco si apre utilizzando parte del testo contenuto nel capitolo 15 del Levitico. Debbo premettere che, ovviamente, non sono in grado di valutare la fedeltà del testo in inglese utilizzato dalla Galás (così come dei testi tradotti in italiano che si trovano in rete), quello che posso dirvi con certezza è che trattasi di una serie di obblighi riguardanti chi ha contratto la gonorrea (in italiano, mentre in inglese si utilizza una espressione, “plague“, forse più generica e più angosciante). La parola di Dio ci tiene a puntualizzare come l’ammalato sia impuro (“unclean“, aggettivo che viene ripetuto fino allo sfinimento), come lo sia chi lo tocchi o chi tocchi oggetti che lui ha toccato, e vengono sciorinate una serie di espressioni tutte tese a separare puri e impuri secondo una logica che, calata nel contesto cui si riferisce la Galás, non può non risultare aberrante e discriminatoria.
Musicalmente sovrappone voci artificialmente abbassate, a creare una specie di coro infernale, messe a  sostegno della voce naturale della Galás che canta/declama i testi in questione con l’aggiunta di percussioni ossessive e via via più aggressive, in un crescendo che ci afferra alla gola e stringe sempre più forte.

II “Deliver me from mine enemies”

Qui si utilizza un estratto dal Salmo 59, un testo nel quale il credente implora la protezione da parte del Signore e gli chiede, esplicitamente, di non avere alcuna pietà per i propri nemici e di annientarli, chiamando tutto questo “misericordia”.
La Galás, sopra un leggero drone elettronico, legge il testo sfruttando tutta la sua capacità di rendere il dolore e la infinita stanchezza di chi soffre da troppo tempo, aggiungendoci una serie di acuti di grande efficacia e bellezza.

III “We shall not accept your quarantine”

L’artista ripete il testo della seconda sezione, ma lo esegue riportandolo in tutt’altre atmosfere, più simili a quelle della prima sezione. Con una accelerazione che toglie letteralmente il fiato e spaventa per intensità e orrore.

IV “Liberami” (titolo scritto in greco)

Sezione sostanzialmente strumentale nella quale il cantato orientaleggiante (e tecnicamente superbo) della Galás mostra altre possibili invocazioni per la propria salvezza, un barlume di luce nell’oscurità delle sezioni precedenti.

V “Perché, o Dio” (titolo scritto in greco)

Torna subito l’oscurità, e la sofferenza, con la Galás in versione gutturale (e senza supporto alcuno, se non le sovrapposizioni della sua stessa voce) a riportarci in basso, lì dove della salvezza si è perso anche il ricordo.

VI “Psalm 22 (excerpt)”

Qui tocchiamo il fondo dell’assenza di qualunque forma di speranza. La voce biascicata della Galás recita il testo appena affiancata da una tastiera delicata, in una atmosfera di innocenza tradita e di sincera disperazione.
Nel testo si invoca la presenza di Dio, che sembra essere assente e del quale si afferma un imprescindibile bisogno, una mancanza insopportabile nel contesto dato.

“È arido come un coccio il mio palato,
la mia lingua si è incollata alla gola,
su polvere di morte mi hai deposto.”

E i sospiri affannosi, le grida strozzate, che sottolineano il recitato servono a meglio rendere l’idea di un inferno vissuto qui sulla Terra.


La seconda parte di questo lavoro, ovvero il lato B dell’LP, è costituita da un’altra suite, intitolata “Free among the Dead“, divisa in tre sezioni:

I “Psalm 88”

Il Salmo 88 (“Preghiera dal profondo dell’angoscia“), più o meno si muove nel solco del Salmo 22 sopraindicato, si esprime il bisogno di un Dio alla luce di una vita piena di dolore e sofferenza, un Dio che sembra essere altrove e del tutto disinteressato a noi. Tanto per rendervi l’idea vi riporto la sua parte conclusiva:

“Perché, Signore, mi respingi,
perché mi nascondi il tuo volto?
Sono infelice e morente dall’infanzia,
sono sfinito, oppresso dai tuoi terrori.

Sopra di me è passata la tua ira,
i tuoi spaventi mi hanno annientato,
mi circondano come acqua tutto il giorno,
tutti insieme mi avvolgono.

Hai allontanato da me amici e conoscenti,
mi sono compagne solo le tenebre”.

Musicalmente ripartiamo da dove ci eravamo fermati, voce biascicata e atmosfera disperata. Ma piano piano cambiano il tono della voce, che diventa man mano più arrabbiata ed aggressiva, con l’aiuto di un pianoforte percussivo e di qualche accenno di tastiera, con continue vorticose accelerazioni fino ad una sorta di implosione rabbiosa.
La disperazione è infine diventata furia.

II “Lamentations chapter 3”

Recitato, ma anche gridato e disperatamente urlato, in un discreto italiano (scelta misteriosa, forse per meglio disegnare atmosfere religiose, forse per meglio introdurre il brano che conclude l’opera, brano che si muove sulle medesime atmosfere musicali), con tastiere estremamente angoscianti di sottofondo, anche questo pezzo rende benissimo la disperazione di chi si sente abbandonato da Dio e ci avvolge in una tempesta buia, uno spazio dove la luce è negata.
Testo, ovviamente, proveniente dal terzo capitolo delle Lamentazioni, incredibilmente espressivo e pertinente, tanto da concludersi con il grido accorato:

“È scomparsa la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore”,

segnando così la inevitabile cesura tra l’uomo e la divinità.
Un brano che, proprio per essere direttamente in italiano, risulta essere, per me, uno dei momenti più forti dell’intero disco.

III “Sono l’antichristo” (scritto proprio così, non è un mio errore)

Annunciato da oscuri rintocchi di pianoforte, questo pezzo violentissimo si caratterizza per il testo (ancora in italiano) recitato dalla Galás sotto il quale si ammucchiano tastiere, registrazioni di urla sovrapposte l’una sull’altra, ed è una pura e inevitabile discesa negli inferi, o, se preferite, la definitiva liberazione da una fede tradita.
Unico testo scritto dalla Galás stessa (caratterizzato da una serie di affermazioni tutte del tipo “Sono la carne macellata“, “Sono la pestilenza” e culminante con l’apoteosi “Sono l’anticristo“), questo pezzo è l’unico finale possibile per i presupposti creati dai brani precedenti, l’unica possibile fuga da una vita di dolore. L’unico possibile punto d’arrivo.


L’idea di raccontare il percorso della malattia (sia subita, sia vissuta indirettamente da coloro che sono affettivamente legati al malato) attraverso le parole delle Sacre Scritture permette alla Galás da un lato di evitare qualunque forma retorica e dall’altro di dare una incredibile forza alle sue parole e alla sua musica, osando coinvolgere in questo mare di sofferenza la religione e la religiosità.
Scalino dopo scalino si scende in un abisso di emarginazione, sofferenza e morte con una chiarezza comunicativa e una energia fuori dal comune (e che la stessa autrice non riuscirà più a raggiungere, neanche nei capitoli seguenti della trilogia dedicati a questo tema).

Questo è un disco che, se lo si ascolta VERAMENTE (e seguendo le istruzioni che specificano “correct playback possible at maximum volume only“), risulta tanto bello (musicalmente si assiste ad una serie di performance vocali di eccellente livello, e tutta la scrittura musicale basterebbe da sola a far di questo lavoro un ottimo lavoro) quanto insostenibile,
ed è proprio questa pesantissima insostenibilità a renderlo speciale, a renderlo capace di esprimere l’inesprimibile e a mostrarcelo con una forza e una intensità spaventose e, letteralmente, inaudite.

Qualcosa di incredibilmente potente e incredibilmente affascinante, ma da maneggiare con estrema cura, perché attraverso i solchi ci arrivano emozioni, positive e negative, così chiaramente definite e veicolate da poterle quasi toccare con mano.

Un oscuro capolavoro, insuperabile ed inimitabile.

BIS [2016]

Mi capita spesso di ascoltare eccellenti dischi di artisti, o scene musicali, dei quali ho già parlato in passato. Dischi che non aggiungono nulla di particolare a quanto già scritto, e che quindi non meriterebbero un ulteriore post su queste pagine (sarei costretto a riesprimere gli stessi concetti già espressi in precedenza), ma che, allo stesso tempo, sono lavori davvero belli, lavori che se li avessi conosciuti prima sicuramente sarebbero stati citati nei post in questione.
Ho deciso pertanto, a partire da questo ormai terminale 2016, di dedicare a tutti questi dischi una sorta di post riassuntivo (a scadenza annuale) per segnalarveli rapidamente e non farli cadere nell’oblio (sia chiaro, parlerò di dischi che ho ASCOLTATO nel 2016 non necessariamente di dischi USCITI nel 2016).


Iniziamo questa rubrica citando il 17° volume della serie “Éthiopiques ” (ve ne parlai qua) dedicato alla incredibile voce di Tlahoun Gèssèssè, un disco paradigmatico di tutto il fenomeno di cui vi parlai, caratterizzato da ottime canzoni splendidamente eseguite e con protagonista il cantante che più di tutti veniva considerato, non a torto, il migliore in Etiopia in quegli anni. Uno dei must have di tutta la serie.

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Passiamo ora ad un quadruplo (!) CD contenente 6 LP di Ravi Shankar (cliccate qua per leggere come lo ricordai in occasione della sua morte) relativi ai suoi esordi discografici (parliamo di un periodo che va dal 1956 al 1962). Intitolato semplicemente “Six classic albums” è un gioiellino che spicca per la qualità della musica contenuta, per l’ottimo livello delle registrazioni (incredibile come suonino bene certe incisioni d’epoca, a dispetto di quello che si potrebbe pensare) e per il costo decisamente (per non dire ridicolmente) basso. Tutta roba imperdibile per chi ama la musica classica indiana (e dentro ci trovate pure il maestro delle tabla Allah Rakha). Peccato per il libretto non all’altezza, ma credetemi che non vi pentirete dell’eventuale acquisto

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Due parole anche su “Lost and found” atto (forse) conclusivo dell’epopea del Buena Vista Social Club (ci andai in fissa anni fa e ve ne parlai ripetutamente in questo e quest’altro post). Realizzato con tagli, ritagli e frattaglie (frammenti live, scarti dalle registrazione dei tanti dischi usciti, session improvvisate, registrazioni di progetti abortiti…) sarebbe potuto essere il punto debole di tutta l’operazione e invece, lo ammetto, con mia sorpresa, risulta essere un disco bellissimo che può del tutto competere in bellezza ed eleganza (e cuore) con tutta la produzione curata dalla World Circuit. Un disco che vi suggerisco di non sottovalutare e che mi sta regalando ottimi momenti.

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Continua l’epopea dei cofanettoni di classica (ve la ricordate ? qui e qui ciò che vi raccontai). Quest’anno mi sono particolarmente dedicato al recupero di materiali della storicissima etichetta Archiv (sub-label della Deutsche Grammophon) che ha raccolto in alcuni cofanetti sue incisioni, soprattutto relative agli anni ’80. Tra queste segnalo, anche per il prezzo che, se si sa cercare in rete, può essere davvero conveniente, quello intitolato “Concertos & orchestral suites” dedicato a Johann Sebastian Bach ed eseguito dall’English Concert diretto da Trevor Pinnock. Al suo interno 8 CD con una serie incredibile di capolavori (dai Concerti Brandeburghesi alle Orchestral suites passando per i Concerti per clavicembalo, quelli per violino e quelli per varie altre strumentazioni) registrati benissimo e suonati divinamente. Vi serve sapere altro ?

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Segnalo poi le conferme di artisti quali:

– i Boards of Canada (ve ne parlai qua) che con il loro “Tomorrow’s harvest” realizzano un album particolarmente raffinato e godibile

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Antonella Ruggiero (leggete qua e qua cosa scrissi) che nel suo “L’impossibile è certo” trova modo di arricchire il suo repertorio con canzoni di buon (a volte ottimo) livello, impreziosite dalla sua voce sempre splendida e oramai a livelli interpretativi semplicemente stellari

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Fabio Orsi (qui l’articolo a lui dedicato) che continua a stupirmi con un altro gioiellino, il triplo (!) “The new year is over“, progetto davvero riuscito con la sua elettronica ambient avvolgente e mai banale

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Arturo Stalteri (anche di lui vi parlai in questo post) che torna con un disco di suoi lavori, intitolato “Préludes“, che si posiziona tra le sue migliori opere di sempre segnando una notevole maturità compositiva

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Brian Eno (di lui ho parlato spessissimo, ad esempio qua e qua, ma anche qua e qua) che con “The Ship” realizza un’opera ambient per molti versi particolare e particolarmente riuscita (ma lui è una garanzia)

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Catherine Christer Hennix, compositrice di culto, ve ne parlai per questa opera spettacolare, che, con il suo progetto Born of six (insieme ad Amelia Cuni e Werner Durand), ha realizzato un bellissimo disco, “Svapiti“, con sonorità un po’ a metà strada tra Prima Materia, i raga indiani e il minimalismo estatico di LaMonte Young e Terry Riley, registrazione che non suona mai scontata e stupisce ed illumina ad ogni ascolto (quando gli artisti centellinano le uscite, fatalmente il livello medio cresce a dismisura)

svapiti

tanto vi dovevo

Buon Anno (ricco, vi auguro, di buona musica)

MEG “Distante”, 2008, Multiformis

Capita abbastanza spesso che, dopo avervi parlato di un determinato disco di un certo artista, io ascolti un altro suo album e lo trovi sostanzialmente analogo al precedente. Ugualmente bello.
Non reputo però utile scrivere un ulteriore articolo per la semplice ragione che dovrei sostanzialmente ripetere i medesimi concetti. Ciò non toglie però che anche questi altri dischi meriterebbero un post e che, anche se non ne parlo, il mio giudizio in merito sia largamente positivo.

E’ il caso, ad esempio, del secondo album solista di Meg, “Psychodelice“, che conferma ampiamente le belle parole spese da me per il suo omonimo esordio.

In questo secondo lavoro spicca la collaborazione, riconoscibilissima, con Stefano Stylophonic Fontana le cui macchine arrotondano alcuni degli spigoli dell’elettronica tipica della cantante e musicista partenopea.
Un esempio è questo ottimo brano impreziosito da un bel video che, come piace a me, ormai lo sapete, ben sviluppa una idea semplice, ma efficace.

Lo dedico ai miei lettori e alle mie lettrici che amano il rosa.

MILVA “Non conosco nessun Patrizio !”, 2010, Universal

E’ evidente che a Battiato non piacciano le trilogie. Prima tutto il gioco fatto con i vari Fleurs, ora questo terzo disco prodotto per Milva che, a tutti gli effetti, più che il terzo sembra essere il secondo e mezzo.

Già perché questo CD appare per molti aspetti come un mezzo disco. Dalla durata di poco più di mezzora (pur potendo pescare nell’enorme serbatoio delle composizioni di Battiato), alla scaletta che trova il modo di riproporre 2 delle canzoni già incise da Milva in precedenza e che contiene un unico vero inedito (quello che da il titolo al disco), fino alla scelta di realizzarlo con gli abituali collaboratori del Battiato del nuovo millennio (Carlo Guaitoli al pianoforte, il Nuovo Quartetto Italiano, Davide Ferrario alle chitarre, Pino “Pinaxa” Pischetola a gestire i ritmi elettronici e Angelo Privitera a…. ah no, Privitera non c’è e forse sarà stato Battiato stesso a suonare le tastiere),
tutto lascerebbe intendere un impegno relativamente ridotto del nostro in questa produzione sia per le energie utilizzate sia per i tempi di realizzazione.

Eppure questo mezzo disco è tutt’altro che un brutto disco e ha i suoi, non pochi, aspetti positivi. Intanto va segnalata una scaletta ben divisa tra il Battiato classico e quello sgalambriano e nella quale si sono evitate le hits più famose del nostro (nessuna, ennesima, versione de “La cura” o altri titoli di richiamo come “Voglio vederti danzare” o “La stagione dell’amore“) a favore di brani magari meno conosciuti ma sempre validissimi (meglio se con ampie parti cantate in tedesco, come in “Bist du bei mir“, forse avranno pensato al mercato della Germania dove Milva è sempre molto amata).

Poi va detto che a me suona come quello meglio interpretato da Milva che, come capita spesso ai cantanti quando invecchiano, deve rinunciare a qualche performance vocale iper-atletica per dedicarsi con cura e amore ad interpretare al meglio i vari brani, e questo sforzo da ottimi frutti (in particolare in “Una storia inventata“, canzone che Milva sembra sentire molto sua, o nella mai abbastanza apprezzata “I giorni della monotonia” e in “Io chi sono“).

Gli arrangiamenti, tendenzialmente, mettono al centro il pianoforte (attualmente il pianoforte di Guaitoli sembra esercitare la funzione che anni fa fu del violino di Giusto Pio, essere il centro di gravità acustico delle canzoni) dando vestiti (abbastanza) nuovi e (abbastanza) interessanti a canzoni di assoluto livello quali “Le aquile“, dal magnifico e debordante pianoforte, “I processi del pensiero” caratterizzata da inedite morbidezze, “Io chi sono” dall’introduzione eterea, adattissima al testo, seguita da una ascensione ritmico-armonica sopraffina, “Segnali di vita” anche lei con una bellissima e innovativa parte di pianoforte (viene anche il dubbio che alcune delle idee e dei ripescaggi di questo disco siano poi confluiti nell’ “Up patriots to arms tour” del 2011).

L’inedito che da il titolo al disco è un brano di discreta fattura dall’arrangiamento semplice, forse il più elettronico dei 10 brani che compongono il disco, rinvigorito da una curiosa controvoce filtrata elettronicamente (un campionamento ? la stessa Milva ? Battiato ?), non un brano indimenticabile ma sempre di buon livello.

A quando la ripubblicazione degli altri 2 capitoli di questa intrigante collaborazione (“Milva e dintorni” e “Svegliando l’amante che dorme“), ormai assenti da secoli dai negozi, magari aggiungendovi anche il bel concerto di Milva registrato dalla RAI in occasione del tour del secondo disco ?

E peccato che questi 2 artisti non abbiano mai deciso di celebrare la loro liaison artistica facendo qualche concerto assieme, credo ne sarebbe valsa la pena.

La luce si unisce allo spazio,
sono una cosa sola,
inseparabili

DIVNA in concerto a Roma, 20/04/2012

Divna Ljubojevic non l’ho cercata, mi è capitata.
Prima sono rimasto attratto dalla paginetta dedicata sul sito dell’Auditorium Parco della Musica ad introdurre il suo concerto, poco dopo me la sono ritrovata interprete del “Telesio” di Battiato.

Si può dire tranquillamente che fino a sei mesi fa non sapevo neanche della sua esistenza.
Ma per fortuna l’Auditorium romano regala spazi anche ad artisti la cui fama nel nostro paese è indirettamente proporzionale al loro valore.

La scaletta del concerto prevedeva l’alternanza tra brani della tradizione sacra slava e bizantina (il pane quotidiano di Divna) e composizioni di John Tavener. Si è iniziato con un pezzo cantato da Divna insieme all’altra componente femminile del Coro Melodi di Belgrado, una rapida introduzione tanto per mettere in chiaro quello che sarebbe stato il mood della serata. A seguire la più piacevole delle 3 composizioni di Tavener (un autore che non amo particolarmente) intitolata “Prayer of the heart“: un quartetto d’archi muove all’unisono (lentissimo) una armonia ciclica sulla quale Divna canta (in varie lingue) una preghiera portando nella sala un’atmosfera non lontana da quella della “Messa arcaica” di Battiato. E subito mi stupisce la sicurezza mostrata dalla cantante serba unita ad una raffinatezza impressionante nell’esposizione del testo.

A seguire entra il Coro Melodi (oltre a Divna e all’altra cantante anche quattro uomini) ed eseguono alcune immense composizioni selezionate tra i canti per la liturgia bizantina. Il resto del coro tiene l’armonia sulla quale Divna agisce da solista. Ed è musica che arriva diritta al cuore, musica che dona beatitudine e innamora.

Siamo, ovviamente, dalle parti dei cori russi che Battiato notoriamente non sopporta, molto vicini ai canti della liturgia cattolico-russa dei quali vi parlai in quest’altro post, ma si sentono anche affinità con quelle misteriose voci bulgare che negli anni ’80 fecero impazzire l’Europa (fino ad arrivare a contaminare il “Pipppero” di Elio e le storie tese) delle quali, scomparsa la libertà e l’effervescenza, si recuperano alcune tecniche vocali spostandole in un contesto più misurato e rivolto all’interiorità.

Se vogliamo trovare un difetto nel concerto forse Divna è sembrata in alcuni momenti un tantino algida e non del tutto immersa nella musica. Probabilmente era un po’ tesa, forse per un piccolo problema di tosse o forse era preoccupata per la prestazione del coro, che lei dirige. Ho avuto la sensazione che viaggiasse con il freno tirato, e non voglio immaginare cosa possa fare quando dedica tutta se stessa al canto.

Il concerto è poi proseguito con “My gaze is ever upon you” di Tavener (e preferisco tacere su questa composizione), una serie di brani dalla liturgia slava (non particolarmente differenti da quelli bizantini) per concludersi con “Song of angel” di Tavener (lavoro dignitoso) e alcuni bis reclamati a gran voce dai presenti letteralmente estasiati da questa giovane donna serba dalle grandissime possibilità e della quale (mi riprometto) approfondirò la discografia.

Ancora una volta la magia delle voci, e degli strumenti, NON amplificati ci regala attimi di meraviglia e commovente bellezza.