Quando si è dedicato tanto tempo all’esplorazione di mondi musicali estremamente variegati, diventa sempre più rara l’esperienza di un ascolto che ci suoni diverso da ciò che abbiamo imparato a conoscere. Ancora più rara l’esperienza di un’opera che suoni alle nostre orecchie nuova e contemporaneamente riuscita. Estremamente rara (soprattutto se confrontata con quanto spesso ci succedeva da adolescenti e post-adolescenti) l’esperienza di qualcosa che ci risulti allo stesso tempo diverso da quanto conosciuto e porti con sé le stimmate del capolavoro.
Il disco di cui mi voglio occupare appartiene a quest’ultima, rarissima, specie.

Primo capitolo di una trilogia dedicata all’AIDS (intitolata globalmente “Masque of the Red Death“), conseguenza del lutto che colpì direttamente la musicista statunitense, cui questa malattia portò via il fratello Philip-Dimitri, questo disco si caratterizza per due lunghe suite, una per lato, dove a dominare è la camaleontica voce della Galás assistita da effetti e suoni elettronici.
Con l’eccezione dell’ultima traccia, tutti i testi cantati sono estratti da alcuni passi della Bibbia (della quale, come sapete, non sono certo un esperto).
La suite che occupa il lato A, intitolata “Deliver me from mine enemies” è a sua volta divisa in sei sezioni (alcune strumentali) che cercherò di raccontarvi per descrivervene la incredibile forza e intensità.
I “This is the law of plague”
Il disco si apre utilizzando parte del testo contenuto nel capitolo 15 del Levitico. Debbo premettere che, ovviamente, non sono in grado di valutare la fedeltà del testo in inglese utilizzato dalla Galás (così come dei testi tradotti in italiano che si trovano in rete), quello che posso dirvi con certezza è che trattasi di una serie di obblighi riguardanti chi ha contratto la gonorrea (in italiano, mentre in inglese si utilizza una espressione, “plague“, forse più generica e più angosciante). La parola di Dio ci tiene a puntualizzare come l’ammalato sia impuro (“unclean“, aggettivo che viene ripetuto fino allo sfinimento), come lo sia chi lo tocchi o chi tocchi oggetti che lui ha toccato, e vengono sciorinate una serie di espressioni tutte tese a separare puri e impuri secondo una logica che, calata nel contesto cui si riferisce la Galás, non può non risultare aberrante e discriminatoria.
Musicalmente sovrappone voci artificialmente abbassate, a creare una specie di coro infernale, messe a sostegno della voce naturale della Galás che canta/declama i testi in questione con l’aggiunta di percussioni ossessive e via via più aggressive, in un crescendo che ci afferra alla gola e stringe sempre più forte.
II “Deliver me from mine enemies”
Qui si utilizza un estratto dal Salmo 59, un testo nel quale il credente implora la protezione da parte del Signore e gli chiede, esplicitamente, di non avere alcuna pietà per i propri nemici e di annientarli, chiamando tutto questo “misericordia”.
La Galás, sopra un leggero drone elettronico, legge il testo sfruttando tutta la sua capacità di rendere il dolore e la infinita stanchezza di chi soffre da troppo tempo, aggiungendoci una serie di acuti di grande efficacia e bellezza.
III “We shall not accept your quarantine”
L’artista ripete il testo della seconda sezione, ma lo esegue riportandolo in tutt’altre atmosfere, più simili a quelle della prima sezione. Con una accelerazione che toglie letteralmente il fiato e spaventa per intensità e orrore.
IV “Liberami” (titolo scritto in greco)
Sezione sostanzialmente strumentale nella quale il cantato orientaleggiante (e tecnicamente superbo) della Galás mostra altre possibili invocazioni per la propria salvezza, un barlume di luce nell’oscurità delle sezioni precedenti.
V “Perché, o Dio” (titolo scritto in greco)
Torna subito l’oscurità, e la sofferenza, con la Galás in versione gutturale (e senza supporto alcuno, se non le sovrapposizioni della sua stessa voce) a riportarci in basso, lì dove della salvezza si è perso anche il ricordo.
VI “Psalm 22 (excerpt)”
Qui tocchiamo il fondo dell’assenza di qualunque forma di speranza. La voce biascicata della Galás recita il testo appena affiancata da una tastiera delicata, in una atmosfera di innocenza tradita e di sincera disperazione.
Nel testo si invoca la presenza di Dio, che sembra essere assente e del quale si afferma un imprescindibile bisogno, una mancanza insopportabile nel contesto dato.
“È arido come un coccio il mio palato,
la mia lingua si è incollata alla gola,
su polvere di morte mi hai deposto.”
E i sospiri affannosi, le grida strozzate, che sottolineano il recitato servono a meglio rendere l’idea di un inferno vissuto qui sulla Terra.
La seconda parte di questo lavoro, ovvero il lato B dell’LP, è costituita da un’altra suite, intitolata “Free among the Dead“, divisa in tre sezioni:
I “Psalm 88”
Il Salmo 88 (“Preghiera dal profondo dell’angoscia“), più o meno si muove nel solco del Salmo 22 sopraindicato, si esprime il bisogno di un Dio alla luce di una vita piena di dolore e sofferenza, un Dio che sembra essere altrove e del tutto disinteressato a noi. Tanto per rendervi l’idea vi riporto la sua parte conclusiva:
“Perché, Signore, mi respingi,
perché mi nascondi il tuo volto?
Sono infelice e morente dall’infanzia,
sono sfinito, oppresso dai tuoi terrori.
Sopra di me è passata la tua ira,
i tuoi spaventi mi hanno annientato,
mi circondano come acqua tutto il giorno,
tutti insieme mi avvolgono.
Hai allontanato da me amici e conoscenti,
mi sono compagne solo le tenebre”.
Musicalmente ripartiamo da dove ci eravamo fermati, voce biascicata e atmosfera disperata. Ma piano piano cambiano il tono della voce, che diventa man mano più arrabbiata ed aggressiva, con l’aiuto di un pianoforte percussivo e di qualche accenno di tastiera, con continue vorticose accelerazioni fino ad una sorta di implosione rabbiosa.
La disperazione è infine diventata furia.
II “Lamentations chapter 3”
Recitato, ma anche gridato e disperatamente urlato, in un discreto italiano (scelta misteriosa, forse per meglio disegnare atmosfere religiose, forse per meglio introdurre il brano che conclude l’opera, brano che si muove sulle medesime atmosfere musicali), con tastiere estremamente angoscianti di sottofondo, anche questo pezzo rende benissimo la disperazione di chi si sente abbandonato da Dio e ci avvolge in una tempesta buia, uno spazio dove la luce è negata.
Testo, ovviamente, proveniente dal terzo capitolo delle Lamentazioni, incredibilmente espressivo e pertinente, tanto da concludersi con il grido accorato:
“È scomparsa la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore”,
segnando così la inevitabile cesura tra l’uomo e la divinità.
Un brano che, proprio per essere direttamente in italiano, risulta essere, per me, uno dei momenti più forti dell’intero disco.
III “Sono l’antichristo” (scritto proprio così, non è un mio errore)
Annunciato da oscuri rintocchi di pianoforte, questo pezzo violentissimo si caratterizza per il testo (ancora in italiano) recitato dalla Galás sotto il quale si ammucchiano tastiere, registrazioni di urla sovrapposte l’una sull’altra, ed è una pura e inevitabile discesa negli inferi, o, se preferite, la definitiva liberazione da una fede tradita.
Unico testo scritto dalla Galás stessa (caratterizzato da una serie di affermazioni tutte del tipo “Sono la carne macellata“, “Sono la pestilenza” e culminante con l’apoteosi “Sono l’anticristo“), questo pezzo è l’unico finale possibile per i presupposti creati dai brani precedenti, l’unica possibile fuga da una vita di dolore. L’unico possibile punto d’arrivo.
L’idea di raccontare il percorso della malattia (sia subita, sia vissuta indirettamente da coloro che sono affettivamente legati al malato) attraverso le parole delle Sacre Scritture permette alla Galás da un lato di evitare qualunque forma retorica e dall’altro di dare una incredibile forza alle sue parole e alla sua musica, osando coinvolgere in questo mare di sofferenza la religione e la religiosità.
Scalino dopo scalino si scende in un abisso di emarginazione, sofferenza e morte con una chiarezza comunicativa e una energia fuori dal comune (e che la stessa autrice non riuscirà più a raggiungere, neanche nei capitoli seguenti della trilogia dedicati a questo tema).
Questo è un disco che, se lo si ascolta VERAMENTE (e seguendo le istruzioni che specificano “correct playback possible at maximum volume only“), risulta tanto bello (musicalmente si assiste ad una serie di performance vocali di eccellente livello, e tutta la scrittura musicale basterebbe da sola a far di questo lavoro un ottimo lavoro) quanto insostenibile,
ed è proprio questa pesantissima insostenibilità a renderlo speciale, a renderlo capace di esprimere l’inesprimibile e a mostrarcelo con una forza e una intensità spaventose e, letteralmente, inaudite.
Qualcosa di incredibilmente potente e incredibilmente affascinante, ma da maneggiare con estrema cura, perché attraverso i solchi ci arrivano emozioni, positive e negative, così chiaramente definite e veicolate da poterle quasi toccare con mano.
Un oscuro capolavoro, insuperabile ed inimitabile.