Disfunzioni Musicali (il documentario)

C’è molta retorica in giro sui negozi di dischi, di come fossero veicoli e promotori di cultura più o meno alta. In realtà moltissimi di questi negozi non erano sostanzialmente differenti da una macelleria o da un negozio che vendesse autoricambi.

Ma c’erano delle eccezioni, a volte clamorose.
A Roma, in particolare, c’era Disfunzioni Musicali, un negozio che è sempre stato molto di più di un luogo dove si vendevano dischi. Per molti aspetti fu un faro nella notte per tanti ragazzi che erano divorati dalla curiosità e che cercavano musiche altre.

Di tutto questo parla questo breve, ma meritorio, video.
Non ve lo propongo come sterile nostalgia canaglia di un passato che non tornerà, ma come un doveroso omaggio a chi rese quel luogo quello che era.

Un pensiero particolare va a Sante, che all’epoca fu un eccellente suggeritore di acquisti per il sottoscritto.

SoundScapeS vol.15

Solo un annetto per arrivare a questa (lasciatemelo dire) strepitosa raccolta, come sempre indispensabile appendice del blog.

19 brani per i soliti 80 minuti (scarsi) di ottime canzoni (e non solo) raccolte sotto il titolo “Classics” da intendersi in almeno due modi.

Il primo è un modo elegante per sottolineare che, alla fine della fiera, anche questa antologia è la solita zuppa che vi propongo periodicamente, infatti dentro ci troviamo:

  • materiali della Battiato factory (in assenza del lider maximo che negli ultimi tempi è stato abbastanza latitante)
  • musiche dagli anni ’80 più oscuri (para-industrial e post-wave, in particolare)
  • uno spruzzo di Africa
  • qualcosina di molto vecchio
  • qualcosina di molto recente
  • qualcosa di sudamericano
  • qualcosina di molto romano
  • qualcosa di pop internazionale (dall’Inghilterra, dall’Islanda, dalla Germania)

Ovvero ESATTAMENTE quello che dovreste aspettarvi.

L’altro modo in cui si può intendere il titolo riguarda invece un fenomeno che lentamente ha preso piede in queste raccolte.
Negli ultimi tempi è diventato abbastanza frequente incontrare da queste parti materiale di musica classica. Non certo sinfonie o concerti, cose imponenti, ma magari piccole arie o, come in questo caso, meravigliose ninne nanne.

Questo quindicesimo volume vede addirittura due brani legati alla tradizione colta europea (entrambi mooooooolto datati) di cui mi sono innamorato, e la cosa che mi sorprende è come, inserita in questo contesto, la loro presenza suoni piuttosto naturale, come se davvero non ci sia poi una enorme distanza tra questi gioiellini classici e il meglio della musica pop-rock e dintorni degli ultimi cento anni.

A chi si chiede come mai non realizzo queste antologie utilizzando strumenti come Spotify segnalo che molti dei materiali che vi inserisco sono completamente (e colpevolmente) assenti da queste piattaforme.

Io questa raccolta ve la consiglio (tra l’altro in due brani c’è la magica voce di Tiziana Lo Conte), poi voi fate come volete 🙂


Chi fosse interessato non dovrà fare altro che contattarmi e darmi le coordinate per potergliela spedire tramite WeTransfer (per chi non lo sapesse, trattasi di una piattaforma che permette lo scambio di file fino a 2 gigabyte, è gratuita e non prevede alcuna iscrizione, in pratica io spedisco all’interessato un link, lui lo preme e tramite il suo browser, e seguendo una semplicissima ed essenziale procedura, scarica i file in poco tempo).

FUTURO ANTICO “Futuro antico”, 1980, Black Sweat records

Quando nei primissimi anni ’90 comprai l’esordio in vinile del gruppo Futuro Antico, intitolato significativamente “Dai primitivi all’elettronica“, rimasi abbastanza deluso (soprattutto in relazione alle ottime recensioni che avevo letto).
Il gruppo, formato da tre musicisti di diversissima estrazione (Riccardo Sinigaglia, compositore di musica elettronica, Walter Maioli, ex-Aktuala e ricercatore di musica molto antica e Gabin Dabirè musicista di origine africana), aveva realizzato un disco nel quale si cercava di fondere le rispettive passioni e stili musicali, ma, almeno questa fu la mia impressione, i brani sembravano risentire di scarsa integrazione tra i tre con, di volta in volta, uno del gruppo a dare personalità ai brani e gli altri a fare poco più che da cornice. Il progetto sembrava mancare di omogeneità e reale integrazione tra i suoi componenti.
Riascoltato recentemente mi è sembrato migliore del ricordo che avevo, ma su questo, caso mai, torneremo nei prossimi mesi.

Quello che all’epoca non sapevo è che, prima del loro LP, era già stata pubblicata una cassetta autoprodotta a nome Futuro Antico contenente registrazioni risalenti addirittura al 1980.
A suonare c’erano solo i due italiani del gruppo: Sinigaglia alle varie tastiere elettroniche e agli effetti speciali più Maioli al ney (il ben noto flauto turco) e altri strumenti antico/primitivi (percussioni, flauti tibetani e armamentari vari).

Recentemente la Black Sweat records ha riproposto (per la prima volta) in CD questo lavoro che mi è, quasi per caso, capitato tra le mani.
E il disco mi è piaciuto davvero tanto.

Strutturato su quattro lunghi pezzi intorno ai 10 minuti, il disco vede interagire i due musicisti in maniera equilibrata e intensa.
Si parte con “Ao – ao“: le tastiere di Sinigaglia suonano ben memori del Riley di “Persian surgery dervishes” mentre il ney di Maioli disegna voli imprevedibili e incisivi. Un pezzo che si muove lentamente e rimane in costante equilibrio tra ipnosi e sprazzi di veglia.
Si prosegue con “Shirak“, stesse sonorità del primo brano e stessi riferimenti musicali (forse seconda parte di una medesima sessione di registrazione), ma una maggiore velocità e qualche momento di pura vertigine. Nelle tastiere qualche spruzzata kosmische sempre assecondata alla grande dal flauto di Maioli.
La terza traccia, “Uata Aka“, cambia mood: una leggera pulsazione elettronica, vagamente alla Cluster, sulla quale si innestano percussioni e flauto. Un pezzo di squisite libertà.
Conclusione in bellezza con il brano che da il titolo al disco (e al gruppo): percussioni, flauti e tastiere evocative in quello che appare come una specie di astratto panorama musicale dove si respira un’aria di bucolica e divertita mancanza di confini e steccati.

Per quello che mi riguarda una bella sorpresa.
Una interessante e meritoria riscoperta.

p.s. Bella la ecologica confezione del CD 🙂

p.p.s. Immagino che la Black Sweat records, e le altre etichette dedite a ristampe in ambito (più o meno) di musiche di avanguardia, abbiano le proprie buone ragioni per avere smesso di stampare le loro pubblicazioni ANCHE in CD, ma sappiano che esiste uno zoccolo duro di appassionati del supporto fisico che NON hanno il giradischi e NON vogliono comprare LP. Se questo disco NON fosse stato pubblicato anche su supporto digitale io NON l’avrei mai comprato. Siete sicuri che valga davvero la pena di non riservare una, magari piccola, tiratura in CD per quelli come me ?

5 antologie italiane di brani già editi

  • Cramps rec. Rock ’80” (1980)
  • Hi, Folks! records Acoustics in Italy” (1987)
  • Flyng recordsItalian posse – Rappamuffin d’azione” (1992)
  • Spittle recordsItalian records – The singles 7″ collection (1980-1984)” (2013)
  • StrutMutazione [Italian electronic & new wave underground 1980-1988]” (2013)

mutazione

GRONGE “Gli anni ’80”, 2015, Fonoarte

E dopo averli tanto citati in post del passato (anche molto recententemente 😉 ) provo a parlarvi di uno dei gruppi italiani più importanti partoriti dalla scena (diciamo così, tanto per capirci) alternativa degli anni ’80, ’90 e oltre.
Il pretesto per fare questo è la recente uscita di questo doppio cd che raccoglie quanto prodotto dal gruppo nella prima parte della sua attività (la seconda metà degli ’80).

gronge80

I Gronge sono stati un gruppo complesso, articolato, impossibile da descrivere e sintetizzare, inafferrabile e sfuggente a qualsiasi definizione, e, già osservando il materiale contenuto in questo disco, ci rendiamo conto di quanto sia stato singolare il loro percorso.

Non a caso in questo doppio CD troviamo:

  • la prima omonima (e credo unica) cassetta dei Kapò koatti (prima inevitabilmente acerba incarnazione del gruppo, siamo nel 1983)
  • il loro primo demo “Classe differenziale” (che verrà pubblicato come EP in vinile solo nel 1988)
  • il loro primo album “Fase di rigetto” (1985)
  • lo split album “Gronge & Move” (metà disco per ognuno dei due gruppi, risale al 1987)
  • la loro partecipazione, 3 brani inediti, ad un progetto dedicato ai manicomi, “La nave dei folli” (1988)

Come potete notare non ci sono due supporti utilizzati allo stesso modo, perché la cifra stilistica (musicale, letteraria, iconografica…) dei Gronge è sempre stata quella di una enorme libertà mentale, con nessun interesse per le abitudini e le consuetudini, unita ad una consapevolezza rarissima nella musica italiana.
Analogamente nella strumentazione dei brani troviamo ovviamente basso, batteria e chitarra elettrica, ma anche tastiere, violino, sitar e, di volta in volta, strumenti non sempre scontati per il tipo di musica che facevano (in “Creme” c’è un utilizzo geniale della voce di una, credo, bambola parlante).
Già, perché voi vi starete ancora chiedendo cosa suonassero questi ragazzi. Diciamo che il gruppo è stato capace di declinare la forma-canzone in maniera originalissima, lontanissimi dalla consuetudine strofa/ritornello come da certi eccessi free. Sono sempre stati in grado di mantenere una musicalità, oserei dire una cantabilità, fatta non di melodie classiche, quanto di ritmi e note che viaggiano avanti e indietro, si accartocciano su se stesse, si fermano e ripartono per poi fermarsi ancora, in uno scenario che ad un primissimo sguardo può sembrare caotico, ma che facilmente svela una sua bellezza e originalità di primissimo livello, con un uso delicato della dissonanza spesso sorprendente.
Ad influenzarli ovviamente il post-punk e la new-wave a loro contemporanei, ma anche il jazz, la musica elettronica, l’universo canterburyano, la musica contemporanea… tanta carne al fuoco spesso splendidamente miscelata senza mai cadere nel difficile o nel famolo strano fine a sé stesso, ma sempre legata alla necessità di voler esprimere con precisione le proprie idee e la propria arte. Sempre rigorosamente utilizzando un punto di vista “dal basso” (citando Lou X) senza mai tagliare le proprie radici ben affondate in quel quadrante della periferia di Roma est che, con tutti i suoi limiti e le sue miserie, tanto ha dato allo spessore culturale di questa dannata città.

I testi. Scontato dire che non fossero mai banali, ma forse sarà più utile ricordarne la struttura spesso a cut up, l’utilizzo a volte di versi non letterari (regolamenti di condominio, indicazioni sull’utilizzo di insetticidi, scritte sui muri), sempre con una capacità di colpire al cuore l’ascoltatore che a volte ha del miracoloso. Hanno sempre avuto quest’odio per la retorica (qualunque retorica) e questa capacità di toccare temi enormi con una intelligenza acuminata e sottile.

Tra i tanti pezzi presenti in questa antologia (che raccoglie, val la pena ricordarlo, tutto quanto pubblicò il gruppo nel periodo selezionato) vi segnalo i brani che ho trovato più riusciti (ma il livello è sempre altissimo):

brani dalle strutture più, relativamente, canoniche (“La torre del silenzio” che mirabilmente unisce elettroniche e sax, i tamburi asfissianti e le grida del violino nell’ottima “Prigioniero politico“, la classica “Walter“, uno dei pezzi più amati del gruppo, dal basso ricchissimo di personalità) e brani dall’originalità addirittuta debordante (la frenetica “S.A.D.C. (Salvo Approvazione Della Casa)“, dalle molte facce e dai molti umori, “Graffiti (1985)” dal testo memorabile e dalle improvvise accelerazioni e decelerazioni, la marziale e straziante “Grido chimico“, le percussioni in libertà della esplosiva “Frutti finti“, le alternanze di tono e ritmo di “Dinosauri in farmacia“, il Weill arrugginito di “Radio“).

Tra i molti componenti del gruppo che si sono succeduti in questi dischi una parola speciale va per Tiziana Lo Conte, voce principale del gruppo, straordinario talento che, per quanto mi riguarda, è la vocalità più importante e interessante emersa qui in Italia negli anni di cui ci stiamo occupando, musicista dotata di una tecnica sopraffina messa al servizio di una capacità non comune di essere espressivi, non possiamo poi non citare almeno il basso nervoso e incisivo di Vincenzo Caruso, il ruolo del tutto originale delle tastiere di Alessandro Denni, le percussioni, la voce e l’incredibile energia di Marco Bedini.

Concludo segnalando il buon (a tratti ottimo) lavoro di rimasterizzazione (non era facile ottenere questa qualità partendo, come credo sia avvenuto, non dai nastri originali), il libretto che poteva invece essere fatto meglio (magari con maggiore presenza dell’iconografia originale, sempre splendidamente artigianale, con i testi meglio evidenziati e qualche dettaglio in più sulle varie formazioni del gruppo presenti nel doppio cd), ma globalmente questo è un lavoro molto ben fatto che rende onore ad un gruppo che meritava questa ripubblicazione e di tornare sotto la luce dei riflettori in questa sua prima indimenticabile incarnazione (attualmente ha cambiato forma, inevitabilmente, date le coordinate sulle quali si è sempre mosso, e l’ultimo disco è di pochi mesi fa, ma questa, come si dice, è un’altra storia).

Un imprescindibile pezzo di storia (che non finisce certo qui).

p.s. Chi volesse comprare il doppio cd può cliccare qua

Cantare in inglese ?

Negli ultimi tempi mi è capitato spesso, nell’intento di documentarmi su quanto di buono si muove nel sottobosco del rock/pop italiano, di ascoltare delle antologie (gratuitamente scaricabili) variamente concepite ma tutte caratterizzate dalla presenza di molti gruppi e solisti generalmente a me sconosciuti o conosciuti solo di fama.
Mi ha sorpreso il fatto che molti di questi ragazzi abbiano scelto di cantare (e scrivere) in inglese i testi delle loro canzoni, una scelta che non ho mai compreso.
Quelli vecchi come me ricorderanno che nei primi anni ’80, di fronte ad una scena new-wave italiana che spessissimo utilizzava l’inglese, fu abbastanza intensa la polemica tra chi era pro e chi era contro questa scelta. Ovviamente ognuno ha continuato a fare come credeva, ma, in linea di massima, si impose la linea che prediligeva l’italiano (Litfiba, Diaframma, CCCP e CSI e tanti altri gruppi stanno lì a dimostrarlo).

La mia impressione è che la scelta di cantare in inglese sia o irrazionale o furbesca.

Iniziamo col chiederci innanzitutto che cosa sia un testo cantato in una canzone, perché i casi sono due: o l’autore vuole dire delle cose attraverso questi versi oppure per lui non hanno importanza e quello che conta è solo la musicalità dei fonemi.

Nel secondo caso, il più semplice da analizzare, non si capisce perché, se uno è sinceramente interessato solo al suono di quello che viene cantato, debba utilizzare PROPRIO l’inglese.
Con tutte le lingue che ci sono (europee, extra-europee, inventate…) non mi si venga a dire che l’inglese sia la più musicale del pianeta perché fatico a credere ad una affermazione simile (anche perché esistono artisti, come Wim Mertens o i Sigur Ros, che da anni utilizzano fonemi propri, più strutturati quelli dei Sigur Ros, più liberi e anarchici quelli di Mertens, proprio per meglio legare questi suoni alle loro musiche).
Per cui l’impressione è che in questi casi la scelta non sia giustificata e anzi, verrebbe voglia di invitare costoro ad auto-costruirsela una lingua più efficace (e meno inflazionata, personalmente suggerisco il tlhIngan Hol o l’Alto Valyriano).

Nell’altro caso, quello in cui le parole di una canzone abbiano un significato e, almeno nelle intenzioni dell’autore, vogliano esprimere qualcosa, chiunque in vita sua abbia avuto la ventura di scrivere dei testi avrà notato come siano talmente tante le sfumature di una lingua che solo se la si conosce in maniera approfondita si ha la reale possibilità di dire ciò che si vuole nel modo appropriato. Mi verrebbe da dire che solo con la lingua madre è possibile davvero esprimersi nel miglior modo possibile, pesando gli aggettivi, le virgole e ogni componente del testo. Perché basta niente per andare completamente fuori bersaglio ed esprimere concetti agli antipodi di quelli che volevamo comunicare.
Se siete d’accordo con me concorderete che per dire ciò che si vuole dire l’utilizzo della propria lingua è sempre la scelta migliore (se poi, come Eugenio Finardi, si è perfettamente bilingue allora si può scegliere di volta in volta quella che si preferisce).

Ma allora perché usare una lingua straniera ?

La giustificazione più frequente sarebbe quella secondo la quale l’italiano avrebbe delle caratteristiche poco musicali mentre l’inglese risulterebbe meglio plasmabile ed adattabile alle strutture rock e pop.

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Sarà pure vero, ma, in oltre 50 anni di musica leggera fatta in Italia, l’elenco di artisti che hanno fatto delle straordinarie liriche in italiano appoggiate sulle più varie musiche è talmente vasto da smentire con decisione questa tesi. Per rimanere in ambito rock, dai progressivi anni ’70 (Area, Banco del mutuo soccorso, Le Orme, Battiato…), agli ’80 punk & wave (Litfiba, Kina, Franti, CCCP…), agli indefinibili ’90 (C.S.I., Massimo Volume, Ustmamò, Afterhours…), fino al nuovo millennio (Il genio, Le luci della centrale elettrica, Baustelle, I Cani…) è fin troppo evidente quanto sia possibile scrivere (ottimi) testi in italiano con un duplice vantaggio: il controllo su ciò che si esprime e (fondamentale) la possibilità per chi ascolta di comprendere ciò che viene cantato (checchè ne pensino i nostri rockers, la principale audience che hanno è quella italica, se avranno successo sarà quasi sicuramente prima qui e poi, eventualmente, altrove, per cui stabilire un canale di comunicazione con gli italiani dovrebbe essere considerata una priorità).

Perché la mia maliziosa impressione è che coloro che sfuggono all’italiano lo facciano innanzitutto perché hanno paura di prendersi la responsabilità dei loro testi. Sanno benissimo che quando il pubblico comprende ciò che viene cantato è anche in grado di criticarlo e trovarlo geniale come ributtante, mentre se si canta in inglese nessuno baderà più di tanto al testo.
Ma se non si ha il coraggio delle proprie composizioni, come si può sperare di fare strada nel mondo della musica ?

tex_vorreisaperecome

Forse sarebbe meglio correre il rischio di essere poco apprezzati ma di portare alle orecchie altrui un prodotto completamente comprensibile, che possa essere odiato, ma anche amato, senza la barriera di un linguaggio altro. Perché una canzone ci farà innamorare perdutamente solo se avremo la possibilità di entrarci dentro completamente.

Up patriots to italian !

AA.VV. “Italian records – The singles 7″ collection”, 2013, Spittle records

Ecco un altro box che gli appassionati della musica italiana non dovrebbero ignorare.
Come dovreste già aver intuito dal titolo, trattasi di una corposa raccolta, spalmata su ben 5 cd, di TUTTI i 7″ (dalle nostre parti volgarmente detti 45 giri) pubblicati dalla storica, benemerita e rimpianta Italian records durante la sua non lunghissima, ma fondamentale, esistenza (per i pochi che non lo sapessero siamo negli anni ’80).

R-4525275-1367352670-3442.jpegI 5 cd sono contenuti in una piccola scatola bianca contenente anche un ricco libretto nel quale trovano posto (stampate praticamente nella dimensione originale) tutte le copertine e le retrocopertine dei dischi in questione (un applauso al curatore) più note, articoli, approfondimenti e un piccolo gadget.

R-4525275-1367352704-6005.jpegMa cosa è stata la Italian records ? E’ presto detto.
Tramontata la Cramps, fu una delle pochissime etichette indipendenti italiane capaci di dare spazio al meglio che offrisse il belpaese dell’epoca unendo intelligenza, ecumenismo, libertà di pensiero e insofferenza per qualunque tipo di gabbia, e questa antologia, di fatto, ci presenta uno splendido ritratto di quell’Italia musicale ospitando molti dei nomi che hanno dato lustro alla nostra musica negli anni del (sia sempre maledetto) riflusso.
All’ascolto dei dischi stupisce la assolutà varietà della proposta capace, senza rinchiudersi in inutili steccati, di sorprendere continuamente l’ascoltatore facendogli ascoltare punk, rock demenziale, avant-rock, new wave, elettronica glaciale, art-rock più o meno scombinato, cover improbabili, dance music, memorie Tuxedomoon, sinth-pop e altro che sicuramente ora non ricordo. Tutto questo con apertura mentale a 360 gradi e grande intuito nel riconoscere i talenti, tanto è vero che possiamo ascoltare gruppi e solisti, ormai diventati di culto assoluto, quali Freak Antoni, Confusional quartet, Diaframma, Neon, Rats, Gaznevada, Kirlian camera, Johnson Righeira, Windopen o gli Art Fleury (e l’elenco potrebbe continuare).
Uno sguardo lucido e consapevole capace di individuare la buona musica dovunque essa approdasse.

Credo ce ne sia già abbastanza per spingervi a curiosare all’interno di questo universo, ma, non potendo trattare in dettaglio questa vera e propria montagna sonora (oltre 5 ore e mezza di musica), della quale fanno parte anche singoli progettati ma mai commercializzati (altro applauso al curatore), ci vogliamo soffermare sul secondo disco nel quale trova spazio la riproposizione di uno stranissimo progetto, risalente al 1981, e originariamente intitolato “L’incontenibile Freak Antoni” (all’epoca strutturato in un cofanetto costituito di 5 singoli ognuno dei quali accreditato ad altrettanti gruppi fantasma, tutti gravitanti intorno alla figura di Freak Antoni e ognuno dei quali dotato di una precisa personalità artistico-musicale).

R-2967361-1329613143.jpegNel primo 45 giri troviamo così I nuovi ’68, dal prelibato aroma beat, intonare una “Il governo ha ragione” la cui serissima ironia è un piccolo miracolo, subito seguita dalla brevissima e pienamente sixtiesBambini” (testo politicamente scorretto, ma questo è un classico marchio Freak Antoni), mentre sul lato B ascoltiamo una funkettonaNegro” divertente (pseudo)apologia di certa retorica sulla blackness con assolo finale di chitarra niente male.
Il secondo singolo è appannaggio dei Genuine Rockers che partono con il rock bello tirato di “Non salutare chi non ti ama” e proseguono con un’altrettanto grintosa “Mica male / Not bad” (dal testo che è un clamoroso inno all’autostima).
Il terzo 7″ è praticamente uno spin-off degli Skiantos poiché I Recidivi (a cui è attribuito) vedono insieme a Freak Antoni nientepopodimenoche Jimmi Bellafronte e Bubba Loris (chi li conosce lo sa). Sul primo lato troviamo “Il mondo sta finendo (sbobba psichedelica)” (sax ed elettroniche in libertà più batteria apocalittica per una sorta di avant-demenzialità, del tutto imprevedibile). Sull’altro lato c’è prima “Capelli dritti“, acceleratissimo pezzo demenziale, e poi la iperdepressiva (e irresistibile) “Datemi un letto per morire” (batteria e sinth svociato).
Arriviamo così al quarto disco, accreditato ad Astro Vitelli & The Cosmoz (Astro Vitelli è uno degli alias più sviluppati e complessi del nostro, qui basti dire che musicalmente propugna il recupero di vecchie canzoni in contrapposizione alla falsa avanguardia dei giorni nostri) dove ascoltiamo prima una “Love in Portofino” come l’avrebbero suonata i Tuxedomoon e subito dopo una “Arrivederci Roma” virata in chiave elettro-dark che è una assoluta delizia.
Chiudono il cofanetto gli Hot Funkers che esordiscono con una “Ieri/Yesterday” (ovviamente in chiave funky con tanto di assolo del sassofonista Alan King, special guest del progetto), bella, ma meno riuscita della b-side “Posso farlo ovunque“, dall’impressionante groove (gli ottimi Bruno Corticelli e Daniele Barbieri a basso e batteria) e dal geniale testo dedicato alla possibilità di urlare. Pezzo perfetto per chiudere in bellezza.

Questi 5 singoli sono un raro concentrato di intelligenza, originalità e leggerezza. Doti che è raro trovare insieme e ancor più raro trovare unite ad una sapienza e sensibilità musicale che rende questi pezzi pienamente riusciti. Da soli giustificano l’acquisto dell’intero cofanetto.

elephantmenMa le sorprese non finiscono qui, perché in chiusura di questo stesso CD troviamo due brani accreditati ai The Elephant men (ovvero i Merrick Brothers), altro progetto laterale del nostro eroe, che ci presentano due brani sotto il cappello “Music for a lonely soundtrack“. Sul lato A una “Hard spleen theme” elettronica e decadente, mentre sul lato B c’è una “Titles song” (?) dalle atmosfere analoghe, ma dalla ritmica più veloce e un testo più tradizionalmente Skiantos.

Mi perdonino tutti gli altri degnissimi artisti presenti in questo cofanetto, ma non potendo parlare di tutti non ho potuto fare a meno di approfondire i contributi di uno dei grandi scomparsi della musica italiana, quel Roberto Antoni che dobbiamo fare in modo non sia mai dimenticato.

L’altra faccia degli anni ’80 (quella buona).

p.s. Spendo una parola anche per la qualita delle digitalizzazioni, laddove spesso le major non sanno neanche più dove siano i master originali costringendo i loro dipendenti ad utilizzare masterizzazioni da vinile per poter ristampare alcuni titoli, qui possiamo ascoltare questi brani con ottimi riversamenti dai nastri dell’epoca regalando un ascolto anche tecnicamente di altissimo livello (e certo migliore di quanto potevano fornire i 45 giri originali)