Lezioni di musica

Molto spesso, quando si parla della RAI, si mostra un diffuso sentimento di insofferenza. Nella vulgata dominante la RAI è un carrozzone che utilizza male i soldi del canone, produce, sostanzialmente, le stesse cose della TV privata e via dicendo.
Chi si abbevera al fiume di questa retorica utilizza come esempi le trasmissioni dei canali generalisti della RAI e, nella sua pigrizia mentale, raramente guarda oltre la siepe. Se lo facesse magari scoprirebbe un ricchissimo palinsesto ricco di chicche e produzioni interessanti e validissime.

In questa occasione parleremo di un gioiellino della radio pubblica, e di RAI Radio 3 in particolare. Si chiama “Lezioni di musica” e va in onda, di norma, due volte alla settimana la mattina.

lezioni

Come si può evincere dal titolo, questo programma, di una scarsa mezzoretta, si occupa di un’opera musicale (un concerto, una sinfonia, una sonata…), il conduttore (sono diversi e tutti molto bravi e preparati) cerca di illustrare le caratteristiche dell’opera sia contestualizzandola all’interno della vita privata e della storia personale del suo autore, sia collegandola alle altre sue opere, sia analizzandone la struttura formale, sia cogliendone gli aspetti innovativi o più significativi.
Per fare questo il conduttore si appoggia sia al pianoforte, accennando i temi e i frammenti musicali dei quali sta parlando, sia proponendo un ascolto (sempre parziale) dell’opera sul quale interviene per sottolineare ciò che ritiene importante.

Il risultato è un prodotto divulgativo di altissima qualità, che permette anche ad ascoltatori non particolarmente ferrati in queste materie di penetrare nel profondo l’anima di queste composizioni (spesso) immortali. Qualcosa che dovrebbe entrare di diritto nelle scuole medie e superiori, se appena appena qualcuno fosse interessato alla formazione musicale dei nostri giovani.

Ve ne parlo anche perché, fortunatamente, è possibile ascoltare queste puntate in streaming sull’apposito sito della RAI e, chi vorrà, potrà selezionare nel vastissimo elenco le cose che più lo incuriosiscono.

Sono conservate ed accedibili (al momento in cui scrivo) le stagioni dal 2012 ad oggi (!), e all’interno di questa serie ci troverete di tutto: da Mozart a Bach, da Beethoven a Brahms, da Debussy a Monteverdi, ma anche cose meno prevedibili  e contemporanee come alcune puntate su minimalismo e post-minimalismo, opere di Maderna, Castaldi, Berio, Stockhausen, Glass, Reich, Riley, Pärt, Feldman e tanti altri. Non mancano, infine, anche artisti (relativamente) minori come Frogerber, Carissimi, Gastoldi, Willaert

Decine di trasmissioni su decine di opere di decine di artisti di tutti i tempi. Uno scrigno ricchissimo di gioielli che merita assolutamente l’attenzione degli appassionati di musica.

Peccato che, nella recente ristrutturazione del sito, abbiano eliminato la possibilità di scaricare liberamente le trasmissioni per conservarle e/o ascoltarle quando non si ha la connessione. Trattandosi di servizio pubblico sarebbe stato bello conservare questa possibilità.

Ma resta il fatto che questa trasmissione rappresenta la più pura essenza del servizio pubblico, qualcosa che i privati non faranno mai. Sono trasmissioni come queste che giustificano (eccome !) il pagamento del canone, anche se i tromboni che si lamentano della qualità dei programmi RAI non le degneranno di attenzione, buoni solo a lamentarsi.

SoundScapeS vol.16

E in attesa di ritornare a scrivere qualcosa di serio, vi presento l’ennesima raccolta che certifica quelle canzoni o quei brani musicali che in questi ultimi 14 mesi mi hanno colpito, vuoi per la musica, vuoi per le parole, vuoi per un brivido, vuoi per una vertigine.

Questa volta l’antologia è concettualmente spaccata in due.
Da un lato un discreto numero di brani strumentali (o dove eventuali testi non hanno particolare rilevanza).
Si spazia da materiali quasi-progressive, al minimalismo, a qualcosa di microtonale, un inevitabile passaggio per qualcosa di classico (scoperta dell’ultimo viaggio berlinese), un pizzico di exotica e un gioiellino post-minimalista.

Dall’altra parte, forse figlie dei tempi, alcune canzoni che si pongono il problema della libertà, ma da punti di vista diversi, anche opposti.
Da lì il titolo della raccolta, necessariamente al plurale.

Solo 17 brani (diversi sono piuttosto lunghi) per i consueti 80 minuti di good vibrations (con un paio di dediche implicite).

Scava scava, si trova sempre in giro un sacco di bella musica.

PIERLUIGI CASTELLANO “Paradise lost vol.1-2-3”, 2017, autoproduzione

Pierluigi Castellano è, perdonatemi l’ennesimo uso di questa espressione retorica, uno dei segreti (purtroppo) meglio custoditi della musica di ricerca italiana.
Cercheremo in questo lungo post di disvelarlo agli occhi di quei tanti che non ne hanno mai sentito parlare (anche se io stesso vi parlai a suo tempo del suo lato giornalistico in questo post).

Esordisce nel lontano 1985 con “La boule de neige“, musiche per l’omonimo spettacolo teatrale di Fabrizio Monteverde, ed è un esordio col botto: fin dalla prima traccia, “Elisabeth“, splendida e fulminante, con una eccellente Patrizia Nasini alla voce in una forsennata rincorsa tra tastiere e archi, in una specie di originalissima non-canzone minimalista. A seguire un altro pezzo bellissimo, “La boule (tema doppio)“, molto più tranquillo, con un pianoforte che prima disegna lente melodie circolari per poi passare ad un insistito vagamente mertensiano (specie nelle voci, che in entrambi i brani, cantano in una lingua inventata, Castellano avrà sempre una particolare simpatia per idiomi fuori dal comune), con accelerazioni improvvise e melodie che si intersecano deliziosamente.
Ma anche oltre le prime due tracce, “La boule de neige” è un disco che stupisce per lo spessore della scrittura: un post-minimalismo europeo di ottimo livello che non aveva nulla da invidiare ai coevi Mertens, Nyman, Poppy e compagnia cantando, con, a volte, sorprendenti vicinanze con Mikel Rouse.

Peccato (e vedremo che un certo tipo di sfortuna sarà una costante) che la General music non lo distribuisca in maniera adeguata e questo gioiellino circoli pochissimo. Io devo personalmente ringraziare un bravissimo e competente commesso di Rinascita, quella nella storica sede di via delle Botteghe Oscure a Roma, che me lo fece ascoltare (ci misi un istante a decidere di comprarlo).

L’anno dopo la romana Mantra records (etichetta legata al fondamentale negozio Disfunzioni Musicali) distribuisce il suo secondo lavoro, “Danze“.
E’, per molti versi, il secondo capitolo di un medesimo progetto: anche qui troviamo raccolte musiche per spettacoli di teatro e danza, anche qui ritroviamo brani più tipicamente post-minimalisti (il Mertens allegro di “Cookin’ you” messo in, bellissima, apertura, le tastiere iterative e danzerecce di “Depero“, con i sax illuminanti nel finale, le riflessioni per pianoforte, tastiere e violino struggente di “Astasia“, con ancora l’eccellente Patrizia Nasini alla voce, e quelle con il flauto protagonista di “Pasolini“, la placida e intensa iteratività di “Fine senza fine“) come anche brani meno legati ad invenzioni melodiche (le percussioni di “Nella notte“, l’elettronica in libertà di “Fru Fru“).
Un secondo capitolo forse leggermente meno ispirato del primo, ma ancora di ottimo livello.

Passano 4 anni e, ancora per Mantra records, esce, in un CD dalla confezione originale e ambiziosa, “Noi, my, us“, lavoro che segna la raggiunta maturità di Castellano.
Disco compattissimo, senza cadute di tono, realizzato per tastiere più un piccolo, ma funzionale, ensemble acustico (clarinetto, tromba, violino, viola, violoncello) che, incorniciati tra due estratti de “La traviata” di Giuseppe Verdi, ci delizia con gioiellini tipicamente made in Castellano quali “In a wonderland” (ancora la voce, anzi le voci, di Patrizia Nasini in un brano che unisce ripetitività e cantabilità), l’allegro e trascinante “Nate zeko” (ancora le lingue inventate da Francesco Antinucci), l’elegante e tranquilla “Towitara” (con la Nasini che ci ricorda Meredith Monk per 9 minuti di assoluta meraviglia), la ritmata “Flatland” (quanto ho amato quel libro !), le volute raffinate di “Zavasta kino“, le tastiere circolari di “Natività” che man mano si arricchiscono in un classico crescendo-Castellano.

Dopo un disco così mi aspettavo che la fama di Castellano superasse non solo il Grande Raccordo Anulare, ma volasse alta anche oltre le Alpi. E invece nulla si muove (e va pure detto che, a distanza di anni, sfortuna vuole che quasi tutte, se non tutte, le copie di questo disco si siano abbronzate e ormai nemmeno i fortunati possessori dei CD hanno più la possibilità di riascoltare queste musiche).
Tanto per gradire anche la Mantra chiude, e Castellano smette di avere una casa discografica che credeva in lui.

Inizia così un periodo abbastanza avaro di pubblicazioni, interrotto dalla pubblicazione di un CD decisamente inusuale per gli standard ai quali Castellano ci aveva abituato. “Sevilla X” (1992, per la misteriosa etichetta AS) contiene due lunghi brani ambient (o, per meglio dire, due versioni della stessa composizione), piuttosto riusciti, prodotti per la sonorizzazione di una realtà virtuale voluta dall’ENEL per l’EXPO universale di Siviglia 1992. Lavoro interessante, ma sostanzialmente un unicum musicale nella produzione di Castellano.

L’intermezzo di “Sevilla X” si colloca all’interno di un lungo silenzio discografico di circa otto anni, ed è solo a cavallo del nuovo millennio che Castellano torna a produrre alcuni lavori: “Computer dreams“, nel 1999 e “2002“, tre anni dopo, entrambi sostanzialmente autoprodotti per la sua Orlando records, ed entrambi circolati pochissimo.

Computer dreams“, se dimostra una sempre ottima vena compositiva, sembra soffrire della realizzazione in perfetta solitudine (Castellano suona tutti gli strumenti) e di un certo dominio dei suoni sintetizzati. Contiene comunque diverse composizioni molto riuscite: segnaliamo in particolare l’iniziale “Hardware sex“, dall’inizio che occhieggia a certo Jarre per poi svilupparsi in splendidi incroci tra la chitarra elettrica, uno (pseudo ?) sax e le tastiere, l’elegantissima “Lysi waltz” dalle intricate melodie e un flauto traverso in bella evidenza, l’allegra “Speed of life” dagli esplosivi crescendo.

2002“, uscito solo in CDr, contiene 19 tracce medio-brevi, da poco più di un minuto ai 6 minuti, tutte caratterizzate dall’utilizzo di una elettronica a volte quasi-ambient, a volte più dissonante. Materiale abbastanza diverso dalle consuete produzioni di Castellano. Il disco si chiude con la lunga ventesima traccia, “Walking on crystals“, 13 minuti di avvolgenti atmosfere spaziali.

Sempre nel 2002 la piccola, ma prestigiosissima, Ants pubblica (purtroppo solo in CD-r…) l’opera sull’AIDS “Zonacalda“, primo disco in cui il nostro si confronta con un tema vero e proprio e con una qualche forma di teatro musicale, ed il risultato è interessante e valido.
Il disco è, in qualche modo, figlio, anche musicalmente, della trasmissione radiofonica Audiobox, vi suonano, tra gli altri, musicisti di spessore come Paolo Fresu e Luca Venitucci, e alterna dei recitati (su tappeti di musica apparentemente improvvisata) affidati a Federica Santoro a vere e proprie arie più vicine alla normale produzione di Castellano, per poi concludersi con delle appendici realizzate con Alvin Curran (il gran maestro romano-statunitense del minimalismo e dell’avanguardia degli anni ’70).
Altro lavoro meritevole, ma passato inosservato.

Segnaliamo, solo per dovere di cronaca, una uscita del 2008, “Open space“, pubblicata da Rai Trade. Disco mai visto e, di conseguenza, mai ascoltato, sul quale nulla possiamo dire.

A questo punto, e finalmente, dopo un decennio di silenzio, Castellano ricompare con una trilogia di lavori intitolati “Paradise lost” pubblicati (purtroppamente) solo in formato digitale.

Il primo volume, 7 brani per 73 minuti di musica (potete facilmente intuire la dimensione temporale dei brani) presenta composizioni caratterizzate da una morbida iteratività nella quale melodie circolari e arrangiamenti curatissimi regalano momenti davvero intensi.
In apertura “Xantia“, una meraviglia in eterna spirale circolare, nella quale tastiere e violoncello (quelli che sembrano essere gli strumenti principali di questo lavoro) costruiscono un tema splendidamente oscillante e continuamente in ripartenza con un finale arricchito da percussioni tribaloidi di grande effetto. Un gioiellino di livello assoluto che apre il disco alla grande.
Ma tutto il primo volume è comunque di buon livello: mi piace segnalarvi anche lo splendido e continuo borbottìo di “Alpha Centauri ascending” (tastiere ripetitive ad incrociarsi e sovrapporsi in un lento crescendo che sembra davvero elevarci verso stelle lontane fino all’arrivo delle percussioni che spostano leggermente il pezzo verso lidi vagamente oldfield-ani, ma un Oldfield estremamente dilatato), il pianoforte, of course, di “Piano rendering” che, dopo una lunga introduzione solista (con una melodia che mi ricorda qualcosa, ma non so cosa), viene affiancato dagli archi in un brano che può ricordare un Mertens passato nell’ammorbidente e che ci culla indefinitamente con dolcezza dispiegando variazioni semplicemente bellissime.

Il secondo volume, 9 brani per 76 minuti, presenta un uso interessante della chitarra elettrica (usata come strumento solista a cui viene affidata la melodia principale, ad esempio nell’iniziale “Rifferama“, dove, con l’aiuto di archi e voci emerge un pezzo di grande energia e fantasia, classicamente alla Castellano) e delle atmosfere più pop, magari vicine a certo prog strumentale inclassificabile come in “Apocalypsis“, dove è ancora la chitarra lo strumento sul quale poggia il brano (e qui, in certi punti, mi viene in mente nuovamente Mike Oldfield, non a caso un polistrumentista soprattutto chitarrista).
Degli altri brani di questo secondo volume, globalmente più discontinuo del primo, qualche rapida citazione per il bel lirismo di “Paradise lost” (11 minuti di melodia ampia e sontuosa, ancora con la chitarra in primo piano insieme agli archi, alle tastiere e a un violoncello commovente), i possenti (finti ?) fiati di una circolare “Andromeda Big B“, le inaspettate chitarre acustiche di “Portixeddu sunrise“.

Il terzo volume, altri 8 brani per 76 minuti, vede una presenza importante delle voci e spicca per un lirismo di alto livello.
Si apre con la ottima “Agnus Dei one“, tastiere delicatissime e ripetitive insieme a una stranissima, eppure intrigante, voce filtrata che canta in una lingua non comprensibile una melodia di quelle che piacciono a Castellano (capace di unire una oggettiva cantabilità con uno sviluppo inaspettato e originale) in un pacifico e memorabile crescendo. Più apparentemente sfuggente “Disco Brecht“: andamento claudicante, voce femminile ad inerpicarsi lungo melodie complesse, prima in solitaria poi insieme a un sax, in quello che potrebbe sembrare un brano difficile da ascoltare e che invece, per i miracoli tipici di Castellano, si risolve in una composizione che acchiappa l’ascoltatore e non lo molla fino alla fine. Un gioiello.
Discorsi più o meno simili, e risultati finali ancora eccellenti, per “Italian western 3” (ancora voce femminile al centro del brano, ancora una melodia bella articolata, tastiere tutt’intorno a completare il quadro, ma non fatevi ingannare dal titolo, Morricone non c’entra nulla), per la spettacolare “Lotus flowers” (voci femminili, melodia bellissima e intricata, linea di basso placida + violoncello e archi, e sempre quella circolarità in ascensione che è un marchio di fabbrica del miglior Castellano) e per “Millecolori” (altissime voci femminili in un brano che odora di primavera, con una scelta dei suoni molto particolare, un forse-organetto, un forse-dulcimer, una linea di basso borbottante che rasserena, qualcosa che si potrebbe ballare all’aperto tutti insieme).
Menzione speciale per la conclusiva “Chtulhu dance” che miscela archi e fiati atonali, rullante insistito, tastiere vagamente cosmiche in un frullato stranissimo, forse dalle ambizioni spettraliste, ma di grande effetto (e dura 10 minuti abbondanti).

Provando a tirare le somme potremmo definirlo un ritorno alla grande (fermo restando che proporre così tanti materiali tutti assieme mette in una certa difficoltà l’ascoltatore, forse sarebbe stato meglio fare una maggiore selezione, ma capiamo che, dopo tanti anni di digiuno, la voglia di proporre la propria musica fosse enorme).
In sintesi, e con nostra personale gioia, Castellano torna al suo meglio, con la consueta ricca vena compositiva, il suo stile personale e tutto ciò di bello che avevamo conosciuto in passato.

Volendo segnalare gli aspetti negativi di questa trilogia non possiamo non sottolineare la assoluta mancanza di un apparato iconografico (solo la foto di copertina, peraltro senza che vi sia indicato nulla) e informativo (nulla a parte i titoli dei brani). Oggettivamente un po’ troppo poco, anche perché io resto dell’idea che anche la musica liquida debba essere corredata da metadati utili all’ascoltatore.
Anche sulla qualità della registrazione ho qualche dubbio: premesso che l’ho sentito dalle cuffiette del PC (il mio stereo ancora non sa riprodurre i file FLAC) devo dire che i suoni mi sono sembrati un tantino troppo ammucchiati, come se la musica mancasse di spazialità, e anche un po’ troppo distorti in certi momenti.

In ogni caso: un artista di grande spessore e troppa poca fortuna.

Chi volesse approfondire questa trilogia, può ascoltarla e/o acquistarla cliccando qua.

p.s. Sottolineiamo come questa incredibile incapacità a vendersi (nel senso buono) di Castellano abbia fatto si che il suo sia probabilmente il nome più importante tra quelli assenti nel bel libro di Antonello Cresti “Solchi sperimentali Italia“, sorta di ponderosa mappatura di quanto abbia partorito lo stivale in tema di musiche “altre”. Mentre sono regolarmente, e giustamente, presenti i Venosta, i Milesi e gli altri artisti musicalmente affini a Castellano e a lui perfettamente coevi, di lui non vi è traccia nelle moltissime pagine del libro. E non è certo un caso.

Un’ora (e mezza) di musica minimalista e post-minimalista italiana

Altra playlist arrangiata alla meno peggio con quello che passa il convento. 🙂

Ci ricolleghiamo al post precedente per dedicare i nostri ascolti a quelle composizioni di autori italiani fortemente influenzate dal minimalismo storico, un genere che ebbe discreta fortuna dalle nostre parti e che ha influenzato diversi artisti.

In questa sequenza troviamo alcuni gioielli che con orgoglio possiamo rivendicare come tra le più importanti composizioni realizzate in Europa in relazione a questi generi (Cacciapaglia, Battiato…),
alcune sono presenti in forma esageratamente mutilata (l’eccellente “Modi” di Piero Milesi, presente in una pillola di un solo minuto),
altre purtroppo mancano completamente (il “Motore immobile” di Giusto Pio, incredibilmente assente da Spotify nonostante le ripetute edizioni in CD, “Tunedless” di Roberto Donnini, “Elicoide” di Franco Nanni, del quale abbiamo appena parlato, gli “Olympic signals” di Giovanni Venosta“, gli ottimi lavori di Pierluigi Castellano, sui quali torneremo tra qualche tempo, quelli della accoppiata Tiziano Popoli/Marco Dalpane, e altro ancora).

Fortunatamente altre composizioni sono presenti, il tutto a disegnare un approccio italiano a un genere musicale sviluppatosi oltreoceano eppure capace di fiorire inaspettatamente anche in un paese come l’Italia, apparentemente condannata al bel canto e alla melodia über alles.

Speriamo di poter prossimamente integrare questa antologia con alcune delle composizioni che avremmo desiderato inserirci dentro, nel frattempo chiudete gli occhi e perdetevi in questo splendido mare.

p.s. Considerate l’ultima traccia come una sorta di bonus track, perché, pur non essendo un brano di stretta osservanza minimalista, segna la fruttuosa collaborazione tra Terry Riley, uno dei quattro mostri sacri del minimalismo, e il compianto Stefano Scodanibbio, musicista che ci piace ricordare in questa occasione.

FRANCO NANNI “Elicoide”, 1987, Moon record

Ci ricolleghiamo alla playlist pubblicata un paio di post fa (cliccate qua per ascoltarla) e dedichiamo questo post ad un disco di quegli anni ’80 caratterizzati (anche) da un manipolo di sperimentatori in bilico tra mondi più popolari e mondi più aristocratici, capaci di musiche che riuscivano ad essere vicine a certe avanguardie, ma rimanendo godibili, musiche intriganti e originali, ma anche comunicative.

Franco Nanni è stato uno di questi sperimentatori, autore dalla discografia tutt’altro che sterminata, che nel 1987 esordisce, su di una piccolissima etichetta, con questo “Elicoide“.

Il progetto, del tutto strumentale, dichiaratamente legato alla genetica, è caratterizzato da 5 brani, due dei quali particolarmente lunghi che ne costituiscono il cuore.

Mitochondria“, con i suoi 16 minuti, è un brano ipnotico, per tastiere e contrabbasso, memore del Reich più percussivo, ma, rispetto a questo, molto più morbido e lirico. Ritmo rilassato, le tastiere a dettare l’architettura del pezzo e il contrabbasso a lavorarci melodicamente dentro, realizzando un brano post-minimalista di ottima fattura.
Elicoide” è l’altro brano che spicca per le dimensioni, 11 minuti di grande delicatezza. Anche qui le tastiere iterative disegnano una architettura di grande fascino, con più libertà rispetto al primo brano, temi che si susseguono, si incastrano, appaiono, scompaiono e poi ricompaiono.

Degli altri tre brani segnalazione doverosa per “Mitosi“, non lontana dalle atmosfere di “Mitochondria“, ma con un piglio più deciso.

Se c’è un difetto in questo disco, difetto tipico di molti dischi usciti nella seconda metà degli ’80, è una certa freddezza dei toni sintetizzati. L’impressione è che questi brani, suonati da una vera orchestra, avrebbero una maggior capacità attrattiva e risulterebbero ancor più piacevoli all’orecchio, ma sono ben chiare le motivazioni che spingevano i compositori di allora (e di oggi, a dirla tutta…) a preferire questo tipo di soluzioni.

Dopo questo disco, che non ebbe certo l’eco che meritava, Nanni pubblicò un interessante lavoro, “L’angelo dei numeri” per poi sostanzialmente scomparire dalla scena.
Recentemente la Affordable Inner Space ha ripubblicato “Elicoide” in una versione allargata (praticamente raddoppiata) con altre tracce dell’epoca, anch’esse di ottima qualità, per nulla inferiori a quelle pubblicate nel 1987 (in particolare la circolare “RNA“, “Meiosis” che mi ricorda il miglior Michael Galasso, la rilassata e stupefatta “DNA“), purtroppo solo in doppio vinile e in download (riparleremo di questa discutibile tendenza).

Ma, se siete interessati a questo oscuro, quanto talentuoso, musicista, il consiglio è di recuperare queste ristampe (e di corsa, prima che scompaiano).

LAVERNA (terza parte)

Altra cinquina di lavori pubblicati dalla nostra prediletta net-label Laverna (le precedenti le trovate qui e qua).

Partiamo con “A long white sleep” di Leonardo Rosado. Quattro brani per 20 minuti caratterizzati da estrema brumosità, un’elettronica fosca e glaciale per niente rassicurante, ma molto affascinante.
Come spesso accade in questo tipo di musiche dietro un apparente immobilità c’è invece un intero universo di continui microcambiamenti che rendono l’ascolto interessante e coinvolgente. Più estatica l’iniziale “Variation in white n.1“, più rumorosa “Variation in white n.2“, più letargica “Variation in white n.3” (forse la traccia più convincente, come un guardarsi attorno di chi riesce a cogliere nel profondo l’essenza della natura), più vicina a certe atmosfere eno-ane (“On land“) la conclusiva “Variation in white n.4“.
Una musica capace di grande suggestione.

Anacleto Vitolo, qui con lo pseudonimo di AV-K, presenta nel suo “A centripetal fugue” oltre mezzora di suoni elettronici di squisita fattura e discreta varietà. “290513“, dark-ambient molto sporca e lacerata, introduce perfettamente questo rigoroso lavoro, segue il brano scelto per intitolare il disco, che profuma dei primi Kraftwerk, o dei primi Cluster, con suoni elettronici (che sembrano) analogici molto ben modulati, squisita descrizione di un sereno panorama post-industriale. Si prosegue poi con le vibrazioni ricche di disturbi, rumorini e pulsazioni di “Amniotico” (vagamente alla Biosphere), con “Frefall in slow motion“, immobile e celestiale, “Anxiety” e “S-FLM” , dai bassi profondi e lo sguardo dentro l’abisso. Si conclude l’ascolto con la ventosa “Rising“, le cui aperture mi ricordano certi momenti del Battiato di “Genesi” (ma mooooolto più dilatati).

Posthumous innocence” di Item Caligo  (al secolo Sergey Epifanov) è un ottimo lavoro tutto incentrato sul pianoforte e un clima malinconico-depresso. Quattro brani per circa mezzora a iniziare dai toni cimiteriali dell’ottimo “Faded before blossom” (poche note di pianoforte ripetute, con le dovute variazioni, con intristita insistenza tra azzeccati e, giustamente, contrastanti field recordings). Stessa atmosfera anche per “Stained” (ma con un pianoforte più leggero, rumori di passi, sguardo ora leggermente alzato verso il cielo), mentre “Rest in apathy part 3” torna su toni particolarmente plumbei (e qui la ripetizione del pianoforte si fa molto minimalista oltre che funerea). La conclusiva “Rest in apathy part 4” prosegue seguendo la formula delle tracce precedenti ma è quella che forse suona più solare: pianoforte molto ripetitivo, rumori d’ambiente e un pizzichino di elettronica vengono messi al servizio di un sentimento meno angosciato e libero di mostrarsi. Un lavoro delizioso.

Proseguiamo con il lunghissimo (abbondantemente oltre l’ora) “A distant veil” firmato da Orrorin Daydream, misterioso progetto belga il cui unico componente ci delizia con una dark-ambient sporca e nebbiosa in bilico tra certo Biosphere e certo industrial ritual-dronante. Particolarmente affascinanti le due lunghe composizioni che aprono e chiudono il disco: “A bestiary” (11 minuti di ipnotica risacca elettronica) e “Some words” (17 minuti di continuo e sommesso ringhio elettronico intarsiato da rumori angoscianti, un lento frustrante crepuscolo verso il nulla) insieme agli 8 minuti di “A somnolence” (moribund chorus e andamento lentissimo, vagamente vicino al finale di “Pollution“).

Concludiamo con “The summer of love” che sarebbe già di suo un buon lavoro di elettronica immobile e gelida realizzato da Marco Lucchi. Tre tracce per la solita mezzoretta scarsa di musica.
Spicca per contenere al suo interno un pezzo semplicemente bellissimo. Intitolato “Electric Eden” è caratterizzato da fortissimi, ma raffinati quanto espliciti, riferimenti al Battiato 1974-1975, e in particolare alla canzone “No U turn“. Chi ha amato quel Battiato e quella canzone non potrà non apprezzare questi quasi 9 minuti di omaggio realizzati trovando un prodigioso equilibrio tra citazionismo e scrittura compositiva, desiderio di manifestare l’amore per certa musica e trascenderla.

Per ora ci fermiamo, ma state tranquilli, to be continued 🙂


Chi fosse curioso di queste musiche e desideroso di verificare quanto scritto sopra, può farlo agevolmente utilizzando i link che trovate qui sotto.

Leonardo Rosado
AV-K
Item Caligo
Orrorin Daydream
Marco Lucchi

MAX RICHTER “Sleep”, 2015, Deutsches Grammophon

Vi ho già parlato un paio di volte (qui e qui) di Max Richter, forse il nome più interessante in ambito post-minimalista (o neo-classico, come insulsamente dicono oggi…) emerso negli ultimi 10-15 anni.
Torno su di lui per parlarvi di questo singolare progetto intitolato (non a caso) “Sleep“.

Trattasi di un box di ben 8 cd contenente una unica composizione della durata complessiva di poco meno di 8 ore e mezza, a sua volta divisa in 31 sezioni di varia lunghezza con una strumentazione che, oltre al compositore a piano e tastiere, vede anche un minimo di archi (due violini, una viola e due violoncelli) e la voce di una soprano.

L’idea di fondo che ha mosso il compositore è stata quella di creare una musica che favorisse il sonno, che accompagnasse l’addormentarsi e ci cullasse per tutta la notte (non a caso l’ha anche sinteticamente definita “una ninna nanna di otto ore“).
In effetti nell’ascoltarla non si può non notare la lentezza dell’esposizione dei temi, la loro ripetitività, davvero figlia del minimalismo, specie quello che Gino Dal Soler definisce holy minimalism, una delicatezza e leggerezza che molto bene si sposa con la qualità della scrittura (Richter continua ad avere una ottima mano).

Il problema di questo lavoro consiste proprio nella sua qualità e nel fatto che il compositore, secondo me, abbia pienamente raggiunto i suoi obiettivi. Infatti se ascolterete questi brani, in sequenza, una traccia dopo l’altra, probabilmente vi capiterà di esserne avvolti, molto lentamente, in un’aura di vago annoiamento, e rischierete DAVVERO di addormentarvi.

Perché il punto è: come giudicare un disco che, programmaticamente, vuole essere noioso e che invece di stimolare la vostra attenzione tende ad assopirvi (e per di più ci riesce) ?

E’ una strana sensazione, perché ciò che normalmente consideriamo un errore, un’opera mal riuscita, qui diventa la dimostrazione di come il compositore abbia centrato il suo bersaglio, e non si sa proprio cosa pensare.
Forse è un capolavoro, forse una pizza mortale, forse uno strumento utile a vivere momenti meravigliosi (ma di cui non serberete ricordi coscienti). Anche perché, astutamente, agli 8 cd è stato abbinato un disco blu-ray contenente tutte le 8 ore abbondanti di musica per cui, se vorrete, potrete davvero mettervelo la sera e tenerlo acceso per tutta la notte a cullarvi con attenzione e delicatezza.

Insomma, un disco tra i più spiazzanti e ingiudicabili di sempre, e questo forse, di questi tempi, è già un grosso merito.

JON GIBSON “Relative calm”, 2016, New World records

Se c’è un musicista al cui pensiero le prime parole che mi vengono in mente sono umiltà e professionismo, questi è Jon Gibson.

Compositore e sassofonista, classe 1940, è uno dei componenti cardine del Philip Glass Ensemble praticamente da sempre (ma ha anche suonato con Steve Reich, Terry Riley e Lamonte Young, la crème de la crème del minimalismo).
Lontano dai riflettori e dalla stampa, anche quella specializzata, Gibson da sempre vive una sorta di doppia vita. Orchestrale e musicista perennemente in tour e, quasi privatamente, compositore di eccellente livello.

Sono pochi i dischi realizzati da lui (credo sette ad oggi, nell’arco di oltre 40 anni…), ma tutti più che degni di essere ascoltati.
Compositivamente appartenente alla corrente del minimalismo (o al post-minimalismo… dipende dai punti di vista), per quanto in lui ogni tanto l’indole del sassofonista prenda il sopravvento, sembra essere uno di quei compositori che scrivono musica solo quando i loro lavori facciano pressione per emergere, solo quando la creatività si trasforma in bisogno da soddisfare necessariamente.

Niente mestiere per lui, nessun obbligo con il mercato discografico.

Questo disco, il suo più recente, non posso certo definirlo il suo migliore, da questo punto di vista i suoi primi due lavori pubblicati dalla Chatam Square di Philip Glass negli anni ’70 restano inarrivabili, ma suona così piacevole e fresco che non posso non parlarvene. E suona fresco soprattutto se lo si confronta con i lavori dei suoi colleghi, storicamente più importanti ed influenti, che, dopo tanti anni, tanti dischi e tante composizioni, sembrano invece aver perso la capacità di sorprenderci, vittime di una aurea mediocrità che faticano a scrostare dai loro spartiti.

Relative calm” si struttura su quattro lunghi brani (tutti intorno ai 17-18 minuti), molto diversi tra loro, composti nei primissimi anni ’80 per un balletto di Lucinda Childs, e solo recentemente resi disponibili per la pubblicazione (meglio tardi che mai).

Si inizia con il brano che da il titolo al disco, “Relative calm (rise)“, il pulsare di un telegrafo innesca gli altri strumenti: un pianoforte ripetitivo più una marimba delicata e anch’essa minimale (alle percussioni in tutto il disco troviamo l’eccellente David Van Tieghem) più il drone di un organo, per una composizione che fa della grazia e della iteratività la sua arma principale, cullandoci in una spirale di ascesi ed eleganza.

Q-music (race)” parte con un pianoforte molto glassiano sul quale però si inseriscono le tastiere in maniera molto morbida, ascendendo e discendendo con accordi che sembrano ondeggiare sull’acqua. Anche questo brano non nasconde la sua matrice minimalista, pur deviando verso spiagge più delicate.

Extension (reach)” cambia atmosfera, tutto realizzato per sassofono soprano sovrainciso è caratterizzato da brevi frasi che si susseguono, non si capisce bene quanto ci sia di improvvisato o di scritto, ma il risultato è un lungo dialogare tra sé e sé, piacevolmente libero.

L’ultimo brano, “Return (return)” è il più leggero del lotto, con una ritmica e delle atmosfere che possono ricordare alcuni lavori di Andrew Poppy. Percussioni, tastiere e sassofono per un pezzo solo apparentemente facile e pop, ma in realtà sempre erede della musica minimale (e decisamente il brano più post-minimalista dell’intero CD).

Ribadisco il concetto: questo disco non è un capolavoro, e nemmeno il capolavoro di Gibson, ma la conferma di un artista che meriterebbe maggiore attenzione e maggiori riconoscimenti, perché sarebbe ora che la critica musicale non si facesse troppo condizionare dalle sirene del marketing e dal sapersi mettere in mostra, imparando a valutare gli artisti per le loro oggettive qualità.

Coerenza e costanza.
Forma e sostanza.