BIS [2018]

Anche quest’ anno vi segnalo alcuni dischi che, come scrissi, riguardano “...artisti, o scene musicali, dei quali ho già parlato in passato. Dischi che non aggiungono nulla di particolare a quanto già scritto, e che quindi non meriterebbero un ulteriore post su queste pagine (sarei costretto a riesprimere gli stessi concetti già espressi in precedenza), ma che, allo stesso tempo, sono lavori davvero belli, lavori che se li avessi conosciuti prima sicuramente sarebbero stati citati nei post in questione.

Non sono dischi necessariamente pubblicati nel 2018, ma dischi che ho ascoltato e approfondito in questo anno solare che ci stiamo per lasciare alle spalle.


Iniziamo con un classico di queste parti: Enzo Avitabile (di lui vi ho parlato diffusamente qua e qua) che, con il suo “Lotto infinito” (2016) realizza l’ennesimo disco ricco di sostanza e musicalità. Forse non il suo più ispirato, ma certamente un disco molto al di sopra della media della roba che circola in giro. Come di consueto per lui, anche questa volta ricco parterre di ospiti tra i quali spiccano Francesco De Gregori, Elena Ledda, Paolo Fresu e l’immortale Giovanna Marini.

Altro abitué del mio blog è Arturo Stalteri. Negli ultimi anni ha preso a fare dischi con grande regolarità. Il suo recente “Low and loud” (2017) è un disco tipicamente suo: pianocentrico, caratterizzate dalle consuete composizioni ispirate, a metà tra Chopin e Mertens, e con la novità di alcune tracce dedicate agli amori musicali di Stalteri (i Rolling Stones, Bach, Pachelbel) e un omaggio a Rino Gaetano del quale Stalteri fu compagno di avventure alla It records.

Di Maurizio Bianchi vi ho parlato spesso (in particolare qui e qui), ma è davvero incredibile come nei suoi dischi, e ne ha fatti tantissimi, molti di più di quanti possiate immaginarne, ci sia sempre una idea di fondo forte e robusta, una necessità di pubblicazione che bussa forte dai solchi. Non fa eccezione “Ludium” (2009), stranissimo lavoro fatto a partire dai suoni di un pianoforte. Disco anomalo per lui, ma più che meritevole di (ripetuti) ascolti. E’ davvero un grande (relativamente) misconosciuto.

Le più recenti stagioni discografiche si sono segnalate per recuperi di materiale anche molto datato, ma attuale, forse, più oggi che allora.

Tra queste produzioni devo segnalarvi il bellissimo “Evoluzione interiore” (2018) di Juri Camisasca, registrato dal vivo a fine anni ’70, sorta di bootleg ufficiale di una bellezza inaudita. Un Camisasca lontano dalla forma canzone e catturato dall’amore per il suono, per la sua essenza più pura. Una performance eccellente che oscura moltissimi materiali prodotti, con molte più ambizioni, al giorno d’oggi.

Altra performance risalente ad un lontano passato è quella presente all’interno di “Drumming” (2018, riedizione di un disco pubblicato nel 1971 in pochissimi esemplari). Brano celeberrimo di Steve Reich, esecuzione meravigliosa con a suonare, tra gli altri, Jay Clayton, Jon Gibson, Joan La Barbara, Steve Chambers. Disco obbligatorio sia per chi già conosce quest’opera sia per chi non la dovesse conoscere (conosciatela !).

Non manca mai in questi “Bis” di fine anno Brian Eno che con il suo “Music for installations” (2018, 6 CD) raccoglie alcune sue musiche, come da titolo, per installazioni varie realizzate in un passato recente e meno recente. Questa pubblicazione va a smentire quanto scrissi qui, ma ben vengano questi cambiamenti di opinione quando il risultato è la circolazione di materiali di così buona qualità (in particolare “I dormienti“, “Atmospheric lightness” e “Kazakhstan“). Speriamo realizzi ancora box come questo (volendo ci sarebbero i presupposti).

Una grande sorpresa all’ascolto è stato invece “We could for hours” (2008) di Fabio Orsi e Valerio Cosi. Del primo vi avevo già parlato, con toni entusiasti, in questo post e in un bis precedente, ma questo disco, preso quasi per caso, non posso non elogiarlo. Drone music per, soprattutto, organo, sax ed elettroniche varie, in splendido equilibrio tra certo minimalismo sacro (Palestine, Gibson e Riley), il Battiato di “M.elle le Gladiator” e qualcosa di Stephen Scott. Musiche eternamente ascendenti nelle quali ci si perde con grande gusto.

Anche dei Radiodervish ho parlato spesso, il loro “Il sangre e il sal” (2018) conferma la loro cifra stilistica che ormai ha raggiunto la piena maturità. E se manca l’effetto sorpresa (le canzoni sono proprio come ci aspettiamo che debbano suonare) in compenso la vena compositiva è molto fresca e vivace e nel disco scorrono diversi brani tra i migliori della loro produzione. “Time for a coffee” e “Nuovi schiavi” sono i pezzi più coinvolgenti, ma tutto il disco conferma la bravura di un gruppo la cui lontananza dai riflettori del mainstream risulta sempre più inesplicabile.

Concludiamo con un pezzo di storia della musica. Karlheinz Stockhausen.
Normalmente si parla dei suoi brani storici, giustamenti considerati importanti e riusciti. Mi è capitato però di ascoltare questo relativamente recente “Elektronische musik mit tonszenen vom Freitag aus Licht” (1996), realizzato nella prima metà degli anni ’90, ed è un disco di musica elettronica non solo bello, ma molto sorprendente e terribilmente “avanti“. Il modo in cui Stockhausen gioca con i suoni, li modifica, li sposta nello spazio, è qualcosa di molto particolare capace di essere nuovo senza risultare indigesto. Considerate questo come un invito, a voi e a me stesso, ad approfondire le musiche composte da lui negli ultimi 15-20 anni della sua vita, è probabile che al loro interno ci siano delle perle rimaste immeritatamente nascoste.

Detto questo non resta che augurarvi

Buon Anno a tutti

 

5 concerti che ho visto nel 2018

  • Nel cielo di Indra Roma, 3 febbraio
  • Lino “Capra” VaccinaRoma, 13 maggio
  • Wolfgang Amadeus Mozart “Le nozze di Figaro”Roma, 7 novembre
  • Claudio Monteverdi “L’incoronazione di Poppea”Berlino, 8 luglio
  • Alvaro Fella e Dario GuidottiRoma, 27 settembre

5 concerti che ho visto nel 2017

  • Lino Capra Vaccina Roma, 28 gennaio
  • Lyke WakeRoma, 23 novembre
  • Il muro del cantoRoma, 10 agosto
  • KraftwerkPerugia, 7 luglio
  • Juri Camisasca e Rosario Di Bella – Roma, 9 gennaio

 

MAURIZIO BIANCHI (M.B.) “Pharmelodies”, 2012, Silentes minimal edition

Di Maurizio Bianchi (meglio noto universalmente come M.B.), della sua sterminata produzione, conosco quasi esclusivamente lavori del suo primo, pioneristico, periodo (chiusosi nel 1985 con il suo primo, lungo, abbandono dalle scene musicali). Ve ne parlai in questo post.
Solo nel 1998 tornò a pubblicare musica e, di questa seconda fase, conosco pochissime cose.

Quasi casualmente mi è capitato tra le mani questo CD, pubblicato nel 2012, ma i cui materiali dovrebbero risalire proprio al periodo di assenza dalle scene del nostro (nelle note lo definisce “hiatus period“). L’ho preso cogliendo al volo una opportunità economica allettante (un forte sconto, per dirla sinteticamente) e ne sono rimasto molto colpito.

Costituito da 3 lunghi brani (tutti intorno ai 20 minuti abbondanti) è qualcosa di molto più morbido rispetto ai suoni industrial a me tanto cari, ma allo stesso tempo qualcosa di straordinariamente conturbante.

Nelle (come al solito) scarse note l’autore parla di “theocratic suites” (?) rielaborate con l’assistenza di Pharmakustik. Quello che a me pare di sentire è una sorta di musica ectoplasmatica, che sembra derivare direttamente da qualcosa di cui ci trasmette solo una presenza fantasmatica e lontana.

Immaginate dei lavori di musica classica (Richard Strauss ? Debussy ?) filtrati attraverso delle apparecchiature che ne colgano certe frequenze, enfatizzandole al massimo e portandole in evidenza, celandone allo stesso tempo tutte le altre. Quello che ascolterete saranno da un lato i suoni familiari dell’orchestra, ma resi lontani, quasi inaudibili, spesso affogati in un liquido amniotico che li attutisce e deforma, e dall’altro, in primissimo piano, dei suoni apparentemente estranei ma che invece probabilmente sono collegati agli altri più di quanto sembri.

Pharmelody I” ha toni più metallici, stridori intensi che si sovrappongono al fantasma dell’orchestra e di un pianoforte. “Pharmelody II” invece si caratterizza per frequenze che sembrano provenire da certe tastiere dei primi ’70, questa sezione deve qualcosa a “Zeit” dei Tangerine dream, e da disturbi radiofonici che creano un gorgo sonoro che tutto acchiappa e tutto fa lentamente sprofondare dentro sé.
L’ultimo brano, “Pharmelody III“, si muove su coordinate ancora più lente, più lugubri, più profonde. Toni cupi e abissali che evocano circolari e spaventose discese nel profondo del pianeta, sempre con questa presenza spettrale dell’orchestra che cerca di chiamarci da un’altra epoca, da un’altra occulta dimensione (lo definirei, se mi viene consentito, un brano molto lovecraftiano).

Un lavoro ammaliante e ipnotizzante, capace di cullarci con suoni che dovrebbero invece avere tutt’altro effetto. E un applauso alla piccola ma combattiva Silentes il cui catalogo meriterebbe attenzione da parte di tutti gli appassionati della musica d’avanguardia (o sperimentale, o chiamatela come vi pare).

Un autore che è estremamente vivo, ben oltre le frontiere del rumore.

p.s. Un punto di penalizzazione per la confezione, esageratamente spartana, della quale capisco il senso (non solo economico), ma che risulta troppo scomoda (il CD è in una bustina trasparente contenuta in un “packaging” che consiste solamente in un foglio in cartoncino leggero piegato in due, il tutto avvolto in una bustina di plastica leggerissima con una dannata chiusura adesiva che rischia sempre di rovinare la copertina vera e propria).

DRAHOMIRA SONG ORCHESTRA “Strange baltic laboratoire”, Institut Drahomira, 1998

E’ un’esperienza sempre straordinariamente piacevole imbattersi per puro caso in artisti sconosciuti che si rivelano essere molto di più di quello che (non) si immaginava.Mi è successo con questo duo (?) francese (?) che si fa chiamare Drahomira Song Orchestra (e che si nasconde dietro le insegne di un fantomatico Institut Drahomira che si occuperebbe di stabilire un legame tra quell’Europa che una volta era oltre cortina e le nazioni cosiddette occidentali) e nel quale sono inciampato solo per il curioso nome di un loro lavoro e dei quali non sapevo assolutamente nulla (e in realtà anche adesso non è che sappia granché di loro).Spinto da una curiosità che normalmente non ho sono andato nella sezione del loro sito nella quale è possibile ascoltare degli assaggi dei loro molti lavori e ne sono rimasto piacevolmente colpito. In particolare vi voglio segnalare questo CD che raccoglie 16 brani probabilmente pubblicati in precedenza in una delle loro tante audiocassette ufficiali (dovrebbe anche far parte di una cofana di CD-r autoprodotta in poche copie contenente le edizioni digitali di una ampia selezione delle cassette fatte dal duo in precedenza).
Sono tutti piccoli bozzetti surrealisti che uniscono materiali sonori di provenienza sconosciuta, ma ipotizzabile (registrazioni di musica classica, dialoghi cinematografico-televisivi, frammenti di dubbia origine, rumori assortiti), in maniera assolutamente naturale e straordinariamente evocativa e fascinosa.Non sono un gruppo particolarmente innovativo. L’idea di mettere in loop frammenti sonori provenienti da svariate fonti, sovrapporre tra loro questi loop, aggiungerci qualche materiale originale (una base ritmica, qualche strumento suonato ad hoc…) e ottenere così qualcosa di curiosamente piacevole e stimolante non è affatto originale, ma in musica conta anche moltissimo la sensibilità con la quale le cose si fanno e la capacità strettamente compositiva di saper ben scegliere i materiali che si vogliono usare. E in questo disco i nostri sono maestri di ciò e sfiorano la perfezione.
Va anche detto che in un altro dei (pochi) loro lavori che sono riuscito ad ascoltare il miracolo non si ripete: in “The return of 120 magicians” la formula vira verso l’uso di materiali molto rumorosi e/o molto distorti e così perde gran parte della magia di questo strano laboratorio baltico.

Tutti i brani si muovono su coordinate simili, ma alcuni raggiungono vette di vera e propria eccellenza nell’assemblare i materiali di base: è il caso dell’iniziale “Gymnastik nocturne” (accordi di piano, voce proveniente forse da qualche rara registrazione di musica etnica ad accennare una melodia arcana su di una ritmica ossessiva, ai quali poi si aggiunge una voce femminile annoiata ed un frammento di violoncello campionato), “Came out of the earth” (accordi di orchestra leggermente distorti, tipo Battiato in “Meccanica“, sul quale recita una voce alla William Burroughs, emergono lentamente tutta una serie di disturbi che pian piano prendono il sopravvento per poi improvvisamente sparire mentre su tutto domina una grassa battuta ritmica), “Liechtenstein” (loop basato su di un breve cluster di pianoforte su sottofondo di sfrigolìo vinilico sul quale si inseriscono delle voci umane come in uno strano rituale collettivo e, in un secondo tempo, una voce femminile recitante in francese in un lento crescendo di confusione e caos), “Chainsodrome” (stranissimo, ma intrigante, ritmo costruito sui rumori di motori a scoppio al quale si aggiungono delle armonie ampie e una voce cavernosa in reverse), la conclusiva, e bellissima, “Balneodramatica” (ancora un loop fondato su brevi frammenti di piano, archi e, forse arpa, sul quale si sedimentano dei rumori di misteriosi fruscìi, una voce radiofonica in lontananza e una struggente voce di donna che ripete all’infinito la parola “allô!” alla ricerca, chissà, di qualche sopravvissuto).

Particolarmente disturbanti (e quindi efficaci) “Commodore vermillon” e “Hikari“, brani che entrambi utilizzano intensissime urla di donna, recuperate forse da qualche horror di serie B, mettendole in loop molto stretti e unendole a toni marziali e angoscianti (il primo) o a noise low-fi sovrapposto a lenti suoni orchestrali ricchi di wow & flutter (il secondo).

Inutile che cerchiate questo lavoro nei negozi, vi conviene scovarlo in qualcuno di quei (fortunatamente) tanti blog dai quali si possono scaricare musiche di nicchia o iper-nicchia pressochè introvabili (vi ricordate ? ne parlammo qui)
oppure divertitevi ad esplorare il loro bel sito (anche se fermo a parecchi mesi fa…)
http://www.institutdrahomira.com/

o il loro myspace
http://www.myspace.com/drahomirasongorchestra

Semplicemente deliziosi.

M.B. “Armaghedon”, 1984, EE’sT records

Di M.B. (il più celebre alias di Maurizio Bianchi) avevo ascoltato davvero poche cose. Qualche brano su raccolte in audiocassetta, e questo “Armaghedon“, comprato in vinile molti anni fa e del quale serbavo un ottimo ricordo pur non avendolo più ascoltato da molti anni a causa della mia oramai conclamata idiosincrasia per il giradischi ed il vinile.
Recentemente, girovagando nello sfiziosissimo catalogo on-line di SOUNDOHM/Die Schachtel, ho notato l’edizione in digitale di questo lavoro e dati gli ottimi prezzi dei ragazzi che gestiscono il sito e l’assenza di spese di spedizione per l’Italia non ho resistito alla tentazione e, nonostante i ricordi appannati, l’ho ordinato.

Maurizio Bianchi è forse il nome italiano più importante legato a quell’incredibile fenomeno musicale che fu la musica industrial esploso con vigore dalla fine degli anni ’70 fino alla metà degli anni ’80 per poi mutare ulteriormente forma ed abbandonare le barricate più estreme. Era una musica realizzata con materiali di scarto, nastri più o meno manipolati, suoni sporchi, quasi sempre colonna sonora per un mondo in putrefazione. Qualcuno definì M.B. un “cesellatore del rumore bianco“, ma io ricordavo una musica molto corposa e ricca di suggestioni.
Ho inserito il cd nel lettore con la paura di rimanere deluso da una musica che, forse, oggi è meno nelle mie corde di quanto potesse essere 20 (e rotti) anni fa e invece, con mia grande gioia, ho riscoperto un assoluto capolavoro.

Il disco si compone di 2 lunghi brani senza titolo di oltre 23 minuti che partono d’improvviso e muoiono altrettanto improvvisamente. Non è dato sapere quali siano stati i materiali utilizzati da Bianchi (field recordings ? frammenti di dischi/nastri più o meno oscuri ? registrazioni radio-televisive ? materiali realizzati ex-novo da lui stesso ?), lui li prende, li spappola e poi li ricompone (con dovizia di effetti speciali, soprattutto echi, delay e roba simile) in un continuum che, a differenza di quello che potreste aspettarvi da ciò che ho appena scritto, suona affascinante e avvolgente.
Si ascolta uno streaming ininterrotto e dilatatissimo dove nel magma di suoni che arrivano all’orecchio non si riconosce una testa o una coda, una struttura o un’evoluzione, ma un unico fluire nel quale le armonie che ogni tanto appaiono, i suoni riconoscibili che ogni tanto emergono, le rare percussioni che riescono a venire in superficie, subito dopo ripiombano nelle profondità di questo mare magnum pieno di mucillaggine e vagamente amniotico che lascia l’ascoltatore attonito e, grazie alla squisita sensibilità musicale di M.B., piacevolmente travolto.

Nella prima parte ascoltiamo una sorta di industrial-ambient tutt’altro che rilassante ma nella quale naufragar è assai dolce, dove echi spacey sembrano rimandarci ai corrieri cosmici o a suggestioni interplanetarie degne dei migliori b-movie degli anni ’50 e ’60.
Nella seconda invece compaiono anche voci umane (o gli ectoplasmi che ne restano dopo i trattamenti fatti dall’autore) e l’atmosfera si sposta verso lidi più apocalittici e più tradizionalmente industriali con l’utilizzo anche di percussioni e una vaga battuta di basso che con regolarità scandisce il passare del tempo. C’è una esposizione dei materiali generalmente con minori filtri e maggiore immediatezza dei suoni (qua e la sembra di riconoscere frammenti di brani di musica classica adeguatamente distorti), il tutto a sommergere l’ascoltatore martellandolo senza tregua e accompagnandolo in un mondo dove gli si manifestano alcuni dei peggiori fantasmi che assillano la razza umana (ma lo voglio ribadire: l’esperienza è intensa quanto necessaria, vitale quanto angosciante).

Che ci crediate o no (e che mi sia spiegato o meno) questo è un lavoro entusiasmante di un artista che il mondo (o almeno una parte di esso) ci invidia.

MUTANT SOUNDS

C’è un interessante e voluminoso fenomeno di scambio e condivisione di file musicali su Internet che ancora non è entrato nell’occhio del ciclone dei mass-media (e delle grandi corporation della musica) passando finora abbastanza inosservato.
E’ un fenomeno tecnologicamente arretrato rispetto agli scambi peer-to-peer che avvengono tramite Emule o BitTorrent (e quindi, teoricamente, più facile da bloccare per i paladini del diritto d’autore) ma ciò nonostante in grande crescita. E’ l’unione creativa tra gli ormai classici blog e quelle piattaforme (tipo RapidShare) che permettono di caricare grossi file di dati consentendone poi, a chi conosce l’indirizzo giusto, lo scarico a pagamento (in totale libertà) o gratuito (con alcune limitazioni, generalmente permettendo lo scarico a non più di un file al giorno).
In buona sostanza trattasi di normali blog nei quali, in linea di massima, ogni post è dedicato ad un album musicale (come nel blog che state leggendo), spesso con informazioni e foto delle copertine (si, ancora come questo…) ma che contengono anche un link dal quale si può scaricare direttamente l’intero lavoro (attraverso procedure che, va detto, a volte sono, se non complesse, perlomeno confuse).

La cosa sfiziosa è che normalmente questi blog sono dedicati a musiche e musicisti di nicchia da tempo ormai abbandonati dall’industria della musica, spessissimo contengono LP (ma anche singoletti o addirittura audiocassette) digitalizzati amatorialmente, ma con attenzione e cura e generalmente di buona qualità.
Si va, per quella che è la mia esperienza, attraverso cose diversissime, da blog dedicati al recupero di dimenticati dischi cileni di cantautorato folk degli anni ’50 e ’60 (do you know Rolando Alarcon ?), a quelli dove si approfondiscono oscure private pressing di industrial anni ’80, passando per tutti i sottogeneri che potete provare ad immaginare. Strano a dirsi ma non mi sono mai imbattuto in blog dedicati a musica mainstream, anche se questo potrebbe essere successo a causa dei miei gusti personali.

Da un punto di vista socio-antropologico è interessante notare come, spontaneamente e senza alcuno scopo di lucro, persone diverse in luoghi diversi si siano messe a riversare in digitale i propri polverosi vinili e le loro cigolanti audiocassette e abbiano deciso di condividere con altri appassionati musiche che altrimenti sarebbero di impossibile reperibilità per le nuove generazioni, che mai le hanno viste nei negozi, come per i più anziani che magari non hanno neanche più il giradischi.
Tra queste musiche, inutile dirlo, molte cose interessanti e di ottima qualità che l’industria non si sogna neanche di recuperare (a volte ci provano etichette piccoline, ma l’universo musicale è così vasto che non hanno certo la forza economica per ristampare così tanto materiale).
Non è banale trovare questi blog, io ogni tanto ci inciampo per caso, ma se ne trovate uno che fa al caso vostro è probabile che tra i link indicherà altri blog-fratelli contenenti materiale più o meno analogo e altrettanto interessante e così, di fiore in fiore, rischiate di perdervi nell’incantesimo e non uscirne più (felicemente, of course).

Tra quelli che ho incrociato vi segnalo questo “Mutant sounds
http://mutant-sounds.blogspot.com/
per diverse ragioni.

Innanzitutto perché contiene la bellezza di quasi 2000 album (e continuano ad aggiungerne altri), poi perché al suo interno troverete moltissime cose interessanti all’interno di un’area musicale piuttosto ampia (un fritto misto di avanguardie non ortodosse e sperimentalismo non colto post-wave) che va da figure (relativamente) celebrate come La Monte Young, Fred Frith, Prima Materia, AMM, Musica Elettronica Viva, Francesco Messina, Pascal Comelade o Christina Kubisch, ai dischi della collana DIVerso della storica Cramps, prosegue con alcuni lavori difficilmente reperibili dei Throbbling gristle ed altri temibili noisers dell’epoca, fino a lavori di gruppi oscuri ma comunque con un certo seguito (come i miei amati F:A.R. o Roberto Donnini) o a dischi che hanno avuto una ultra-limitatissima diffusione come l’LP del romano Collettivo Haim (stampato in meno di 100 copie e ora inopinatamente sorto a nuova gloria nei meandri della rete a 20 anni dall’incisione, quando lo pensavamo ormai condannato all’oblio).

Non mancano poi chicche di progressive italico (dagli Jacula al Duello madre), qualcosa di krautrock e altri sottogeneri apprezzati dagli autori del blog (che credo siano dei ragazzi greci).
Insomma un mare di musica curiosa e orgogliosamente minore (sia chiaro, della maggioranza di questi dischi non so praticamente nulla) dove non è difficile trovare anche composizioni di ottima qualità. A voi il piacere della scoperta.

Mi fa piacere sottolineare lo spirito profondamente no-profit dell’iniziativa e la immediata disponibilità dei gestori del sito a togliere i link a dischi che dovessero tornare in catalogo (e in questo modo il blog diventa anche una sorta di stimolo alla ristampa di materiali che dimostrano di avere un manipolo di agguerriti cultori)

E il diritto d’autore resta (fortunatamente) a guardare.

F:A.R. “Final alternative relation”, 1983, Technological feeling

Continuando nell’opera di digitalizzazione amatoriale delle audiocassette accumulate in gioventù, mi sono ritrovato a (ri)ascoltare alcune produzioni dei F:A.R. (la creatura polimorfa creata e guidata da Mauro Guazzotti, meglio noto come MGZ) che negli anni ’80 uscirono solo in questo formato ormai sorpassato.
I F:A.R. erano parte attiva di quella florida e vivacissima scena industrial-rumorista che, a partire dai Throbbing Gristle, dilagò nell’underground mondiale, compreso quello italiano. Tantissimi giovanotti e giovanotte si misero a lavorare con pochissimi mezzi, senza alcuna pretesa di fare lavori che suonassero “bene“, e senza paura delle impurità e dei limiti tecnici di un supporto come l’audiocassetta (che aveva l’enorme pregio di essere economico e facilmente incidibile e duplicabile da chiunque, esattamente come oggi i CD-r). Incominciarono quindi a circolare decine di cassettine di alterno valore e, per quanto la scena fosse piccola e lontanissima dai mass-media, furono molti i musicisti (e i non-musicisti, come sottolineerebbe Brian Eno) che ebbero l’occasione, attraverso circuiti non ortodossi e fortemente spontanei, di far sentire le loro cose a chi ne era interessato.

Conobbi i F:A.R. prima attraverso i loro vinili (“Da consumar con grazia“, ma, soprattutto, il bellissimo e profetico “Presto i topi verrano a cercarci“, disco che, quando diventerò ricco e fonderò la mia casa discografica personale, certamente ristamperò) e fui curioso di sentire i loro altri lavori. Scrivendo direttamente a Mauro, ovvero alla sua pseudo-etichetta personale di allora, la Technological feeling, mi arrivarono a casa queste splendide cassette: oltre a quella che da il titolo a questo post c’erano la acerba e ancora rock-orientedDuello sul cervello“, “Frammenti“, “Lust” (l’unica ad essere distribuita e prodotta da un’etichetta, relativamente, conosciuta come la storica ADN) e “Affection” il suo esordio solista attribuito alla sigla MGZ (sigla che anni dopo gli darà qualche piccolissima soddisfazione commerciale).

A riaverle tra le mani oggi fanno tenerezza queste copertine fatte con la fotocopiatrice e la macchina da scrivere, curatissime e allo stesso tempo grezze, estremamente efficaci e adatte alla musica che contenevano e allo stesso tempo frutto nobile e diretto dei limiti tecnici ed economici delle autoproduzioni di allora. Discorso analogo per la qualità delle incisioni, spesso iper-casalinghe, piene di distorsioni, fruscii, montaggi fatti con l’accetta e l’approssimazione di un artigiano neanche troppo esperto. Ma questa bassa qualità aggiungeva energia a produzioni che rifuggivano i suoni da audiofili come la peste privilegiando l’espressività e il calore di suoni concreti (un po’ come le immagini graffiate dei film neorealisti rispetto alle patinate produzioni hollywoodiane).
L’ascolto riserva ancora oggi delle sorprese. Innanzitutto, data la maggiore esperienza sviluppata in questi anni, riesco a cogliere molti più riferimenti musicali (oltre a quelli, scontati, verso i padri di questa corrente musicale): dai Tuxedomoon al Battiato di “Clic“, dal krautrock di Faust e Neu! a certa new wave brutta sporca e cattiva (e decadente) fino al rock fai-da-te genialmente dilettante dei primi Einsturzende Neubauten.
Nelle varie cassette si alternano: collage più o meno rumorosi dove si fa incetta di quelli che oggi si chiamerebbero campionamenti e all’epoca erano invece faticose selezioni da nastri e registrazioni rimediate chissà come (spesso dalle trasmissioni radio in onde medie e corte), canzoni ossessive su basi ritmiche semplicissime, violente e marziali progressioni su ritmi pesanti, lugubri atmosfere di paura e panico ma anche mood tristi e quasi bucolici, divertiti pastiche con vocine accelerate, ma anche grida belluine, gemiti di donna, lamenti provenienti da oscure segrete e tutto quanto si adattava alle atmosfere del gruppo, in più, naturalmente, quantità smodate di rumori, fischi e suoni fastidiosi che, come la scena imponeva, si facevano musica e venivano modulati ad hoc dagli artisti (e, sia chiaro, l’ascolto è tutt’altro che sgradevole).

C’è parecchia eterogeneità nelle scelte musicali di Guazzotti, ed il vero trait d’union tra i brani è il suo spirito apocalittico, ma follemente ironico, che lo caratterizza da sempre, il suo riciclare continuamente i medesimi materiali (a cui forse teneva particolarmente) che ritroviamo trasversalmente in tutta la sua opera, e il suo personalissimo sound sempre accompagnato da tonnellate di distorsioni e disturbi. A differenza di altri colleghi non eccederà mai in tematiche oscuro-esoteriche o iper-decadenti, ma rimarrà sempre fedele ad uno stile più aperto e (relativamente) solare.

Tra tutte le cassette “Final alternative relation” è quella che più mi convince per il perfetto equilibrio tra reminiscenze rockettare e curiosità industrial. La cupa e solenne “Intro“, le ossessive e disturbate pulsazioni di “Voice of industry” e di “Figure (live)“, fitte di urla, sirene, esplosioni e tutto l’armamentario rumoroso tipico di Guazzotti, convivono tranquillamente con la dark-wave elettrificata post-Trio (ve li ricordate ? Da, da, da…) di “Lights in the deep” e della spasmodica ed essenzialmente punk “Trybal dance” così come con la depressissima “No future” (premio dell’anno per la canzone dal titolo più originale).
Non mancano alcune elucubrazioni free-form non troppo riuscite, (“Against reason“), gli ossessivi, ma efficaci, pseudo-cori para-infernali malati e dilaniati di “Violence“, le ascendenze germaniche della conclusiva “Final relation“, strano ibrido tra i Neu! più sporchi e gli Einsturzende Neubauten degli esordi.

Ma la cosa più incredibile che mi viene da pensare ascoltando questa musica è notare, con immensa nostalgia, come l’AbulQasim poco più che ventenne avesse tempo ed energia non solo per scoprire nuovi mondi musicali, ma anche per seguire approfonditamente, da vicino e con piacere, scene mediaticamente quasi inesistenti. Ormai, purtroppo, fatico anche a seguire SOLAMENTE gli artisti che, bene o male, conosco da tempo e mi è diventato estremamente difficile lasciarmi andare alla corrente turbinosa delle novità e, forse, questo è davvero un serio sintomo di invecchiamento.

Bei tempi.

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