LAVERNA (terza parte)

Altra cinquina di lavori pubblicati dalla nostra prediletta net-label Laverna (le precedenti le trovate qui e qua).

Partiamo con “A long white sleep” di Leonardo Rosado. Quattro brani per 20 minuti caratterizzati da estrema brumosità, un’elettronica fosca e glaciale per niente rassicurante, ma molto affascinante.
Come spesso accade in questo tipo di musiche dietro un apparente immobilità c’è invece un intero universo di continui microcambiamenti che rendono l’ascolto interessante e coinvolgente. Più estatica l’iniziale “Variation in white n.1“, più rumorosa “Variation in white n.2“, più letargica “Variation in white n.3” (forse la traccia più convincente, come un guardarsi attorno di chi riesce a cogliere nel profondo l’essenza della natura), più vicina a certe atmosfere eno-ane (“On land“) la conclusiva “Variation in white n.4“.
Una musica capace di grande suggestione.

Anacleto Vitolo, qui con lo pseudonimo di AV-K, presenta nel suo “A centripetal fugue” oltre mezzora di suoni elettronici di squisita fattura e discreta varietà. “290513“, dark-ambient molto sporca e lacerata, introduce perfettamente questo rigoroso lavoro, segue il brano scelto per intitolare il disco, che profuma dei primi Kraftwerk, o dei primi Cluster, con suoni elettronici (che sembrano) analogici molto ben modulati, squisita descrizione di un sereno panorama post-industriale. Si prosegue poi con le vibrazioni ricche di disturbi, rumorini e pulsazioni di “Amniotico” (vagamente alla Biosphere), con “Frefall in slow motion“, immobile e celestiale, “Anxiety” e “S-FLM” , dai bassi profondi e lo sguardo dentro l’abisso. Si conclude l’ascolto con la ventosa “Rising“, le cui aperture mi ricordano certi momenti del Battiato di “Genesi” (ma mooooolto più dilatati).

Posthumous innocence” di Item Caligo  (al secolo Sergey Epifanov) è un ottimo lavoro tutto incentrato sul pianoforte e un clima malinconico-depresso. Quattro brani per circa mezzora a iniziare dai toni cimiteriali dell’ottimo “Faded before blossom” (poche note di pianoforte ripetute, con le dovute variazioni, con intristita insistenza tra azzeccati e, giustamente, contrastanti field recordings). Stessa atmosfera anche per “Stained” (ma con un pianoforte più leggero, rumori di passi, sguardo ora leggermente alzato verso il cielo), mentre “Rest in apathy part 3” torna su toni particolarmente plumbei (e qui la ripetizione del pianoforte si fa molto minimalista oltre che funerea). La conclusiva “Rest in apathy part 4” prosegue seguendo la formula delle tracce precedenti ma è quella che forse suona più solare: pianoforte molto ripetitivo, rumori d’ambiente e un pizzichino di elettronica vengono messi al servizio di un sentimento meno angosciato e libero di mostrarsi. Un lavoro delizioso.

Proseguiamo con il lunghissimo (abbondantemente oltre l’ora) “A distant veil” firmato da Orrorin Daydream, misterioso progetto belga il cui unico componente ci delizia con una dark-ambient sporca e nebbiosa in bilico tra certo Biosphere e certo industrial ritual-dronante. Particolarmente affascinanti le due lunghe composizioni che aprono e chiudono il disco: “A bestiary” (11 minuti di ipnotica risacca elettronica) e “Some words” (17 minuti di continuo e sommesso ringhio elettronico intarsiato da rumori angoscianti, un lento frustrante crepuscolo verso il nulla) insieme agli 8 minuti di “A somnolence” (moribund chorus e andamento lentissimo, vagamente vicino al finale di “Pollution“).

Concludiamo con “The summer of love” che sarebbe già di suo un buon lavoro di elettronica immobile e gelida realizzato da Marco Lucchi. Tre tracce per la solita mezzoretta scarsa di musica.
Spicca per contenere al suo interno un pezzo semplicemente bellissimo. Intitolato “Electric Eden” è caratterizzato da fortissimi, ma raffinati quanto espliciti, riferimenti al Battiato 1974-1975, e in particolare alla canzone “No U turn“. Chi ha amato quel Battiato e quella canzone non potrà non apprezzare questi quasi 9 minuti di omaggio realizzati trovando un prodigioso equilibrio tra citazionismo e scrittura compositiva, desiderio di manifestare l’amore per certa musica e trascenderla.

Per ora ci fermiamo, ma state tranquilli, to be continued 🙂


Chi fosse curioso di queste musiche e desideroso di verificare quanto scritto sopra, può farlo agevolmente utilizzando i link che trovate qui sotto.

Leonardo Rosado
AV-K
Item Caligo
Orrorin Daydream
Marco Lucchi

MEG “Distante”, 2008, Multiformis

Capita abbastanza spesso che, dopo avervi parlato di un determinato disco di un certo artista, io ascolti un altro suo album e lo trovi sostanzialmente analogo al precedente. Ugualmente bello.
Non reputo però utile scrivere un ulteriore articolo per la semplice ragione che dovrei sostanzialmente ripetere i medesimi concetti. Ciò non toglie però che anche questi altri dischi meriterebbero un post e che, anche se non ne parlo, il mio giudizio in merito sia largamente positivo.

E’ il caso, ad esempio, del secondo album solista di Meg, “Psychodelice“, che conferma ampiamente le belle parole spese da me per il suo omonimo esordio.

In questo secondo lavoro spicca la collaborazione, riconoscibilissima, con Stefano Stylophonic Fontana le cui macchine arrotondano alcuni degli spigoli dell’elettronica tipica della cantante e musicista partenopea.
Un esempio è questo ottimo brano impreziosito da un bel video che, come piace a me, ormai lo sapete, ben sviluppa una idea semplice, ma efficace.

Lo dedico ai miei lettori e alle mie lettrici che amano il rosa.

LAVERNA (seconda parte)

Seconda cinquina di album/EP prodotti dalla netlabel electro-friendly Laverna (la prima parte la trovate qua).

cecchinatoPartiamo con “Pulsar evenings“, lavoro di media durata (46 minuti) di Manuel Cecchinato Posadas. Cinque lunghi deliziosi brani che vanno dalle atmosfere quartomondiste di “Pulsar evening 1” (con la tromba di Daniele Goldoni a ricamare, con l’aiuto del pianoforte, sopra una base elettronica dal beat insistito), al Milesi in progressione di “Pulsar evening 2” (basato su una minimale frase di pianoforte intorno alla quale l’elettronica disturba e innerva, con gran classe), fino al minimalismo vagamente alla Palestine di “Pulsar evening 4” (pianoforte rapido e ossessivo che si intreccia benissimo con una elettronica glitch e una ritmica frammentata) in quello che è forse il pezzo più originale del lotto.
Un lavoro interessante e prezioso

stellapolanskyGhost window” di Stella Polansky (5 tracce per una mezzoretta di musica) è un lavoro con forti reminiscenze ambient ma molto aggrappato al nuovo millennio. L’iniziale “Freste klep” si apre con una nebbia e una malinconia molto basinskiana alla quale però si aggiunge una chitarra acustica a portare un po’ di sole. Seguono gli altri brani che si muovono su coordinate analoghe con particolare attenzione per il lungo “Floating boat” caratterizzato da un delicato vento elettronico che sembra esplorare gli spazi intorno a noi (e a lui) dai quali emergono radi suoni concreti (ma nessuna parvenza di vita, salvo la solita chitarra nel finale) e la conclusiva “In winter’s bones” dall’elettronica glaciale e le atmosfere (uniche a presentare anche delle voci umane) degne del miglior Biosphere (e a casa mia questo è un gran complimento).

bingsatellitesHigh fidelity” di Bing Satellites (3 tracce per poco meno di mezzora) si muove su coordinate a metà tra l’ambient-quartomondista e i corrieri cosmici. Si apre con “High fidelity“, un brano che distilla il meglio dei Tangerine dream periodo post-Phaedra con morbide percussioni a dare ritmo a suoni elettronici vagamente space caratterizzati da una interessante ascesa verso l’armonia. Senza una reale interruzione il brano sfocia in “Caterpillar dance” che pare essere una versione più rallentata e atmosferica del brano precedente. Chiude il lavoro “Space between your ears“, il più ambient del lotto, dove spariscono le percussioni tribaloidi e si entra in una dimensione vagamente mistica, piena di good vibrations ed echi di certe cerimonie tibetane. Globalmente un lavoro di sostanza che magari non stupisce con effetti speciali, ma si lascia ascoltare con grande soddisfazione.

haloXVIThe dreaming E.P.” di Halo XVI (anche in questo caso il lavoro si estende per la solita mezzora, per 5 tracce di varia lunghezza) è ambient purissima, solo venata da qualche oscurità, dotata di interessanti sviluppi all’interno dei suoi brani (una sorta di immobilità in divenire tutt’altro che scontata). Lo si avverte nelle note di pianoforte nell’iniziale “A different afternoon“, ben inzuppate in suoni elettronici, nelle tastiere soffuse e nei vocalizzi della deliziosa “Lost evenings” (con echi dei Cluster più morbidi), nella lunga “Night moves” dagli echi west-coastiani (nel senso della scuola ambient cresciuta in California negli anni ’80 intorno alla figura di Steve Roach).

roomsdelayedChiudiamo questo secondo post dedicato alla Laverna con “Flickering traces“, lavoro accreditato a Rooms delayed (progetto che fa capo a Vincenzo Nazzaro), che si sviluppa attraverso 5 tracce che compongono (la solita) mezzora di ambient classicissima realizzata a partire da una chitarra elettrica sapientemente trattata. Toni lentissimi a volte profondi, “Somewhere near“, a volte meno, “Every day, early morning“, a volte meravigliosamente oscuri, “Centerlight shade“, a volte piuttosto languidi, “Flowing across“. Inevitabilmente il pensiero va a certe (splendide) cose di Fripp & Eno.

Al solito il consiglio, oltre a dargli e darmi fiducia, è di assaggiarli utilizzando i link che trovate qui sotto.

Manuel Cecchinato Posadas
Stella Polansky
Bing Satellites
Halo XVI
Rooms delayed

Alla prossima 🙂

PLAID “Itsu”, 2003, Warp

La musica dei Plaid si è spesso integrata con video di buona o ottima fattura, in un caso addirittura un loro album, “Greedy baby“, uscì con allegato un dvd contenente un videoclip per ognuno dei brani presenti nel cd.

Ovvio che la mancanza dei testi aumenti la possibilità di costruire su queste musiche quello che si vuole, ed è quindi relativamente facile avere una buona idea e (ben) realizzarla abbinandola a questi suoni elettronici, ma molto caldi.

Tra i loro video più riusciti c’è questo “Itsu” (un brano minore del gruppo, proveniente da una specie di maxi-singolo di complicata reperibilità).

Lo dedico ai miei amici vegetariani.

STEPHAN MATHIEU, “Radioland”, 2009, Die Schachtel

Per parlare di questo disco partiamo dalle (scarnissime) note di copertina. Dice l’autore, riguardo la genesi e la realizzazione di questo lavoro: “Radioland is exclusively based on realtime processed shortwave radio signals, received, transformed and recorded on various locations“.
E in effetti dice più o meno tutto quello che c’è da dire.

333Ce lo immaginiamo di notte, in campagne poco frequentate, magari non lontano da un caminetto, ricevere questi segnali sulle onde corte e processarli secondo il suo gusto musicale e la sua sensibilità. Ed il risultato è una musica molto intrigante, lenta e mutevole come nelle più classiche realizzazioni ambient, con però una tendenza al microdisturbo, allo sfrigolare, che rende i suoni un pizzico meno digeribili del solito, e, seppure ci avvolgono in spirali ipnotiche, ridestano continuamente la nostra attenzione.

Il disco si apre con i dieci minuti di “Raphael” e ci accoglie con questi suoni che potrebbero davvero provenire da qualche paradiso popolato da arcangeli, suoni elettronici ma molto vivi, mai freddi, casomai potremmo definirli alteri, evocanti certa lenta levitazione di immaginarie macchine futuribili che spesso incontriamo nei film di fantascienza.
Seguono altri due arcangeli: “Gabriel” (immobile, sembra guardarsi attorno, con la musica che lentamente si diffonde tutto intorno a noi, come litri di olio versati in uno spazio tridimensionale) e “Michael” (anch’esso immobile, ma più oscuro, con un sottofondo molto particolare di suoni lontani ed energia elettrica che frigge ostinatamente).

Tre brani da gustare con attenzione, passione e soddisfazione.

A questi brani più lunghi seguono altri brani un pochino più brevi tra i quali spiccano la serena passeggiata sotto le (radio)stelle di “Promenade” (pulsare und quasare), il sussurrare nascosto di “Licht und finsternis zum auge” con le sue frequenze che si inseguono sopra la nostra testa come insetti attirati dalla luce di una lampada aumentando continuamente di numero, e la conclusiva (?), e bellissima, “Prolog in himmel” che parte più violenta degli altri pezzi, ma poi disvela presenze vocali paradisiache (ma sempre in uno strano limbo tra l’essere e il non essere), fantasmi di voci colte chissà come che elargiscono sonorità davvero celesti (sempre sopra un sottofondo eternamente sfrigolante e senza pace).
Tra le cose migliori ascoltate in questi ambiti negli ultimi anni (e mi fa piacere che sia stato pubblicato dalla nostrana Die Schachtel).

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Elektronenklange aus dem Radioland. 😉

p.s. Esiste anche una versione dal vivo intitolata “Radioland (Panorámica)” ugualmente interessante ma, a mio parere, meno riuscita rispetto a questa edizione.

LAVERNA (prima parte)

Come ho già avuto modo di scrivere non sono un esperto di net-label e non mi sforzo più di tanto di esplorare il web alla ricerca di realtà discografiche che mettono a disposizione di tutti il frutto delle loro fatiche. Ma nel mio girovagare in rete una di queste etichette su tutte mi ha veramente impressionato per l’ottima qualità media dei suoi lavori, la Laverna.

Specializzata in musica elettronica e muovendosi attraverso universi che vanno da quella più ritmata (ma con giudizio) a quella più immobile, questa net-label ha portato alla luce numerosissimi lavori meritevoli di attenzione (incorniciati in un sito molto pratico da navigare, elegante da vedere ed assai efficiente nel fornire i suoi servizi).
Quella che segue è una prima tranche di lavori assolutamente meritevoli di attenzione. Vi ricordo che l’avevamo già incontrata su queste pagine quando vi avevo parlato dei Sentimental machine.

Lav38Rilassamento binaurale” di Massimo Liverani, un signor lavoro, un’ora di ambient terapeutica, come da titolo, di altissima qualità e dal ricco apparato iconografico, cosa che lo rende, tra l’altro, decisamente superiore a tanti file venduti legalmente e ai quali non si accompagna mai nulla, né immagini, né crediti, né introduzioni/note all’opera, le major nel loro pressapochismo non pensano che chi compra uno o più mp3 abbisogni anche di altro ad accompagnare il puro e semplice file audio… ma sono bravissimi a chiederci soldi per un prodotto zoppo…

Lav46Insanity” di Giorgio Ricci è un altro lavoro molto interessante. Battuta bassa, atmosfere dark-ambient (vagamente esoteriche) per una mezzoretta nella quale distorsioni, frequenze e suoni campionati danno vita a fascinosi brani strumentali con la quarta traccia (“TXC 18.5“) che sconfina coraggiosamente in territori alvanotiani.

Lav49Domestic tapes vol.II” di Leastupperbound (che poi è un pezzo dei Sentimental machine, vedi sopra) contiene oltre quaranta minuti di ambient quasi isolazionista, piena di vuoti e dove accade pochissimo, e quel poco che accade di norma porta con sé un mood a metà tra l’angoscia e la depressione. Nessuna luce, ma solo qualche nota di pianoforte o qualche distorsione di chitarra, unitamente a qualche spolverata glitch, per ammobiliare questi spazi elettronici molto affascinanti nella loro introversione.

Lav47Weigthless” di Fabio Anile, lavoro piano-centrico dove le sparse note prodotte dai tasti bianchi e neri si incontrano con un armamentario glitch a frammentarle e disturbarle sopra tappeti elettronici statici. Musica che gira intorno a sé stessa, senza l’ambizione di fare ma cercando di trasformarsi in pura essenza.

Lav45Impossible feelings of silent giants” di William Capizzi, un lavoro superbo. Sei tracce per 36 minuti di musica dove tastiere ed elettronica si uniscono per realizzare una musica da colonna sonora di film immaginari a volte piu tesi (il sound autorevole di “Patience’s tear (water tower)” che si appoggia su una elettronica balbettante), a volte più inquietanti (l’immobile elettronica krauta, vagamente Cluster, di “The weariness of the filtered words (cellular repeaters)” e di “From father to son (power lines)“, quest’ultima con la presenza di corde, forse di pianoforte, ad addolcirla leggermente), a volte più classicamente ambient (“The cold sun goes down in the square” o la pulsazione infinita di “Smell my hair from your sky (chimney tired)“). Tutto il disco si muove su coordinate post-ambient con una sensibilità per il suono fuori dal comune. Da sottolineare anche in questo caso l’ottima qualità e la cura del libretto (virtuale) del disco, con foto e testi dell’autore a corredare la musica (tra l’altro ottimamente registrata).

Torneremo a parlare di questa etichetta e delle sue produzioni, intanto eccovi i link alle pagine dove potete ascoltare/scaricare/approfondire i dischi di cui sopra (e quindi anche verificare se scrivo fesserie).

Massimo Liverani
Giorgio Ricci
Leastupperbound
Fabio Anile
William Capizzi

To be continued…

AA.VV. “Ondadrops vol.2”, 2010, Onda rock

Ho una sana avversione per antologie e compilation.

Di norma quando una casa discografica appronta una raccolta di un qualche artista realizza strani mischiamenti in cui unisce i principali successi dell’artista con altre canzoni scelte a caso (almeno così appaiono all’ascoltatore) senza tener conto di alcun filo logico (fosse anche solo quello temporale).

Questa avversione ha però alcune eccezioni. Non mi dispiacciono i sampler delle etichette discografiche, quei dischi che, pescando all’interno del catalogo di una label, cercano, spesso riuscendoci, di descrivere l’essenza del progetto che vi è dietro.  Neanche odio quelle antologie che tentano di raccontare una determinata scena musicale (un classico esempio di questo tipo fu la eno-anaNo New York” in relazione alla cosiddetta no-wave anni ’80 o le nostrane “Balla e difendi” e “Italian posse” che descrissero, bene, l’esplosione del giro rap-reggae nei centri sociali ad inizio ’90).

Appartiene a quest’ultimo genere di antologie, e quindi ve ne parlo volentieri, questo autentico gioiello messo a disposizione dal sito Ondarock e sottotitolato “Take the sounds, turn them into words

L’intento di chi ha selezionato questi brani (25 pezzi per oltre 2 ore di musica) è stato quello di mettere sotto la lente d’ingrandimento tutta una serie di progetti musicali, assai variegati tra loro, che hanno in comune il porsi in una zona borderline tra l’avanguardia colta ed extra-colta e sonorità più vicine all’elettronica di consumo, a certo jazz, a certa ambient più o meno morbida. Musiche a volte non distanti da quell’universo indefinibile e vario chiamato post-rock.

Sono musicisti che non si vestono di una sola casacca, ma che tendono ad utilizzare insieme sia strumentazione elettronica e laptop sia strumenti canonicamente acustici. Musiche che non hanno particolari presunzioni di originalità ma che, allo stesso tempo, realizzano interessanti unioni tra mondi musicali non sempre comunicanti e che, in molti casi, denotano una felicità di scrittura assolutamente notevole.

Tra i brani che mi appaiono particolarmente eccellenti vi voglio segnalare nel primo cd l’iniziale “Günther Anders” degli italiani Port-royal (bel crescendo su battuta ciondolante in un mare di riverberi leggermente sporcati da polvere glitch), la gloriosa “The wave” del bolognese Dedo (brano simile al precedente ma con meno glitch, più circolarità e più tastiere positive), la grande Elisa Luu (a lei prima o poi dovrò dedicare un post esclusivo) qui presente con “Piano 5-1” in cui strumenti acustici e laptop si fondono con la classe di sempre in atmosfere indescrivibili ma ricchissime, le ottime chitarre dai mille riverberi ambient e oltre della “Underground prayer” di Puffin on my side, da Roma, “Perlen, honig oder untergang” con i suoi campionamenti d’archi ricostruiti post-minimalisticamente con l’aiuto del pianoforte dal Bersarin quartett (al secolo Thomas Bucker) e poi, con l’aggiunta di una placida percussione, elevati a colonna sonora immaginaria, l’autunno malinconico di Un vortice di bassa pressione, da Catanzaro, con la sua ambient sporcata da voci campionate non lontana da certe cose di Alva Noto insieme a Ryuichi Sakamoto per una “Why not” di intensa suggestione, le chitarre distorte del romano Nimh, per una lenta, circolare, ascesa segnata da rumori e da voci recitanti che mi ricordano la sezione strumentale di “Aria di rivoluzione” di Battiato.

Nel secondo disco (virtuale) emergono l’elegante e avvolgente glitch-ambient del siciliano Con_cetta, o quella, più fragile ma arricchita dal canto degli uccelli, del greco Dergar, oppure quella immobile, nebbiosa e frusciante di Emanuele Errante con la sua “Later, earlier“, o, ancora, quella acquatica e sognante di “Origin of mirage” della giapponese Shaula.

Troviamo poi la bella progressione per pianoforte ed effetti speciali vintage di Dollboy nel suo “Sinister, Dexter” (a metà tra Jean-Michel Jarre e Berto Pisano), le delicatezze iterative acustiche vagamente maxrichteriane dell’inglese Message to bears nella crepuscolare, ma piena di meraviglia, “New beginning“, la classica ambient-drone del portoghese The beautiful schizophonic che in “Dreaming in the proximity of Mars” evoca esattamente ciò che il titolo indica.

Ma è proprio il giudizio complessivo su questa antologia ad essere positivo, per la qualità media dei brani, per la capacità di indicare a chi non li conosce percorsi musicali assai interessanti, per l’ostinazione degli autori a praticare strade poco battute e, probabilmente, poco commerciali ma di grande dignità e musicalmente validissime.

Chi volesse scaricarla può andare su questa pagina (sperando che al momento del vostro clic sia ancora presente…) dove troverà anche delle dettagliatissime note (come osservo spesso, le produzioni fatte senza fine di lucro e solo per amore della musica tendono ad avere una cura ed una attenzione, anche nell’apparato iconografico di corredo e nelle note testuali, superiore a quello delle produzioni fatte dall’industria discografica vera e propria).

Non saranno artisti trendy (?), ma vi garantiranno ascolti piacevolissimi.

NICOLA RATTI “220 tones”, 2011, Die Schachtel

Se questo disco fosse uscito negli anni ’70 l’avrebbe pubblicato la Cramps, probabilmente nella sua collana “DIVerso“, quella dedicata a musicisti che dialogano con i propri strumenti e ne esplorano le possibilità. Invece siamo nel nuovo millennio ed è la sempre coraggiosa Die Schachtel a dare spazio a questo interessante lavoro di Nicola Ratti.

La bella (ma parca) confezione non ci racconta granchè sulla genesi e la realizzazione di questi pezzi, ma l’impressione è che siano frutto del lavoro solitario di Ratti, alle prese con le sue chitarre, qualche vecchio synth e tanta voglia di frugare negli angoli del suono.

Piccoli loop, glitch polveroso, pochi accordi di tastiera, la chitarra usata più come fonte di suono da manipolare che come produttrice di melodie e armonie… quello che si respira qui è l’amore per il suono, il piacere di costruirlo pezzo a pezzo, artigianalmente, la voglia di suonare musiche senza confini. E il risultato è un disco di gran gusto e piacevole all’ascolto (non siamo lontani dalle parti di Area C, ve ne parlai poco tempo fa in questo post) il cui unico difetto è la relativa brevità (meno di 40 minuti…).

I momenti eccellenti del disco sono l’iniziale “Air resistance“, loop delicatissimo sul quale vengono infiorettati rumorini e armonie con gran gusto mentre dal nulla emerge un ritmo grasso e narciso che a sua volta trascina con sé altri suoni elettronici in una sorta di catena senza fine in cui tutto porta con sé qualcosa d’altro, “Doom set“, che parte con un contrasto tra l’organo immobile e una tagliente ritmica glitch per poi costruire su queste basi un lento precipitare a spirale tra suoni ossessivi e pulsazioni insistite, i balbettii di “Untitled #2“, frammenti di voci campionate sopra una schiuma glitch e ritmi vari che si alternano sullo sfondo, lo stagno elettronico di “Twin set” dalle acque del quale lentamente emerge, tra il gracidare iniziale e le libellule in volo, un accordo di visionaria imponenza.

Il pezzo però che preferisco (ma lo sapete che per queste cose sono malato) è “Cathrina“, che nell’utilizzo di rumori acquofoni, nella sua struttura libera che porta verso una catartica ascesa, mi rimanda (molto da vicino) ad alcune sezioni di “Pollution/Ti sei mai chiesto quale funzione hai ?” (Battiato, 1972) con, ovviamente, una consapevolezza sull’uso dei rumori che Battiato all’epoca aveva solo intuito.

Suoni sporchi e sdruciti, ma affascinanti e pervasivi.