5 colonne sonore

  • Philip GlassThe hours” (2002)
  • Franco BattiatoMusiche per il film su Benvenuto Cellini Una vita scellerata” (1990)
  • Ennio MorriconeMarco Polo” (1982)
  • Michael NymanThe Draughtsman’s contract” (1982)
  • Peter GabrielPassion” (1989)

ENNIO MORRICONE in concerto a Roma, 25/07/2012

La mia generazione (o almeno una sua parte) è cresciuta col mito dell’hi-fi, il mito dello stereo che suonava alla grande, che riusciva a riprodurre nelle nostre camerette il suono con una fedeltà al limite dell’iperreale. E anche senza cadere nel dramma sociale dell’audiofilia (chi la conosce lo sa) era facile trovarsi a discutere con gli amici di come quelle casse suonassero più calde o quella certa puntina fosse capace di rendere il suono più vero del vero.

Poi passano gli anni e un bel giorno ti capita di sentire all’Auditorium Parco della Musica, nella loro sala più prestigiosa, l’Orchestra e il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia suonare SENZA amplificazione e ti rendi conto che QUEL suono che stai ascoltando (così rotondo, perfetto, pulito, dolce e affascinante) ha poco a che spartire con quello che si sente a casa tua quando metti nel lettore un cd di Mozart o di Glass.

E rimani a bocca aperta, ti ci perdi in questo suono ammaliante. Ti senti, felicemente, un uomo dell’800, che non aveva altra scelta che uscire di casa ed andare in qualche sala da concerto per poter ascoltare queste armonie meravigliose.
E qualunque cosa suoni l’orchestra sei felicissimo di ascoltarla, a maggior ragione se il programma della serata prevede una serie di suite costruite su temi di colonne sonore scritte da Ennio Morricone.

Prima di passare ai dettagli devo premettere (si lo so, excusatio non petita…) che Morricone non si discute, ha scritto tantissima musica di assoluto livello ed è uno di quei rarissimi casi dove quantità si sposa con qualità e fare musica su commissione non significa svendersi al miglior offerente.

Sul palco c’è l’orchestra al gran completo (con due arpe in bella vista…), il coro, maschile e femminile, assai nutrito, Ennio Morricone alla direzione ed alcuni ospiti/solisti d’eccezione. Il programma è strutturato su 6 sezioni all’interno delle quali si susseguono alcuni temi tratti da diverse colonne sonore selezionate sia per affinità musicale sia per analogie nell’atmosfera dei film… le premesse per un concerto spettacolare ci sono tutte.

La prima sezione del concerto (“Fra sogno favola e cronaca“) è dedicata a film assai diversi: si parte con i (meravigliosi!) titoli di “Uccellacci e uccellini” cantati da un Angelo Branduardi sorridente e molto partecipe (tanto da lasciarsi andare alla tentazione di contribuire anche a lui a dirigere l’orchestra) e poi a seguire estratti da “Bugsy“, “Una pura formalità” (ancora Branduardi alla voce) e “Metti una sera a cena“.

Ma è con la seconda che, per quello che mi riguarda, si tocca l’estasi della serata. Due colonne sonore di altrettanti sceneggiati televisivi (stra-ingiustamente considerate minori) quali “Mosè” e “Marco Polo” (del secondo ve ne parlai lungamente in questo post) ci regalano momenti di intensissima liricità con entrambi i temi principali che emergono lentamente (ma con un vivo e vibrante crescendo) da una introduzione delicatissima. Temi dalla melodia morriconiana doc che troppo sono stati dimenticati e che trovano in questa nuova dimensione orchestral-sinfonica nuova linfa e nuova dignità.

Per chiudere la prima parte del concerto Morricone va sul sicuro e recupera alcuni temi da “Il buono, il brutto e il cattivo“, “C’era una volta il West” e “Giù la testa” chiudendo con una bella versione di un tema grandioso (e in parte, anche questo, dimenticato) come “L’estasi dell’oro” (per ragioni misteriose capita spesso che di una intera colonna sonora sia il tema legato ai titoli iniziali del film quello che più si sedimenta nella memoria popolare a discapito di altri temi, magari molto più belli, che vengono presentati più avanti…).

Dopo un breve intervallo il concerto è ripreso con altre 3 suite che hanno utilizzato temi del Morricone (relativamente) più recente (anni ’90) tratti da “Un delitto italiano“, “La città della gioia” e “Nostromo” per poi chiudere con una suite intitolata “Cinema tragico, lirico, epico” in cui ha recuperato temi da “Il deserto dei tartari“, quelli scritti per la sonorizzazione del “Riccardo III” (muto del 1912), per poi chiudere con un altro classico, “Mission“, il cui maestoso “On Earth as it is in Heaven” benissimo si è prestato per concludere intensamente (e davvero epicamente) un concerto bello come questo.

Ma Abul non sarebbe Abul se non indicasse alcune cose che non lo hanno convinto di questa serata (perdonatelo, ma proprio non riesce a stare zitto).

Da ascoltatore devo dire che le riorchestrazioni dei pezzi che ha fatto Morricone non mi hanno sempre convinto, in particolare mi è sembrato che in alcuni casi il Maestro non abbia tenuto conto dei corretti livelli sonori tra i vari strumenti e (di fatto) gli strumenti solisti (ad esempio il violoncello del “Marco Polo“) si siano un po’ persi, sommersi dall’orchestra che pompava a tutto volume. Molte volte meno è meglio, e se si vuole dare enfasi ad uno strumento rispetto all’orchestra bisogna fare in modo che il volume sonoro sia adeguato a questa esigenza. In altri casi invece (particolarmente nel tema principale de “Il buono, il brutto e il cattivo“) ho trovato discutibile orchestrare per orchestra (scusate il gioco di parole) brani la cui espressività è fortemente legata agli strumenti utilizzati a suo tempo per le colonne sonore originali.

Nei primi anni della sua collaborazione con Sergio Leone Morricone è riuscito a creare un determinato e molto riconoscibile “sound” (il fischio di Alessandroni, la chitarra, certe percussioni, un certo uso delle voci maschili…) che nulla aveva a che spartire con le musiche del Far West ma che, nonostante ciò, perfettamente rappresentava l’atmosfera di quei villaggi assolati e polverosi raccontati da Leone. Prendere questi temi e sostituire gli strumenti originali con archi e legni normalizza questi pezzi e li rende, perlomeno, inoffensivi privandoli di quella spessa carica evocativa che possedevano.

Qualche dubbio anche sulla scelta dei solisti, non tanto per Branduardi che se la cava discretamente su “Uccellacci e uccellini” e tentenna un pochino per “Ricordare” (meglio eseguito nel primo dei bis), quanto per il violoncello di Luigi Piovano (qualche insicurezza di troppo che da un musicista del suo calibro non ti aspetti) e per la voce della soprano Susanna Rigacci che risulta troppo ingessata per non perdere (e alla grande) il paragone con Edda Dell’Orso, straordinaria e indimenticata interprete femminile di tanti temi morriconiani.

Ma quel che resta è il ricordo di grandi musiche, di una gran bella serata e di suoni meravigliosi che hanno rinfrescato una delle tante (troppe…) calde serate romane di questa estate 2012.

Questo post è dedicato a Fiorella che, casualmente seduta accanto a me, mi ha rievocato quei giorni incredibili in cui lei, e gli altri componenti dei Cantori Moderni di Alessandroni, incidevano queste colonne sonore e, non so con quanta consapevolezza, contribuivano a scrivere pagine memorabili della storia della musica italiana (e non solo).

PIERO MILESI “Within himself”, 2000, Cuneiform records

Lo scorso 30 ottobre Piero Milesi ci ha lasciato. E’ stato un musicista che ha prodotto relativamente pochi lavori, ma tutti di ottima qualità. Vi avevo già parlato di quello che ritengo il suo capolavoro in questo post,
ma mi fa piacere ricordarlo parlandovi di quello che rimarrà purtroppo il suo ultimo lavoro solista, passato, forse, un po’ troppo sotto silenzio.

la copertina del disco

Pubblicato dalla prestigiosa Cuneiform records questo disco raccoglie, come da sottotitolo, “music for films, installations, water and fireworks“, brani in parte commissionati e in parte frutto della libera creatività del nostro, realizzati negli anni ’90.

L’iniziale “So soggy” ci presenta il Milesi della maturità, capace di miscelare le improvvisazioni di pianoforte con un violoncello a metà tra barocco e minimalismo uniti ad un elettronica discreta e mai effettistica. Una musica dove confluiscono tutte le sue grandi passioni in un patchwork di grande personalità e sensibilità, con un tono di malinconia estremamente delicato, e alla quale è splendido abbandonarsi.

Seguono le atmosfere rarefatte di “Volti riflessi“, quelle legate all’immaginario delle ferrovie di “Avanti la tre“, con una elettronica alla base ancora una volta elegantissima ed ardita, con il suo alternarsi di toni lunghi da Glass-organ anni ’70, campionamenti in tema e sequenze minimaliste in rapida alternanza, in quello che suona come un atto d’amore per i treni e i tanti viaggi che abbiamo fatto con questo mezzo di trasporto.

Il cuore del disco è forse “Dentro di sé“, 16 minuti nei quali riecheggiano le atmosfere che furono di Mr.Nanof, il violoncello e l’organo ripetitivo ad incrociarsi con ogni tanto riverberi rumorosi ad insaporire il tutto ed il pianoforte a dare man forte agli altri strumenti con le sue fughe in diagonale.

Un gioiellino post-minimalista dal cuore oscuro.

Il disco si conclude con la sarabanda di “Fuochi sul Tevere“, brano dalle tastiere funamboliche e spettacolari che, semplicemente, mozzano il fiato.

Piero Milesi

Che di un autore di queste qualità resti così poca memoria, e quasi esclusivamente grazie alla collaborazione con Fabrizio De Andrè, è una delle tante dimostrazioni di quanto questa società e questo sistema culturale siano lontane da ciò che rende umano l’uomo.

Ad alcuni invece resterà un vuoto ed il rimpianto per un artista schivo che ci ha dato tanto, ma tanto ancora avrebbe potuto darci.

KRONOS QUARTET & ASHA BHOSLE “You’ve stolen my heart”, 2005, Nonesuch

Che il Kronos Quartet sia una istituzione benemerita della musica contemporanea non ci sono dubbi. Di loro non si può non apprezzare il loro porsi esclusivamente come interpreti delle musiche altrui (approccio quasi scandaloso in un mondo come il nostro dove l’ego di ognuno cresce a dismisura e tutti tendono ad essere “autori”, un mondo dove si è persa la capacità di essere artigiani della musica, umili servi nella vigna di Euterpe). Parimenti non si può non apprezzare il loro porsi senza preclusioni verso la musica (verso tutte le musiche) e il loro aver navigato in tutte le direzioni stimolati da grande curiosità e altrettanta apertura mentale: li abbiamo visti perciò entrare nella baia minimalista, attraversare il grande oceano della musica contemporanea, azzardare qualche puntatina nei pressi dell’enorme continente della musica pop (Hendrix, ad esempio) e verso autori di continenti e culture lontane (da Hamza El din e tutta l’Africa alla brace nascosta, ma ardente, che caratterizza le ex-repubbliche sovietiche). Con i loro antichi strumenti della tradizione europea sono sempre riusciti a trovare punti di contatto con mondi che potevano sembrare lontanissimi.

 

Su tutto questo non ci piove.

 

Questo disco però (e a questo punto un però sono sicuro che ve lo aspettavate…) mi lascia assai insoddisfatto. Le premesse erano intriganti: il colto quartetto d’archi europeo si confrontava questa volta con le musiche da film indiane (particolarmente quelle di Rahul Dev Burman) e nel farlo chiamava come guest star la voce (ormai mitica, forse qualcosa in più…) della regina di quella musica (e moglie del compositore): Asha Bhosle. Mi aspettavo un disco che unisse questi due mondi musicali regalandoci qualcosa che non appartenesse a nessuna delle due tradizioni. Invece il risultato è deludente.

Non si è riusciti a limitare le session al quartetto d’archi e alla voce della Bhosle (azzardando un unplugged che poteva risultare esplosivo) ma hanno deciso di aggiungere percussioni, tastiere, sitar e altri elementi pop che hanno spinto le canzoni verso lidi più ortodossi. Inoltre il Kronos più che a reinventare gli arrangiamenti delle canzoni si limita ad eseguire quelle che, già in origine, erano parti affidati agli archi. La Bhosle, nonostante l’età, canta ancora splendidamente, ma quelle che ascoltiamo, alla resa dei conti, sono versioni abbastanza fedeli agli originali, semplicemente rese più ingessate e rigide da arrangiamenti che spengono tutta l’effervescenza (a volte anche kitsch-barocca, ma sempre piacevole) delle versioni originali. Versioni timide che non hanno il coraggio di spiccare il volo verso mondi nuovi ma si limitano a ripercorrere percorsi già noti senza mai lasciarsi andare fino in fondo. Anche un hit assoluto come “Dum maro dum/Take another toke” scivola via svogliato e intristito da un ritmo (chissà perché) troppo rallentato. Tra gli altri brani spiccano la versione lento-psichedelica di “Rishte bante hain/Relationship crow slowly“, “Mera kuchh saaman/Some of my things” da ballare cheek-to-cheek, la divertente e spigliata “Piya tu ab to aaya/Lover, come to me now“.

Fondamentalmente il merito per le buone vibrazioni che riceviamo va quasi esclusivamente alla flessuosa e sapiente voce della Bhosle (non a caso i brani strumentali scivolano via senza lasciare tracce e ricordi particolari), ovviamente senza dimenticare le ben note doti compositive di suo marito, ma questa operazione non supera lo sfizioso guado che le si presentava.

 

Un’occasione sprecata.

MICHAEL NYMAN “The draughtsman’s contract”, MN records, 2005

Ipotesi 1 (o dell’appassionato):

Da alcuni anni anche in musica si è sviluppato il concetto, originariamente tutto informatico, di upgrade, ovvero il rilascio di nuove edizioni (migliorate e arricchite) di qualcosa di precedentemente edito.
Più di un compositore ha cominciato a pensare ai propri lavori non più come definiti e fissati una volte per tutte, ma come ad un qualcosa in continua evoluzione e miglioramento che, periodicamente, poteva anche essere soggetto a nuove incisioni che marcassero lo sviluppo del progetto e definissero lo “stato dell’arte” al momento della nuova registrazione.
Tra i tanti che hanno così ragionato possiamo citare Gavin Bryars (di cui avevo scritto non molto tempo fa) le cui recenti esecuzione di “The sinking of the Titanic” sono diverse sia dall’incisione del 1994 che da quella del 1975, oppure La Monte Young il cui brano forse più importante, “The well tuned piano“, è stato inciso una prima volta su 5 CD pubblicati nel 1985 e una seconda, più recentemente, su DVD-audio. Young ogni volta indica con pignoleria data e ora dell’esecuzione del brano proprio perché questo, come un organismo vivente, continua a crescere (nascono nuove sezioni, se ne modificano le vecchie, ecc.) e per lui è scontato che ogni incisione si limiti a fotografare la composizione in quello specifico momento. Anche Steve Reich reincise nel 1987 “Drumming” in una versione molto più veloce (un solo CD…) e in una intervista letta recentemente specificava come col tempo avesse trovato questa formula più funzionale al pezzo.
Ma anche nella musica popolare questo fenomeno non è raro, basti pensare al Banco del mutuo soccorso che nel 1991 reincise integralmente i suoi primi 2 album (l’omonimo e “Darwin!“) i cui brani negli anni si erano modificati e, spesso, assai dilatati.
Sono innumerevoli i cantanti e cantautori che sono ritornati in sala di incisione per risuonare e riarrangiare alcune delle loro canzoni più celebri (solo per citare qualche italiano: Alice, Finardi, Bennato, il compianto Bertoli, Claudio Lolli con la recente integrale rivisitazione di “Ho visto anche degli zingari felici“, e chi più ne ha più ne metta…)

Non poteva mancare a questo lungo elenco anche Nyman che si è aggiunto a questa vasta schiera reincidendo (all’interno di quella che ha chiamato “the composer’s cut series“) alcuni dei suoi lavori più celebri che negli anni avevano continuato a svilupparsi.
L’ascolto di questo CD si segnala subito, rispetto all’originale, uscito più di 20 anni fa, per il suono decisamente meglio registrato e bilanciato (anche se quello originale, più grezzo, aveva sicuramente un suo fascino particolarissimo).
Ad un ascolto distratto i brani sono sostanzialmente invariati, ma se si presta una attenzione maggiore si scoprirà che sono centinaia le variazioni apposte dall’autore negli anni: diverse velocità dei brani, diverso volume sonoro dei singoli strumenti (ora molto meglio equilibrati), alcuni piccoli cambi di melodie e di arrangiamento ed anche una tecnica esecutiva migliorata da parte del suo gruppo, meno aggressiva e più controllata.
Sinteticamente potremmo dire che queste nuove versioni hanno smussato tutti gli spigoli dei brani che ora risultano decisamente più arrotondati.

Ipotesi 2 (o del malizioso):

Nyman non ha perso tempo. Subito dopo aver fondato la sua propria casa discografica (significativamente chiamata MN records) si è precipitato a reincidere i suoi lavori più noti e di più alto appeal commerciale. All’interno della sua “the composer’s cut series” troviamo infatti questa reincisione delle musiche del film “I misteri del giardino di Compton House“, ma anche altri 2 CD con, rispettivamente, le musiche del film “Lezioni di piano” e una antologia dei temi scritti per i film di Peter Greenaway.

E’ una prassi ormai consolidata quella di rieditare i brani di maggior successo quando si cambia casa discografica (meglio se la nuova appartiene a se stessi). Un esempio clamoroso fu quello di De Gregori che appena passato alla Sony pubblicò TRE dischi dal vivo grazie ai quali la sua nuova casa discografica potè avere subito nel proprio catalogo tutte le sue canzoni più famose pubblicate a suo tempo dalla RCA. Stessa cosa fecero i Litfiba quando lasciarono la CGD e potrei continuare…
Qualcosa di simile la fece pure Philip Glass reincidendo i suoi lavori più celebrati (“Einstein on the beach” e “Koyaanisqatsi“), ma, almeno, lui aveva la scusa che le nuove versioni erano più complete delle incisioni originali dalle quali erano state tolte intere sezioni per ragioni varie.
Pecunia non olet” e anche un artista aristocratico come Nyman non ha resistito a cogliere questa opportunità e, fondamentalmente, non c’è niente di male salvo l’aumento della confusione sotto il cielo (chi non è molto addentro alle questioni che lo riguardano capirà che NON sta comprando la colonna sonora originale ma “solo” una sua reincisione ?).
Da sottolineare il libretto spartano e la mancanza di qualunque riferimento a Greenaway nella confezione del CD (mi sa che quei due si siano lasciati proprio male…).

In sintesi:

Un’opera che si ascolta con immenso piacere e che non è minimamente invecchiata.
Vale davvero la pena di conoscerla a fondo (indipendentemente dalle edizioni).

p.s. Proprio in questi giorni è stato ristampato un box di 3 dvd dedicato al cinema di Peter Greenaway contenente i suoi primi 2, imperdibili, lungometraggi (“I misteri del giardino di Compton House” e “Lo zoo di Venere“) uniti ad un bellissimo corto di 45 minuti (“Vertical features remake“) e a “The falls“, uno strano finto-documentario di 3 ore. Tutti questi lavori vedono Nyman come compositore delle musiche e valgono abbondantemente il costo (credo intorno ai 30 euro) del cofanetto.

ENNIO MORRICONE “Marco Polo”, Rai trade, 2004

Nei primi anni ’80 la RAI realizzò un film per la TV molto ambizioso dedicato alla figura di Marco Polo, un vero e proprio kolossal televisivo con la co-produzione di altre prestigiose televisioni europee, ne affidò la regia a Giuliano Montaldo e le musiche al nostro autore più celebrato in materia di soundtracks, Ennio Morricone. L’opera riscosse un discreto successo e, come sempre accade in questi casi, nel 1982 venne pubblicato dalla Fonit Cetra un LP dall’aggressiva copertina rosso fiammante che raccoglieva una buona parte della colonna sonora.

Il disco finì presto fuori catalogo. Negli anni a venire non venne mai ristampato e persino nelle moltissime compilation dedicate al maestro Morricone nessuno dei temi che compongono questa colonna sonora trovò un po’ di spazio. Anche con l’avvento del CD le acque non si smossero e, nonostante il buon successo delle molte ristampe di colonne sonore di alcuni dei B-movies degli anni ’60 e ’70 ai quali Morricone aveva prestato la sua vena di compositore, per 20 anni queste musiche (letteralmente) furono introvabili ed inascoltabili.

L’anno scorso, fortunatamente, Rai Trade le fa riemergere dall’oblio pubblicando (oserei dire in semi-clandestinità… non è che se ne siano viste molte copie) un doppio CD che aggiunge al materiale originale molte (e succose) bonus tracks portando la durata complessiva ad oltre 2 ore e un quarto di musica.

Voi potreste pensare che la ragione di questa lunga assenza fosse nella scarsa qualità delle musiche, ma, al contrario, qui abbiamo un Morricone ai vertici della sua maturità di compositore, ancora lontano da certe ridondanze autocelebrative degli ultimi anni e pure distante dagli epici temi che gli diedero la notorietà legati agli spaghetti-western di Sergio Leone. Siamo invece più vicini a opere come la colonna sonora di “C’era una volta in America” o alla felice vena dei temi scritti per “Mission” (e scusate se è poco…).

All’interno di questo monumentale lavoro troviamo di tutto (d’altra parte la lunghezza dello sceneggiato e la varietà di situazioni e luoghi proposti ben si prestavano ad una colonna sonora corposa ed eclettica).

Naturalmente vi sono alcuni temi dalla stupenda melodia presentati in diverse forme e arrangiamenti, a partire dal bellissimo “Tema di Marco” (affidato, nella versione dei “titoli”, alla viola di Dino Asciolla contrappuntata da un energico coro nell’inimitabile ancorchè classico stile morriconiano), fino all’incantevole tema d’amore “Canzone di Mai-Li“, splendido anche nella versione “estesa”.

Poi troviamo alcuni bozzetti tanto brevi quanto intensi e di sfolgorante bellezza: “I sogni“, “Nostalgia del padre“, “La leggenda della Grande Muraglia“, dove il compositore dimostra che possono bastare 60 secondi per regalarci emozioni fortissime.

Accanto a questi troviamo alcuni brani più lunghi e strutturati nei quali Morricone mette tutta la sua sapienza di compositore: “I crociati“, dall’evocativo uso di ottoni e legni, “Al Santo Sepolcro“, che fa seguire una prima parte profondamente struggente da una seconda dove mirabilmente si sfiorano le vette del sacro, il capolavoro “Verso l’oriente” che maestosamente descrive gli scenari e i nuovi orizzonti che si aprivano a Marco Polo, i riusciti esotismi dell’inedito “Festeggiamenti a palazzo“.

Al confronto con questi brani (diciamo) più tradizionali non sfigurano (anzi…) quelli in cui le influenze stravinskyane e moderne sono più che evidenti (“I mongoli“, “Il sud brucia“, “La grande marcia di Kublai” fino alla eterea atmosfera quasi-ambient di “Musica di corte“), ed è da sottolineare come Morricone mescoli con sapienza queste influenze con la sua straordinaria attitudine alla melodia ottenendo musiche di grande godibilità e niente affatto ostiche.

Tutta l’opera brilla per compattezza e forza, senza cedimenti e debolezze, ed è benissimo suonata dall’orchestra e il coro “Unione Musicisti di Roma“.
In estrema sintesi: un Morricone ispiratissimo per un lavoro di ampia portata che gli ha permesso di esprimere al meglio le sue qualità compositive.

Io personalmente trovo scandaloso che dischi di questa qualità possano perdersi nelle nebbie delle case discografiche e voglio lanciare una piccola provocazione:

in questi ultimi anni si è fatto un gran parlare sulla difesa del, cosiddetto, diritto d’autore, e lo si è fatto sempre e solo in relazione alla, cosiddetta, pirateria (download dalla rete, copie casalinghe o vendute sulle bancarelle, ecc.). Nessuno ha detto una sola parola su come difendere gli autori dalle case discografiche che possiedono i diritti su uno o più dei loro dischi e si rifiutano di ristamparli.
In pratica accade, e più spesso di quanto possa sembrare, che un disco finisca fuori catalogo (nel limbo della musica) per le ragioni più varie (calcolo economico, questioni legali, antipatie personali) e nessuno possa restituire al mondo la possibilità di fruire di quest’opera. Le case discografiche non solo non ripubblicano questi dischi ma neanche sono disponibili a rivenderne i diritti (se non proponendo prezzi assurdi).
Il risultato è che queste opere finiscono nel dimenticatoio e a nulla valgono le proteste e le richieste degli autori (Sergio Endrigo e Giuni Russo sono passati attraverso queste forche caudine, e sono solo due esempi, l’elenco potrebbe allungarsi).

Tutto questo c’entra forse qualcosa con la difesa dei diritti d’autore ?

La mia proposta, che chi vuole può rilanciare in altri luoghi, è molto semplice.

Se un disco non viene ristampato per un determinato lasso di tempo (io suggerirei 5 anni, ma su questo si può discutere), essendo palese che i proprietari non sono più interessati alla diffusione dell’opera, automaticamente i diritti dovrebbero ritornare GRATUITAMENTE all’autore dell’opera stessa che ne dispone come vuole (rivendendoli a chi è interessato a pubblicarla o pubblicandola direttamente).

Oggi, paradossalmente, chi mette in rete copie digitali di dischi che non vengono ristampati, come nel caso di questa colonna sonora, da alcuni decenni invece di essere visto come un filologo che recupera al mondo musiche dimenticate (nascoste, censurate, rapite…) rischia una pesante multa, mentre chi occulta l’arte nei suoi inaccessibili sotterranei vuol farsi passare per difensore dei diritti degli autori…

Liberiamo le musiche prigioniere!

p.s. Ma qualcuno si ricorda chi è DRAGONDA ?

MORGAN “Il suono della vanità”, Mescal, 2004

L’ascolto di questo disco mi costringe ad interrogarmi su uno dei grandi misteri delle “major” discografiche: ma quale è il criterio con cui decidono se stampare o meno un disco ?
Voglio dire… se Morgan, o chiunque altro, avesse proposto come suo nuovo lavoro solista un disco come questo , tutto fatto di strumentali con melodie ridotte all’osso, armonie claustrofobiche e spesso e volentieri niente ritmo, sarebbe stato sommerso da valutazioni pseudo-seriose sulla impossibile vendibilità, sulla poca accessibilità per la gggggente, sulla mancanza di un vero singolo radiofonico (“sono le radio che determinano il successo di un disco!”), ecc…
In soldoni (ma gratis) avrebbe ricevuto un roboante “NO” secco.

Ed invece, trattandosi di una colonna sonora (seppure di un film, “Il siero della vanità” di Alex Infascelli, di modestissimo successo), glielo stampano senza frapporre particolari resistenze.
E di questo, sia chiaro, ne siamo contenti pur continuando a non comprendere il senso di un tale agire.

Musicalmente siamo soprattutto dalle parti del Bowie eno-berlinese (e questo non è che ci sorprenda più di tanto), atmosfere cupe e solenni, il pianoforte tra le tastiere a comunicarci angoscia.
Si aggiungono qui e la dialoghi estratti dal film, semplici sequenze ritmiche, citazioni dal Glass più armonico (“Mitomaniac“), dall’Eno di “Apollo” ( i vari drones presenti nel disco, peraltro chiamati così abbastanza impropriamente, ma anche “Tentazioni d’Azzurra“).
Niente di originalissimo dunque, ma comunque un disco molto curato nella giustapposizione dei brani (che formano una sorta di suite con temi e sonorità che ritornano più volte) e che qui e la si fa apprezzare, specialmente quando non cade negli stereotipi del film-de-paura (il simil-carillon di “Toxicologism“) o quando si abbandona un po’ di più e smette di riferirsi ad altri artisti (gli interessanti sinfonismi di “Piramide – il mago muore“).
Buono anche l’utilizzo del materiale melodico che ben trasfigurato compare e scompare attraverso le tracce fino a mostrarsi senza veli, in chiusura di disco, nell’unica vera (e bella) canzone, minima concessione all’ascoltatore medio (ma siamo lontanissimi dai lidi sanremesi).

Insomma: musicisti con voglia di sperimentare o di fare cose non troppo digeribili, se volete che ve le pubblichino prima trovatevi un regista che le utilizzi.

AA.VV. “Beginner’s guide to Bollywood”, Nascente, 2003

Questo cofanetto triplo (40 canzoni, 3 ore di musica, 15 euro), come si intuisce dal titolo, prova a condensare il meglio (?) di 50 anni (?????) di colonne sonore di film “bollywoodiani” (dal 1951 a oggi).

Il curatore della raccolta ha cercato di mostrarci i cantanti più celebrati, i temi più amati ma anche molti dei volti di questo universo musicale tanto ampio quanto poco conosciuto qui da noi (anche se negli ultimi 5-6 anni molto è aumentata la diffusione in occidente di queste musiche). La parte del leone la fa Asha Bhosle, “the queen of Bollywood”, presente in circa metà delle tracce, con la sua voce impressionante, dai registri altissimi e dalla meravigliosa duttilità. E’ la sua voce ad aver doppiato gran parte delle protagoniste di questi film quasi sempre caratterizzati da grande lunghezza, numerose scene cantate e ballate e dall’inevitabile vittoria dei buoni sui cattivi con annesso trionfo dell’amore tra i protagonisti. Accanto alla Bhosle sono presenti naturalmente anche gli altri nomi fondamentali del genere (Mohammed Rafi, Lata Mangeshkar, ecc.).

Il disco è bellissimo (particolarmente i primi due CD che si muovono tra gli anni ’50 e i ’70), ma la cosa sorprendente è sentire come, pur così lontani da noi, gli indiani abbiano assimilato le musiche occidentali e siano stati colpiti dall’immaginario occidentale.

Sono evidentissimi i riferimenti alle big-band alla Benny Goodman, così come alle colonne sonore di John Barry o Morricone o a tanti altri generi musicali occidentali (dal garage rock degli anni ’60 al funky nero degli anni ’70), ma il tutto non è né copiato né citato ma piuttosto metabolizzato e riproposto impregnato della cultura e tradizione (pop, ma non solo) dell’India.

Ed il risultato finale è una straniante esperienza: la musica dell’occidente ci torna indietro resa doppiamente “esotica” perchè i compositori indiani, giustamente, la percepiscono tale e, a loro volta, nel rivestirla e riviverla la riempiono di accenti che a noi risultano ulteriormente “exotic”.

Non so se sono riuscito a spiegare questo contorto corto circuito culturale, questo doppio sguardo che si incrocia a mo’ di dissolvenza incrociata sovrapponendo i reciproci esotismi, ma, credetemi, vale davvero la pena di provare questo strano cocktail.

http://www.nascente.co.uk

 

ELENI KARAINDROU, dal vivo a Roma, 10/6/2004

Capita raramente che dei compositori specializzati nella realizzazione di colonne sonore producano lavori che risultino assai superiori ai film che accompagnano.

Legata da tantissimo tempo in un sodalizio artistico con Theo Angelopoulos, Eleni Karaindrou ha dato vita ad una lunga serie di meravigliosi brani per supportare le immagini del cineasta greco (che, non lo nascondo, ho sempre trovato autore pesantissimo e insostenibile).

In questo concerto ha presentato una sorta di the best dei suoi lavori per il cinema, spesso ristrutturando i brani (in origine, come tipico delle colonne sonore, molto frammentati) in mini-suite nel tentativo di collegare organicamente i vari temi di una identica colonna sonora (come ha fatto, ad esempio, Michael Nyman col suo “Piano concerto” dove ha dato forma di concerto ai frammenti melodici che costituivano l’originale partitura per il film di Jane Campion).

Il risultato è stato alterno, come nel caso de “Lo sguardo di Ulisse” la cui parte centrale mi è sembrata un po’ dispersiva. Ma globalmente il concerto è decisamente riuscito. Abbiamo potuto ascoltare dal vivo, e ben suonate dall’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia integrata da alcuni solisti greci e dalla stessa Karaindrou al piano, le sue tipiche ampie armonie di archi all’unisono sulle quali si innestano di volta in volta le semplici ma efficacissime melodie degli strumenti solisti (l’oboe, l’accordion, più raramente il piano e il mandolino). Quello che colpisce della vena compositiva della Karaindrou è la sua capacità di evocare una nebbiosa malinconia che, lungi dall’addolorarci, ci riempie il cuore di serenità, appena velata da un pizzico di tristezza.

Ed è stato un godimento per le orecchie sentire l’orchestra, completamente priva di qualsivoglia amplificazione, risuonare cristallina nella sala Sinopoli dell’Auditorium disegnato da Renzo Piano. Mai avevo ascoltato degli archi così presenti e perfetti, naturali e forti. Una musica affascinante e intensa che dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che anche muovendosi nei territori noti della tonalità si può scrivere musica che suoni moderna senza risultare risaputa ma anche senza risultare incomprensibile all’ascoltatore.

Forse una direzione d’orchestra meno composta avrebbe dato un pizzico di energia in più, in certi momenti l’orchestra sembrava un pochino frenata, ma nel bis finale (il bellissimo “Valse“) si leggeva negli occhi e nei sorrisi di pubblico e musicisti la perfetta riuscita della serata.