Antonio Ballista (una intervista)

Sempre in attesa di tornare ad avere un po’ di tempo per scrivere qualcosa di minimamente strutturato, vi regalo questa breve intervista ad Antonio Ballista, dalla quale, tra l’altro, emerge la sua grande intelligenza e consapevolezza (non che ci fossero dubbi, vista la qualità della sua carriera).

Ballista dice: “Io penso che la musica, purtroppo, il pubblico non la può capire, la può godere“.

Io aggiungerei, specularmente, anche che: “i musicisti non possono godere della musica, la possono capire” (cosa che ho riscontrato spessissimo nelle chiacchierate avute con compositori e musicisti professionisti) .

BIS [2018]

Anche quest’ anno vi segnalo alcuni dischi che, come scrissi, riguardano “...artisti, o scene musicali, dei quali ho già parlato in passato. Dischi che non aggiungono nulla di particolare a quanto già scritto, e che quindi non meriterebbero un ulteriore post su queste pagine (sarei costretto a riesprimere gli stessi concetti già espressi in precedenza), ma che, allo stesso tempo, sono lavori davvero belli, lavori che se li avessi conosciuti prima sicuramente sarebbero stati citati nei post in questione.

Non sono dischi necessariamente pubblicati nel 2018, ma dischi che ho ascoltato e approfondito in questo anno solare che ci stiamo per lasciare alle spalle.


Iniziamo con un classico di queste parti: Enzo Avitabile (di lui vi ho parlato diffusamente qua e qua) che, con il suo “Lotto infinito” (2016) realizza l’ennesimo disco ricco di sostanza e musicalità. Forse non il suo più ispirato, ma certamente un disco molto al di sopra della media della roba che circola in giro. Come di consueto per lui, anche questa volta ricco parterre di ospiti tra i quali spiccano Francesco De Gregori, Elena Ledda, Paolo Fresu e l’immortale Giovanna Marini.

Altro abitué del mio blog è Arturo Stalteri. Negli ultimi anni ha preso a fare dischi con grande regolarità. Il suo recente “Low and loud” (2017) è un disco tipicamente suo: pianocentrico, caratterizzate dalle consuete composizioni ispirate, a metà tra Chopin e Mertens, e con la novità di alcune tracce dedicate agli amori musicali di Stalteri (i Rolling Stones, Bach, Pachelbel) e un omaggio a Rino Gaetano del quale Stalteri fu compagno di avventure alla It records.

Di Maurizio Bianchi vi ho parlato spesso (in particolare qui e qui), ma è davvero incredibile come nei suoi dischi, e ne ha fatti tantissimi, molti di più di quanti possiate immaginarne, ci sia sempre una idea di fondo forte e robusta, una necessità di pubblicazione che bussa forte dai solchi. Non fa eccezione “Ludium” (2009), stranissimo lavoro fatto a partire dai suoni di un pianoforte. Disco anomalo per lui, ma più che meritevole di (ripetuti) ascolti. E’ davvero un grande (relativamente) misconosciuto.

Le più recenti stagioni discografiche si sono segnalate per recuperi di materiale anche molto datato, ma attuale, forse, più oggi che allora.

Tra queste produzioni devo segnalarvi il bellissimo “Evoluzione interiore” (2018) di Juri Camisasca, registrato dal vivo a fine anni ’70, sorta di bootleg ufficiale di una bellezza inaudita. Un Camisasca lontano dalla forma canzone e catturato dall’amore per il suono, per la sua essenza più pura. Una performance eccellente che oscura moltissimi materiali prodotti, con molte più ambizioni, al giorno d’oggi.

Altra performance risalente ad un lontano passato è quella presente all’interno di “Drumming” (2018, riedizione di un disco pubblicato nel 1971 in pochissimi esemplari). Brano celeberrimo di Steve Reich, esecuzione meravigliosa con a suonare, tra gli altri, Jay Clayton, Jon Gibson, Joan La Barbara, Steve Chambers. Disco obbligatorio sia per chi già conosce quest’opera sia per chi non la dovesse conoscere (conosciatela !).

Non manca mai in questi “Bis” di fine anno Brian Eno che con il suo “Music for installations” (2018, 6 CD) raccoglie alcune sue musiche, come da titolo, per installazioni varie realizzate in un passato recente e meno recente. Questa pubblicazione va a smentire quanto scrissi qui, ma ben vengano questi cambiamenti di opinione quando il risultato è la circolazione di materiali di così buona qualità (in particolare “I dormienti“, “Atmospheric lightness” e “Kazakhstan“). Speriamo realizzi ancora box come questo (volendo ci sarebbero i presupposti).

Una grande sorpresa all’ascolto è stato invece “We could for hours” (2008) di Fabio Orsi e Valerio Cosi. Del primo vi avevo già parlato, con toni entusiasti, in questo post e in un bis precedente, ma questo disco, preso quasi per caso, non posso non elogiarlo. Drone music per, soprattutto, organo, sax ed elettroniche varie, in splendido equilibrio tra certo minimalismo sacro (Palestine, Gibson e Riley), il Battiato di “M.elle le Gladiator” e qualcosa di Stephen Scott. Musiche eternamente ascendenti nelle quali ci si perde con grande gusto.

Anche dei Radiodervish ho parlato spesso, il loro “Il sangre e il sal” (2018) conferma la loro cifra stilistica che ormai ha raggiunto la piena maturità. E se manca l’effetto sorpresa (le canzoni sono proprio come ci aspettiamo che debbano suonare) in compenso la vena compositiva è molto fresca e vivace e nel disco scorrono diversi brani tra i migliori della loro produzione. “Time for a coffee” e “Nuovi schiavi” sono i pezzi più coinvolgenti, ma tutto il disco conferma la bravura di un gruppo la cui lontananza dai riflettori del mainstream risulta sempre più inesplicabile.

Concludiamo con un pezzo di storia della musica. Karlheinz Stockhausen.
Normalmente si parla dei suoi brani storici, giustamenti considerati importanti e riusciti. Mi è capitato però di ascoltare questo relativamente recente “Elektronische musik mit tonszenen vom Freitag aus Licht” (1996), realizzato nella prima metà degli anni ’90, ed è un disco di musica elettronica non solo bello, ma molto sorprendente e terribilmente “avanti“. Il modo in cui Stockhausen gioca con i suoni, li modifica, li sposta nello spazio, è qualcosa di molto particolare capace di essere nuovo senza risultare indigesto. Considerate questo come un invito, a voi e a me stesso, ad approfondire le musiche composte da lui negli ultimi 15-20 anni della sua vita, è probabile che al loro interno ci siano delle perle rimaste immeritatamente nascoste.

Detto questo non resta che augurarvi

Buon Anno a tutti

 

PIERLUIGI CASTELLANO “Paradise lost vol.1-2-3”, 2017, autoproduzione

Pierluigi Castellano è, perdonatemi l’ennesimo uso di questa espressione retorica, uno dei segreti (purtroppo) meglio custoditi della musica di ricerca italiana.
Cercheremo in questo lungo post di disvelarlo agli occhi di quei tanti che non ne hanno mai sentito parlare (anche se io stesso vi parlai a suo tempo del suo lato giornalistico in questo post).

Esordisce nel lontano 1985 con “La boule de neige“, musiche per l’omonimo spettacolo teatrale di Fabrizio Monteverde, ed è un esordio col botto: fin dalla prima traccia, “Elisabeth“, splendida e fulminante, con una eccellente Patrizia Nasini alla voce in una forsennata rincorsa tra tastiere e archi, in una specie di originalissima non-canzone minimalista. A seguire un altro pezzo bellissimo, “La boule (tema doppio)“, molto più tranquillo, con un pianoforte che prima disegna lente melodie circolari per poi passare ad un insistito vagamente mertensiano (specie nelle voci, che in entrambi i brani, cantano in una lingua inventata, Castellano avrà sempre una particolare simpatia per idiomi fuori dal comune), con accelerazioni improvvise e melodie che si intersecano deliziosamente.
Ma anche oltre le prime due tracce, “La boule de neige” è un disco che stupisce per lo spessore della scrittura: un post-minimalismo europeo di ottimo livello che non aveva nulla da invidiare ai coevi Mertens, Nyman, Poppy e compagnia cantando, con, a volte, sorprendenti vicinanze con Mikel Rouse.

Peccato (e vedremo che un certo tipo di sfortuna sarà una costante) che la General music non lo distribuisca in maniera adeguata e questo gioiellino circoli pochissimo. Io devo personalmente ringraziare un bravissimo e competente commesso di Rinascita, quella nella storica sede di via delle Botteghe Oscure a Roma, che me lo fece ascoltare (ci misi un istante a decidere di comprarlo).

L’anno dopo la romana Mantra records (etichetta legata al fondamentale negozio Disfunzioni Musicali) distribuisce il suo secondo lavoro, “Danze“.
E’, per molti versi, il secondo capitolo di un medesimo progetto: anche qui troviamo raccolte musiche per spettacoli di teatro e danza, anche qui ritroviamo brani più tipicamente post-minimalisti (il Mertens allegro di “Cookin’ you” messo in, bellissima, apertura, le tastiere iterative e danzerecce di “Depero“, con i sax illuminanti nel finale, le riflessioni per pianoforte, tastiere e violino struggente di “Astasia“, con ancora l’eccellente Patrizia Nasini alla voce, e quelle con il flauto protagonista di “Pasolini“, la placida e intensa iteratività di “Fine senza fine“) come anche brani meno legati ad invenzioni melodiche (le percussioni di “Nella notte“, l’elettronica in libertà di “Fru Fru“).
Un secondo capitolo forse leggermente meno ispirato del primo, ma ancora di ottimo livello.

Passano 4 anni e, ancora per Mantra records, esce, in un CD dalla confezione originale e ambiziosa, “Noi, my, us“, lavoro che segna la raggiunta maturità di Castellano.
Disco compattissimo, senza cadute di tono, realizzato per tastiere più un piccolo, ma funzionale, ensemble acustico (clarinetto, tromba, violino, viola, violoncello) che, incorniciati tra due estratti de “La traviata” di Giuseppe Verdi, ci delizia con gioiellini tipicamente made in Castellano quali “In a wonderland” (ancora la voce, anzi le voci, di Patrizia Nasini in un brano che unisce ripetitività e cantabilità), l’allegro e trascinante “Nate zeko” (ancora le lingue inventate da Francesco Antinucci), l’elegante e tranquilla “Towitara” (con la Nasini che ci ricorda Meredith Monk per 9 minuti di assoluta meraviglia), la ritmata “Flatland” (quanto ho amato quel libro !), le volute raffinate di “Zavasta kino“, le tastiere circolari di “Natività” che man mano si arricchiscono in un classico crescendo-Castellano.

Dopo un disco così mi aspettavo che la fama di Castellano superasse non solo il Grande Raccordo Anulare, ma volasse alta anche oltre le Alpi. E invece nulla si muove (e va pure detto che, a distanza di anni, sfortuna vuole che quasi tutte, se non tutte, le copie di questo disco si siano abbronzate e ormai nemmeno i fortunati possessori dei CD hanno più la possibilità di riascoltare queste musiche).
Tanto per gradire anche la Mantra chiude, e Castellano smette di avere una casa discografica che credeva in lui.

Inizia così un periodo abbastanza avaro di pubblicazioni, interrotto dalla pubblicazione di un CD decisamente inusuale per gli standard ai quali Castellano ci aveva abituato. “Sevilla X” (1992, per la misteriosa etichetta AS) contiene due lunghi brani ambient (o, per meglio dire, due versioni della stessa composizione), piuttosto riusciti, prodotti per la sonorizzazione di una realtà virtuale voluta dall’ENEL per l’EXPO universale di Siviglia 1992. Lavoro interessante, ma sostanzialmente un unicum musicale nella produzione di Castellano.

L’intermezzo di “Sevilla X” si colloca all’interno di un lungo silenzio discografico di circa otto anni, ed è solo a cavallo del nuovo millennio che Castellano torna a produrre alcuni lavori: “Computer dreams“, nel 1999 e “2002“, tre anni dopo, entrambi sostanzialmente autoprodotti per la sua Orlando records, ed entrambi circolati pochissimo.

Computer dreams“, se dimostra una sempre ottima vena compositiva, sembra soffrire della realizzazione in perfetta solitudine (Castellano suona tutti gli strumenti) e di un certo dominio dei suoni sintetizzati. Contiene comunque diverse composizioni molto riuscite: segnaliamo in particolare l’iniziale “Hardware sex“, dall’inizio che occhieggia a certo Jarre per poi svilupparsi in splendidi incroci tra la chitarra elettrica, uno (pseudo ?) sax e le tastiere, l’elegantissima “Lysi waltz” dalle intricate melodie e un flauto traverso in bella evidenza, l’allegra “Speed of life” dagli esplosivi crescendo.

2002“, uscito solo in CDr, contiene 19 tracce medio-brevi, da poco più di un minuto ai 6 minuti, tutte caratterizzate dall’utilizzo di una elettronica a volte quasi-ambient, a volte più dissonante. Materiale abbastanza diverso dalle consuete produzioni di Castellano. Il disco si chiude con la lunga ventesima traccia, “Walking on crystals“, 13 minuti di avvolgenti atmosfere spaziali.

Sempre nel 2002 la piccola, ma prestigiosissima, Ants pubblica (purtroppo solo in CD-r…) l’opera sull’AIDS “Zonacalda“, primo disco in cui il nostro si confronta con un tema vero e proprio e con una qualche forma di teatro musicale, ed il risultato è interessante e valido.
Il disco è, in qualche modo, figlio, anche musicalmente, della trasmissione radiofonica Audiobox, vi suonano, tra gli altri, musicisti di spessore come Paolo Fresu e Luca Venitucci, e alterna dei recitati (su tappeti di musica apparentemente improvvisata) affidati a Federica Santoro a vere e proprie arie più vicine alla normale produzione di Castellano, per poi concludersi con delle appendici realizzate con Alvin Curran (il gran maestro romano-statunitense del minimalismo e dell’avanguardia degli anni ’70).
Altro lavoro meritevole, ma passato inosservato.

Segnaliamo, solo per dovere di cronaca, una uscita del 2008, “Open space“, pubblicata da Rai Trade. Disco mai visto e, di conseguenza, mai ascoltato, sul quale nulla possiamo dire.

A questo punto, e finalmente, dopo un decennio di silenzio, Castellano ricompare con una trilogia di lavori intitolati “Paradise lost” pubblicati (purtroppamente) solo in formato digitale.

Il primo volume, 7 brani per 73 minuti di musica (potete facilmente intuire la dimensione temporale dei brani) presenta composizioni caratterizzate da una morbida iteratività nella quale melodie circolari e arrangiamenti curatissimi regalano momenti davvero intensi.
In apertura “Xantia“, una meraviglia in eterna spirale circolare, nella quale tastiere e violoncello (quelli che sembrano essere gli strumenti principali di questo lavoro) costruiscono un tema splendidamente oscillante e continuamente in ripartenza con un finale arricchito da percussioni tribaloidi di grande effetto. Un gioiellino di livello assoluto che apre il disco alla grande.
Ma tutto il primo volume è comunque di buon livello: mi piace segnalarvi anche lo splendido e continuo borbottìo di “Alpha Centauri ascending” (tastiere ripetitive ad incrociarsi e sovrapporsi in un lento crescendo che sembra davvero elevarci verso stelle lontane fino all’arrivo delle percussioni che spostano leggermente il pezzo verso lidi vagamente oldfield-ani, ma un Oldfield estremamente dilatato), il pianoforte, of course, di “Piano rendering” che, dopo una lunga introduzione solista (con una melodia che mi ricorda qualcosa, ma non so cosa), viene affiancato dagli archi in un brano che può ricordare un Mertens passato nell’ammorbidente e che ci culla indefinitamente con dolcezza dispiegando variazioni semplicemente bellissime.

Il secondo volume, 9 brani per 76 minuti, presenta un uso interessante della chitarra elettrica (usata come strumento solista a cui viene affidata la melodia principale, ad esempio nell’iniziale “Rifferama“, dove, con l’aiuto di archi e voci emerge un pezzo di grande energia e fantasia, classicamente alla Castellano) e delle atmosfere più pop, magari vicine a certo prog strumentale inclassificabile come in “Apocalypsis“, dove è ancora la chitarra lo strumento sul quale poggia il brano (e qui, in certi punti, mi viene in mente nuovamente Mike Oldfield, non a caso un polistrumentista soprattutto chitarrista).
Degli altri brani di questo secondo volume, globalmente più discontinuo del primo, qualche rapida citazione per il bel lirismo di “Paradise lost” (11 minuti di melodia ampia e sontuosa, ancora con la chitarra in primo piano insieme agli archi, alle tastiere e a un violoncello commovente), i possenti (finti ?) fiati di una circolare “Andromeda Big B“, le inaspettate chitarre acustiche di “Portixeddu sunrise“.

Il terzo volume, altri 8 brani per 76 minuti, vede una presenza importante delle voci e spicca per un lirismo di alto livello.
Si apre con la ottima “Agnus Dei one“, tastiere delicatissime e ripetitive insieme a una stranissima, eppure intrigante, voce filtrata che canta in una lingua non comprensibile una melodia di quelle che piacciono a Castellano (capace di unire una oggettiva cantabilità con uno sviluppo inaspettato e originale) in un pacifico e memorabile crescendo. Più apparentemente sfuggente “Disco Brecht“: andamento claudicante, voce femminile ad inerpicarsi lungo melodie complesse, prima in solitaria poi insieme a un sax, in quello che potrebbe sembrare un brano difficile da ascoltare e che invece, per i miracoli tipici di Castellano, si risolve in una composizione che acchiappa l’ascoltatore e non lo molla fino alla fine. Un gioiello.
Discorsi più o meno simili, e risultati finali ancora eccellenti, per “Italian western 3” (ancora voce femminile al centro del brano, ancora una melodia bella articolata, tastiere tutt’intorno a completare il quadro, ma non fatevi ingannare dal titolo, Morricone non c’entra nulla), per la spettacolare “Lotus flowers” (voci femminili, melodia bellissima e intricata, linea di basso placida + violoncello e archi, e sempre quella circolarità in ascensione che è un marchio di fabbrica del miglior Castellano) e per “Millecolori” (altissime voci femminili in un brano che odora di primavera, con una scelta dei suoni molto particolare, un forse-organetto, un forse-dulcimer, una linea di basso borbottante che rasserena, qualcosa che si potrebbe ballare all’aperto tutti insieme).
Menzione speciale per la conclusiva “Chtulhu dance” che miscela archi e fiati atonali, rullante insistito, tastiere vagamente cosmiche in un frullato stranissimo, forse dalle ambizioni spettraliste, ma di grande effetto (e dura 10 minuti abbondanti).

Provando a tirare le somme potremmo definirlo un ritorno alla grande (fermo restando che proporre così tanti materiali tutti assieme mette in una certa difficoltà l’ascoltatore, forse sarebbe stato meglio fare una maggiore selezione, ma capiamo che, dopo tanti anni di digiuno, la voglia di proporre la propria musica fosse enorme).
In sintesi, e con nostra personale gioia, Castellano torna al suo meglio, con la consueta ricca vena compositiva, il suo stile personale e tutto ciò di bello che avevamo conosciuto in passato.

Volendo segnalare gli aspetti negativi di questa trilogia non possiamo non sottolineare la assoluta mancanza di un apparato iconografico (solo la foto di copertina, peraltro senza che vi sia indicato nulla) e informativo (nulla a parte i titoli dei brani). Oggettivamente un po’ troppo poco, anche perché io resto dell’idea che anche la musica liquida debba essere corredata da metadati utili all’ascoltatore.
Anche sulla qualità della registrazione ho qualche dubbio: premesso che l’ho sentito dalle cuffiette del PC (il mio stereo ancora non sa riprodurre i file FLAC) devo dire che i suoni mi sono sembrati un tantino troppo ammucchiati, come se la musica mancasse di spazialità, e anche un po’ troppo distorti in certi momenti.

In ogni caso: un artista di grande spessore e troppa poca fortuna.

Chi volesse approfondire questa trilogia, può ascoltarla e/o acquistarla cliccando qua.

p.s. Sottolineiamo come questa incredibile incapacità a vendersi (nel senso buono) di Castellano abbia fatto si che il suo sia probabilmente il nome più importante tra quelli assenti nel bel libro di Antonello Cresti “Solchi sperimentali Italia“, sorta di ponderosa mappatura di quanto abbia partorito lo stivale in tema di musiche “altre”. Mentre sono regolarmente, e giustamente, presenti i Venosta, i Milesi e gli altri artisti musicalmente affini a Castellano e a lui perfettamente coevi, di lui non vi è traccia nelle moltissime pagine del libro. E non è certo un caso.

KARLHEINZ STOCKHAUSEN “Mikrophonie 1”, 1966

Continuiamo con i video dedicati ad alcuni esponenti della musica (più o meno) d’avanguardia e cogliamo l’occasione per festeggiare i 90 anni dalla nascita di Karlheinz Stockhausen.

Questo video, risalente al 1966, quando Stockhausen aveva solo 38 anni, coglie una esecuzione di una composizione risalente a pochi mesi prima, “Mikrophonie 1” (titolo delizioso).

Oltre agli aspetti squisitamente musicali, vi invito a rivolgere la vostra attenzione a tutto il contesto e a realizzare che tutto ciò accadeva una vita fa.

 

 

Un’ora (e venti minuti) di (sottovalutate) ricerche italiane (1986-1998)

A partire dalla seconda metà degli anni ’80, fino alla fine dei ’90, vennero pubblicati diversi dischi di artisti italiani caratterizzati da importanti affinità. Non credo si possa parlare di una vera e propria scena, ma certamente ascoltando questi lavori, prodotti nell’arco di un pugno di anni, si nota come abbiano in comune i medesimi riferimenti musicali (la musica classica e contemporanea, il minimalismo e post-minimalismo, l’elettronica cosmica tedesca, la musica ambient…) e li abbiano miscelati in maniera molto efficace, partorendo lavori che risentono di tutti questi riferimenti ma che rappresentano chiaramente l’aria che si respirava in quel periodo, non disdegnando, a volte, l’utilizzo di strumenti acustici, anche se, in linea di principio, il grosso di questi lavori ha una matrice elettronica (computer, tastiere, nastri e campionatori sono gli strumenti dominanti).
Musiche deliziosamente borderline, non asservibili né all’universo delle musiche serio/contemporanee né a quello della musica pop (per quanto laterale e coraggiosa).

Gli unsung heroes di quei giorni furono musicisti quali Riccardo Sinigaglia, Piero Milesi, Pier Luigi Andreoni, Franco Nanni, Luigi Maramotti, Raffaele Serra, Francesco Paladino, Roberto Musci, Giovanni Venosta, Goffredo Haus, Paolo Modugno e altri che sicuramente dimentico, insieme ad alcune etichette illuminate quali la ADN, la Materiali Sonori, la Stile libero.

Questa playlist non solo non rappresenta il meglio di questa (non) scena, ma nemmeno riesce a mappagre le varie personalità che ne hanno fatto parte in maniera significativa. Semplicemente ci siamo arrangiati con quello che abbiamo trovato su Spotify (molto poco, ad essere onesti) nel tentativo di farvi fare comunque una vaga idea e, magari, incuriosirvi verso questi lavori, a mio parere, molto interessanti e tra le eccellenze musicali del nostro paese, qualcosa il cui valore forse è stato riconosciuto più all’estero che in Italia.

L’obiettivo a tendere è quello di portare questa playlist alle canoniche due ore, sperando che nel tempo alcuni importantissimi lavori degli autori citati compaiano su Spotify.
Per ora accontentatevi di questi, comunque ottimi, 80 minuti.

NEL CIELO DI INDRA dal vivo a Roma, il 3 febbraio 2018

Roberto Laneri è uno di quei musicisti e compositori italiani che, in barba alla qualità dei propri lavori, risultano pochissimo noti, anche tra gli addetti ai lavori, specie quelli stranieri.

E’ stato, storicamente, il più importante interprete italiano di canto armonico e il suo disco più celebrato è il capolavoro “La coda della tigre” dei Prima Materia (quartetto composto, oltre che da Laneri, da Claudio Ricciardi, Gianni Nebbiosi e Susanne Hendricks), pubblicato nel lontanissimo 1977 e recentemente ristampato con bonus tracks interessantissime dalla sempre attenta Die Schachtel.

Nonostante le buonissime recensioni e una certa fama, nei 40 anni che sono seguiti alla pubblicazione di questo disco i lavori di Laneri sono stati relativamente pochi e scarsamente presi in considerazione dalla critica.

L’ottimo “Two views of the Amazon” (Wergo, 1985, inspiegabilmente mai ristampato in CD), l’altrettanto valido “Memories of the rain forest” (Amiata records, 1994), l’introvabile, era stato allegato ad una rivista, e consigliatissimo, “Inside notes“, ancora insieme a Claudio Ricciardi, e gli altri dischi realizzati da Laneri non riescono più ad accendere le luci sulla sua arte. Ed è un peccato perché Laneri non è solo persona dotata e competente, ma è anche un compositore estremamente consapevole del suo ruolo e un instancabile divulgatore delle tecniche del canto armonico.

Il suo progetto più recente è un coro denominato “Il cielo di Indra” (“si dice che nel cielo di Indra vi sia una rete di perle costruita in modo che, guardandone una, in essa si vedono riflesse tutte le altre“), del quale Laneri è direttore, ed abbiamo avuto la fortuna di vederlo all’opera in un concerto nella romana Basilica di S.Eustachio.

La sensazione è che con questo progetto Laneri cerchi di testare le possibilità di contaminazione tra le tecniche del canto armonico e altri stili musicali. Non a caso dopo un primo brano (“Arkeion“) che è una sorta di esposizione del vocabolario di tecniche tipiche di questo coro, si passa ad una serie di brani in cui Laneri o si confronta con altre culture attraverso sue composizioni (“Organum“, legata/ispirata a Pérotin, o magister Perotinus, e tutta la scuola di Notre-Dame) o arrangia per il suo coro composizioni provenienti da altri ambiti (una bellissima versione di un compianto di Guillaume de Machaut, una interpretazione incredibile, metà overtones e metà raga, di “Spiritual” di John Coltrane, una delle sue grandi passioni musicali, Laneri oltre che performer vocale è anche suonatore di sassofono e di tanti altri strumenti).
Si aggiungono a questi brani due pezzi della tradizione: una canzone mongola (anche questa rivista in funzione del coro) e un inaspettato canto pigmeo arrangiato in maniera deliziosa.
Ha chiuso il concerto “Undifluus“, brano composto da Laneri, che chiude un po’ il cerchio ritornando ad atmosfere simili a quelle di apertura. Come bis hanno poi presentato un lavoro work in progress con ancora al centro il mondo della scuola di Notre Dame (e ancora un gran bel sentire).

Se l’idea di fondo dietro a questo progetto è sicuramente interessante, e mira a tirare il canto armonico fuori dalle secche di una certa autoreferenzialità, e se le composizioni di Laneri sono senza dubbio buone così come gli arrangiamenti di brani altrui, il concerto ha lasciato parzialmente a desiderare perché si ha l’impressione che, tecnicamente, il gruppo sia un po’ spaccato in tre parti: Laneri capace di un controllo pazzesco degli armonici, alcuni altri componenti con buone capacità e altri piuttosto indietro e non sempre all’altezza del proprio ruolo.
Va però specificato che questo progetto musicale non nasce con l’idea di poggiarsi su professionisti di canto armonico, quanto su persone legate dalla passione per queste musiche, e, forse, è proprio questo il risultato che il direttore e fondatore del coro si proponeva: creare contesti per la diffusione e lo sviluppo del canto armonico in Italia più che un pool di straordinari interpreti in un deserto generale.

In ogni caso un ottimo concerto in un contesto adattissimo (comprese le conclusioni di fine concerto ad opera di Don Pietro, un piccolo grande mito della Roma migliore)

tante altre informazioni le potete trovare sul suo sito ufficiale

5 concerti che ho visto nel 2017

  • Lino Capra Vaccina Roma, 28 gennaio
  • Lyke WakeRoma, 23 novembre
  • Il muro del cantoRoma, 10 agosto
  • KraftwerkPerugia, 7 luglio
  • Juri Camisasca e Rosario Di Bella – Roma, 9 gennaio