PIRA666 “Fratello cosmico”, 2011, Cervello meccanico rec.

Sono ancora vivo, ma in altre faccende affaccendato. Di corsa posto questo video riemerso dai miei prelievi nel pozzo sempre ricco della Cervello meccanico rec. (il loro sito è questo, ma per ragioni di obsolescenza non so quanto agibile per molti di voi, e anche per me).

Nella seconda loro raccolta dedicata alla “Musica per astronauti“, compare questa deliziosa “Fratello cosmico” di Pira666.
Elettronica intelligente, lunga e accattivante, che mi ricorda certi momenti degli Orbital, ma con un retrogusto DIY che solo noi italiani sappiamo dare.
Il video è più che meritevole.

Per cui appassionatevi anche voi a questa elettronica sotterranea, ma di primissima qualità.

BIS [2018]

Anche quest’ anno vi segnalo alcuni dischi che, come scrissi, riguardano “...artisti, o scene musicali, dei quali ho già parlato in passato. Dischi che non aggiungono nulla di particolare a quanto già scritto, e che quindi non meriterebbero un ulteriore post su queste pagine (sarei costretto a riesprimere gli stessi concetti già espressi in precedenza), ma che, allo stesso tempo, sono lavori davvero belli, lavori che se li avessi conosciuti prima sicuramente sarebbero stati citati nei post in questione.

Non sono dischi necessariamente pubblicati nel 2018, ma dischi che ho ascoltato e approfondito in questo anno solare che ci stiamo per lasciare alle spalle.


Iniziamo con un classico di queste parti: Enzo Avitabile (di lui vi ho parlato diffusamente qua e qua) che, con il suo “Lotto infinito” (2016) realizza l’ennesimo disco ricco di sostanza e musicalità. Forse non il suo più ispirato, ma certamente un disco molto al di sopra della media della roba che circola in giro. Come di consueto per lui, anche questa volta ricco parterre di ospiti tra i quali spiccano Francesco De Gregori, Elena Ledda, Paolo Fresu e l’immortale Giovanna Marini.

Altro abitué del mio blog è Arturo Stalteri. Negli ultimi anni ha preso a fare dischi con grande regolarità. Il suo recente “Low and loud” (2017) è un disco tipicamente suo: pianocentrico, caratterizzate dalle consuete composizioni ispirate, a metà tra Chopin e Mertens, e con la novità di alcune tracce dedicate agli amori musicali di Stalteri (i Rolling Stones, Bach, Pachelbel) e un omaggio a Rino Gaetano del quale Stalteri fu compagno di avventure alla It records.

Di Maurizio Bianchi vi ho parlato spesso (in particolare qui e qui), ma è davvero incredibile come nei suoi dischi, e ne ha fatti tantissimi, molti di più di quanti possiate immaginarne, ci sia sempre una idea di fondo forte e robusta, una necessità di pubblicazione che bussa forte dai solchi. Non fa eccezione “Ludium” (2009), stranissimo lavoro fatto a partire dai suoni di un pianoforte. Disco anomalo per lui, ma più che meritevole di (ripetuti) ascolti. E’ davvero un grande (relativamente) misconosciuto.

Le più recenti stagioni discografiche si sono segnalate per recuperi di materiale anche molto datato, ma attuale, forse, più oggi che allora.

Tra queste produzioni devo segnalarvi il bellissimo “Evoluzione interiore” (2018) di Juri Camisasca, registrato dal vivo a fine anni ’70, sorta di bootleg ufficiale di una bellezza inaudita. Un Camisasca lontano dalla forma canzone e catturato dall’amore per il suono, per la sua essenza più pura. Una performance eccellente che oscura moltissimi materiali prodotti, con molte più ambizioni, al giorno d’oggi.

Altra performance risalente ad un lontano passato è quella presente all’interno di “Drumming” (2018, riedizione di un disco pubblicato nel 1971 in pochissimi esemplari). Brano celeberrimo di Steve Reich, esecuzione meravigliosa con a suonare, tra gli altri, Jay Clayton, Jon Gibson, Joan La Barbara, Steve Chambers. Disco obbligatorio sia per chi già conosce quest’opera sia per chi non la dovesse conoscere (conosciatela !).

Non manca mai in questi “Bis” di fine anno Brian Eno che con il suo “Music for installations” (2018, 6 CD) raccoglie alcune sue musiche, come da titolo, per installazioni varie realizzate in un passato recente e meno recente. Questa pubblicazione va a smentire quanto scrissi qui, ma ben vengano questi cambiamenti di opinione quando il risultato è la circolazione di materiali di così buona qualità (in particolare “I dormienti“, “Atmospheric lightness” e “Kazakhstan“). Speriamo realizzi ancora box come questo (volendo ci sarebbero i presupposti).

Una grande sorpresa all’ascolto è stato invece “We could for hours” (2008) di Fabio Orsi e Valerio Cosi. Del primo vi avevo già parlato, con toni entusiasti, in questo post e in un bis precedente, ma questo disco, preso quasi per caso, non posso non elogiarlo. Drone music per, soprattutto, organo, sax ed elettroniche varie, in splendido equilibrio tra certo minimalismo sacro (Palestine, Gibson e Riley), il Battiato di “M.elle le Gladiator” e qualcosa di Stephen Scott. Musiche eternamente ascendenti nelle quali ci si perde con grande gusto.

Anche dei Radiodervish ho parlato spesso, il loro “Il sangre e il sal” (2018) conferma la loro cifra stilistica che ormai ha raggiunto la piena maturità. E se manca l’effetto sorpresa (le canzoni sono proprio come ci aspettiamo che debbano suonare) in compenso la vena compositiva è molto fresca e vivace e nel disco scorrono diversi brani tra i migliori della loro produzione. “Time for a coffee” e “Nuovi schiavi” sono i pezzi più coinvolgenti, ma tutto il disco conferma la bravura di un gruppo la cui lontananza dai riflettori del mainstream risulta sempre più inesplicabile.

Concludiamo con un pezzo di storia della musica. Karlheinz Stockhausen.
Normalmente si parla dei suoi brani storici, giustamenti considerati importanti e riusciti. Mi è capitato però di ascoltare questo relativamente recente “Elektronische musik mit tonszenen vom Freitag aus Licht” (1996), realizzato nella prima metà degli anni ’90, ed è un disco di musica elettronica non solo bello, ma molto sorprendente e terribilmente “avanti“. Il modo in cui Stockhausen gioca con i suoni, li modifica, li sposta nello spazio, è qualcosa di molto particolare capace di essere nuovo senza risultare indigesto. Considerate questo come un invito, a voi e a me stesso, ad approfondire le musiche composte da lui negli ultimi 15-20 anni della sua vita, è probabile che al loro interno ci siano delle perle rimaste immeritatamente nascoste.

Detto questo non resta che augurarvi

Buon Anno a tutti

 

MARIA MONTI “Il bestiario”, 1974, Ri-Fi

Il tentativo di coniugare stilemi della musica contemporanea/d’avanguardia/di ricerca con la forma canzone non è stato praticato spesso. Per quello che ricordiamo ci vengono in mente pochi titoli (ne parleremo nella prossima top 5) oltre naturalmente agli arrangiamenti di Luciano Berio per alcuni brani dei Beatles, ma lì siamo su un piano diverso da quello di cui ci vogliamo occupare.

Oggi vogliamo parlarvi di uno di questi rari tentativi, realizzato nel 1974 in una Italia ribollente sotto molteplici punti di vista.
Maria Monti in quel momento è conosciuta soprattutto come interprete di canzoni popolari, particolarmente del nord-Italia (era molto in voga la riscoperta di questi brani), ma anche come figura trasversale capace di unire canzone e teatro (non un caso la sua lunga relazione, non solo artistica, con Giorgio Gaber oltre alle sue radici nel cabaret) e come artista impegnata nella politica (con una sensibilità spiccata per le tematiche femministe).

In questo LP spiazza gran parte del suo pubblico, affidando gli arrangiamenti ad Alvin Curran, vulcanico americano trapiantato a Roma e noto per la sua attività con il collettivo (molto aperto) di improvvisazione MEV (Musica Elettronica Viva) e per dei lavori, molto vicini al minimalismo, particolarmente quello di Terry Riley, che presto vedranno la luce anche discograficamente.

L’unione tra queste due sensibilità ci regala un disco stranissimo e particolare, molto ispirato nei testi e nelle musiche e splendidamente in bilico negli arrangiamenti tra la necessità comunicativa delle canzoni e il background del tutto alternativo di Curran. Come se non bastasse nel disco suonano musicisti anch’essi poco abituati alle canzonette quali Roberto Laneri (con il quale più avanti Maria Monti farà parte del gruppo di ricerca sul canto armonico Prima Materia) o il sassofonista Steve Lacy.

Dieci canzoni, 47 minuti, nelle quali troviamo brani diversissimi.
Iniziamo alla grande con “Il pavone“, lentissimo, con tastiere immobili da un lato e Curran che fa borbottare mirabilmente le sue macchine dall’altro, mentre la Monti canta ieratica e la chitarra acustica di Luca Balbo punteggia il tutto.
No no no no” risente (in positivo) dell’esperienze cabarettistiche della Monti, supportata da strumenti in grande libertà (Lacy cinguetta alla sua maniera, ma in apertura e chiusura del brano il tocco di Curran si fa sentire). Discorso simile per la vagamente gaberiana “Lo zoo” con il piano al centro del pezzo in una specie di ragtime libero e leggero infiocchettato anche lui dal sax di Lacy. Toni branduardiani per “I camaleonti“, con le chitarre acustiche in primo piano e tutta una serie di disturbi radiofonico-elettronici a sporcarne la filigrana, fino ad un inatteso finale cosmico. Con “La pecora crede di essere un cavallo” torniamo sul mood del brano di apertura: ritmi lentissimi, continuo borbottare di tastiere e chitarre psichedeliche per un brano che è un gioiellino di raffinatezza.

In chiusura i due brani più lunghi del disco. Prima gli otto minuti de “Il letargo“, pianoforte che fraseggia tra un silenzio e l’altro, chitarra che detta il ritmo placido, sax a sottolineare il tutto, atmosfera da prima luce dell’alba, che piano piano vede gli strumenti prendersi sempre più libertà, compresa qualche tastiera che emerge cammin facendo. Un brano dove l’equilibrio tra improvvisazione e scrittura ha del miracoloso (più un finale sardo-centrico a dir poco sorprendente).
Dura invece oltre 10 minuti “Aria, terra acqua, fuoco“, forse il capolavoro del disco: chitarra minimalista, pianoforte che mi ricorda quello di Battiato durante il famigerato periodo-Ricordi, il canto ancora una volta lento e allungatissimo, un non-ritornello a spezzare il brano nella canoniche quattro parti indicate dal titolo. Una stranissima canzone che non è una canzone ma è una canzone.

Relativamente più consueti gli arrangiamenti degli altri brani, ma sempre, come minimo, piacevoli e riusciti.

I testi, davvero di ottimo livello, partono dai vari animali per trasfigurarli in metafore evocative di varie problematiche degli esseri umani, si avverte chiara l’aria culturale del tempo, ma senza un filo di retorica. Maria Monti interpreta il tutto con una incredibile varietà di registri, dimostrando eccellenti capacità canore e una attitudine a mettersi al servizio della canzone fuori dal comune.

Un gioiellino solo recentemente dissepolto dalle sabbie del tempo dalla sempre illuminata Unseen records, una operazione coraggiosa quanto riuscita e meritevole sicuramente di una fama maggiore rispetto a quello fin qui avuta.

Un’ora (e venti minuti) di (sottovalutate) ricerche italiane (1986-1998)

A partire dalla seconda metà degli anni ’80, fino alla fine dei ’90, vennero pubblicati diversi dischi di artisti italiani caratterizzati da importanti affinità. Non credo si possa parlare di una vera e propria scena, ma certamente ascoltando questi lavori, prodotti nell’arco di un pugno di anni, si nota come abbiano in comune i medesimi riferimenti musicali (la musica classica e contemporanea, il minimalismo e post-minimalismo, l’elettronica cosmica tedesca, la musica ambient…) e li abbiano miscelati in maniera molto efficace, partorendo lavori che risentono di tutti questi riferimenti ma che rappresentano chiaramente l’aria che si respirava in quel periodo, non disdegnando, a volte, l’utilizzo di strumenti acustici, anche se, in linea di principio, il grosso di questi lavori ha una matrice elettronica (computer, tastiere, nastri e campionatori sono gli strumenti dominanti).
Musiche deliziosamente borderline, non asservibili né all’universo delle musiche serio/contemporanee né a quello della musica pop (per quanto laterale e coraggiosa).

Gli unsung heroes di quei giorni furono musicisti quali Riccardo Sinigaglia, Piero Milesi, Pier Luigi Andreoni, Franco Nanni, Luigi Maramotti, Raffaele Serra, Francesco Paladino, Roberto Musci, Giovanni Venosta, Goffredo Haus, Paolo Modugno e altri che sicuramente dimentico, insieme ad alcune etichette illuminate quali la ADN, la Materiali Sonori, la Stile libero.

Questa playlist non solo non rappresenta il meglio di questa (non) scena, ma nemmeno riesce a mappagre le varie personalità che ne hanno fatto parte in maniera significativa. Semplicemente ci siamo arrangiati con quello che abbiamo trovato su Spotify (molto poco, ad essere onesti) nel tentativo di farvi fare comunque una vaga idea e, magari, incuriosirvi verso questi lavori, a mio parere, molto interessanti e tra le eccellenze musicali del nostro paese, qualcosa il cui valore forse è stato riconosciuto più all’estero che in Italia.

L’obiettivo a tendere è quello di portare questa playlist alle canoniche due ore, sperando che nel tempo alcuni importantissimi lavori degli autori citati compaiano su Spotify.
Per ora accontentatevi di questi, comunque ottimi, 80 minuti.

LAVERNA (terza parte)

Altra cinquina di lavori pubblicati dalla nostra prediletta net-label Laverna (le precedenti le trovate qui e qua).

Partiamo con “A long white sleep” di Leonardo Rosado. Quattro brani per 20 minuti caratterizzati da estrema brumosità, un’elettronica fosca e glaciale per niente rassicurante, ma molto affascinante.
Come spesso accade in questo tipo di musiche dietro un apparente immobilità c’è invece un intero universo di continui microcambiamenti che rendono l’ascolto interessante e coinvolgente. Più estatica l’iniziale “Variation in white n.1“, più rumorosa “Variation in white n.2“, più letargica “Variation in white n.3” (forse la traccia più convincente, come un guardarsi attorno di chi riesce a cogliere nel profondo l’essenza della natura), più vicina a certe atmosfere eno-ane (“On land“) la conclusiva “Variation in white n.4“.
Una musica capace di grande suggestione.

Anacleto Vitolo, qui con lo pseudonimo di AV-K, presenta nel suo “A centripetal fugue” oltre mezzora di suoni elettronici di squisita fattura e discreta varietà. “290513“, dark-ambient molto sporca e lacerata, introduce perfettamente questo rigoroso lavoro, segue il brano scelto per intitolare il disco, che profuma dei primi Kraftwerk, o dei primi Cluster, con suoni elettronici (che sembrano) analogici molto ben modulati, squisita descrizione di un sereno panorama post-industriale. Si prosegue poi con le vibrazioni ricche di disturbi, rumorini e pulsazioni di “Amniotico” (vagamente alla Biosphere), con “Frefall in slow motion“, immobile e celestiale, “Anxiety” e “S-FLM” , dai bassi profondi e lo sguardo dentro l’abisso. Si conclude l’ascolto con la ventosa “Rising“, le cui aperture mi ricordano certi momenti del Battiato di “Genesi” (ma mooooolto più dilatati).

Posthumous innocence” di Item Caligo  (al secolo Sergey Epifanov) è un ottimo lavoro tutto incentrato sul pianoforte e un clima malinconico-depresso. Quattro brani per circa mezzora a iniziare dai toni cimiteriali dell’ottimo “Faded before blossom” (poche note di pianoforte ripetute, con le dovute variazioni, con intristita insistenza tra azzeccati e, giustamente, contrastanti field recordings). Stessa atmosfera anche per “Stained” (ma con un pianoforte più leggero, rumori di passi, sguardo ora leggermente alzato verso il cielo), mentre “Rest in apathy part 3” torna su toni particolarmente plumbei (e qui la ripetizione del pianoforte si fa molto minimalista oltre che funerea). La conclusiva “Rest in apathy part 4” prosegue seguendo la formula delle tracce precedenti ma è quella che forse suona più solare: pianoforte molto ripetitivo, rumori d’ambiente e un pizzichino di elettronica vengono messi al servizio di un sentimento meno angosciato e libero di mostrarsi. Un lavoro delizioso.

Proseguiamo con il lunghissimo (abbondantemente oltre l’ora) “A distant veil” firmato da Orrorin Daydream, misterioso progetto belga il cui unico componente ci delizia con una dark-ambient sporca e nebbiosa in bilico tra certo Biosphere e certo industrial ritual-dronante. Particolarmente affascinanti le due lunghe composizioni che aprono e chiudono il disco: “A bestiary” (11 minuti di ipnotica risacca elettronica) e “Some words” (17 minuti di continuo e sommesso ringhio elettronico intarsiato da rumori angoscianti, un lento frustrante crepuscolo verso il nulla) insieme agli 8 minuti di “A somnolence” (moribund chorus e andamento lentissimo, vagamente vicino al finale di “Pollution“).

Concludiamo con “The summer of love” che sarebbe già di suo un buon lavoro di elettronica immobile e gelida realizzato da Marco Lucchi. Tre tracce per la solita mezzoretta scarsa di musica.
Spicca per contenere al suo interno un pezzo semplicemente bellissimo. Intitolato “Electric Eden” è caratterizzato da fortissimi, ma raffinati quanto espliciti, riferimenti al Battiato 1974-1975, e in particolare alla canzone “No U turn“. Chi ha amato quel Battiato e quella canzone non potrà non apprezzare questi quasi 9 minuti di omaggio realizzati trovando un prodigioso equilibrio tra citazionismo e scrittura compositiva, desiderio di manifestare l’amore per certa musica e trascenderla.

Per ora ci fermiamo, ma state tranquilli, to be continued 🙂


Chi fosse curioso di queste musiche e desideroso di verificare quanto scritto sopra, può farlo agevolmente utilizzando i link che trovate qui sotto.

Leonardo Rosado
AV-K
Item Caligo
Orrorin Daydream
Marco Lucchi

5 concerti che ho visto nel 2017

  • Lino Capra Vaccina Roma, 28 gennaio
  • Lyke WakeRoma, 23 novembre
  • Il muro del cantoRoma, 10 agosto
  • KraftwerkPerugia, 7 luglio
  • Juri Camisasca e Rosario Di Bella – Roma, 9 gennaio

 

FUTURO ANTICO “Futuro antico”, 1980, Black Sweat records

Quando nei primissimi anni ’90 comprai l’esordio in vinile del gruppo Futuro Antico, intitolato significativamente “Dai primitivi all’elettronica“, rimasi abbastanza deluso (soprattutto in relazione alle ottime recensioni che avevo letto).
Il gruppo, formato da tre musicisti di diversissima estrazione (Riccardo Sinigaglia, compositore di musica elettronica, Walter Maioli, ex-Aktuala e ricercatore di musica molto antica e Gabin Dabirè musicista di origine africana), aveva realizzato un disco nel quale si cercava di fondere le rispettive passioni e stili musicali, ma, almeno questa fu la mia impressione, i brani sembravano risentire di scarsa integrazione tra i tre con, di volta in volta, uno del gruppo a dare personalità ai brani e gli altri a fare poco più che da cornice. Il progetto sembrava mancare di omogeneità e reale integrazione tra i suoi componenti.
Riascoltato recentemente mi è sembrato migliore del ricordo che avevo, ma su questo, caso mai, torneremo nei prossimi mesi.

Quello che all’epoca non sapevo è che, prima del loro LP, era già stata pubblicata una cassetta autoprodotta a nome Futuro Antico contenente registrazioni risalenti addirittura al 1980.
A suonare c’erano solo i due italiani del gruppo: Sinigaglia alle varie tastiere elettroniche e agli effetti speciali più Maioli al ney (il ben noto flauto turco) e altri strumenti antico/primitivi (percussioni, flauti tibetani e armamentari vari).

Recentemente la Black Sweat records ha riproposto (per la prima volta) in CD questo lavoro che mi è, quasi per caso, capitato tra le mani.
E il disco mi è piaciuto davvero tanto.

Strutturato su quattro lunghi pezzi intorno ai 10 minuti, il disco vede interagire i due musicisti in maniera equilibrata e intensa.
Si parte con “Ao – ao“: le tastiere di Sinigaglia suonano ben memori del Riley di “Persian surgery dervishes” mentre il ney di Maioli disegna voli imprevedibili e incisivi. Un pezzo che si muove lentamente e rimane in costante equilibrio tra ipnosi e sprazzi di veglia.
Si prosegue con “Shirak“, stesse sonorità del primo brano e stessi riferimenti musicali (forse seconda parte di una medesima sessione di registrazione), ma una maggiore velocità e qualche momento di pura vertigine. Nelle tastiere qualche spruzzata kosmische sempre assecondata alla grande dal flauto di Maioli.
La terza traccia, “Uata Aka“, cambia mood: una leggera pulsazione elettronica, vagamente alla Cluster, sulla quale si innestano percussioni e flauto. Un pezzo di squisite libertà.
Conclusione in bellezza con il brano che da il titolo al disco (e al gruppo): percussioni, flauti e tastiere evocative in quello che appare come una specie di astratto panorama musicale dove si respira un’aria di bucolica e divertita mancanza di confini e steccati.

Per quello che mi riguarda una bella sorpresa.
Una interessante e meritoria riscoperta.

p.s. Bella la ecologica confezione del CD 🙂

p.p.s. Immagino che la Black Sweat records, e le altre etichette dedite a ristampe in ambito (più o meno) di musiche di avanguardia, abbiano le proprie buone ragioni per avere smesso di stampare le loro pubblicazioni ANCHE in CD, ma sappiano che esiste uno zoccolo duro di appassionati del supporto fisico che NON hanno il giradischi e NON vogliono comprare LP. Se questo disco NON fosse stato pubblicato anche su supporto digitale io NON l’avrei mai comprato. Siete sicuri che valga davvero la pena di non riservare una, magari piccola, tiratura in CD per quelli come me ?