BIS [2018]

Anche quest’ anno vi segnalo alcuni dischi che, come scrissi, riguardano “...artisti, o scene musicali, dei quali ho già parlato in passato. Dischi che non aggiungono nulla di particolare a quanto già scritto, e che quindi non meriterebbero un ulteriore post su queste pagine (sarei costretto a riesprimere gli stessi concetti già espressi in precedenza), ma che, allo stesso tempo, sono lavori davvero belli, lavori che se li avessi conosciuti prima sicuramente sarebbero stati citati nei post in questione.

Non sono dischi necessariamente pubblicati nel 2018, ma dischi che ho ascoltato e approfondito in questo anno solare che ci stiamo per lasciare alle spalle.


Iniziamo con un classico di queste parti: Enzo Avitabile (di lui vi ho parlato diffusamente qua e qua) che, con il suo “Lotto infinito” (2016) realizza l’ennesimo disco ricco di sostanza e musicalità. Forse non il suo più ispirato, ma certamente un disco molto al di sopra della media della roba che circola in giro. Come di consueto per lui, anche questa volta ricco parterre di ospiti tra i quali spiccano Francesco De Gregori, Elena Ledda, Paolo Fresu e l’immortale Giovanna Marini.

Altro abitué del mio blog è Arturo Stalteri. Negli ultimi anni ha preso a fare dischi con grande regolarità. Il suo recente “Low and loud” (2017) è un disco tipicamente suo: pianocentrico, caratterizzate dalle consuete composizioni ispirate, a metà tra Chopin e Mertens, e con la novità di alcune tracce dedicate agli amori musicali di Stalteri (i Rolling Stones, Bach, Pachelbel) e un omaggio a Rino Gaetano del quale Stalteri fu compagno di avventure alla It records.

Di Maurizio Bianchi vi ho parlato spesso (in particolare qui e qui), ma è davvero incredibile come nei suoi dischi, e ne ha fatti tantissimi, molti di più di quanti possiate immaginarne, ci sia sempre una idea di fondo forte e robusta, una necessità di pubblicazione che bussa forte dai solchi. Non fa eccezione “Ludium” (2009), stranissimo lavoro fatto a partire dai suoni di un pianoforte. Disco anomalo per lui, ma più che meritevole di (ripetuti) ascolti. E’ davvero un grande (relativamente) misconosciuto.

Le più recenti stagioni discografiche si sono segnalate per recuperi di materiale anche molto datato, ma attuale, forse, più oggi che allora.

Tra queste produzioni devo segnalarvi il bellissimo “Evoluzione interiore” (2018) di Juri Camisasca, registrato dal vivo a fine anni ’70, sorta di bootleg ufficiale di una bellezza inaudita. Un Camisasca lontano dalla forma canzone e catturato dall’amore per il suono, per la sua essenza più pura. Una performance eccellente che oscura moltissimi materiali prodotti, con molte più ambizioni, al giorno d’oggi.

Altra performance risalente ad un lontano passato è quella presente all’interno di “Drumming” (2018, riedizione di un disco pubblicato nel 1971 in pochissimi esemplari). Brano celeberrimo di Steve Reich, esecuzione meravigliosa con a suonare, tra gli altri, Jay Clayton, Jon Gibson, Joan La Barbara, Steve Chambers. Disco obbligatorio sia per chi già conosce quest’opera sia per chi non la dovesse conoscere (conosciatela !).

Non manca mai in questi “Bis” di fine anno Brian Eno che con il suo “Music for installations” (2018, 6 CD) raccoglie alcune sue musiche, come da titolo, per installazioni varie realizzate in un passato recente e meno recente. Questa pubblicazione va a smentire quanto scrissi qui, ma ben vengano questi cambiamenti di opinione quando il risultato è la circolazione di materiali di così buona qualità (in particolare “I dormienti“, “Atmospheric lightness” e “Kazakhstan“). Speriamo realizzi ancora box come questo (volendo ci sarebbero i presupposti).

Una grande sorpresa all’ascolto è stato invece “We could for hours” (2008) di Fabio Orsi e Valerio Cosi. Del primo vi avevo già parlato, con toni entusiasti, in questo post e in un bis precedente, ma questo disco, preso quasi per caso, non posso non elogiarlo. Drone music per, soprattutto, organo, sax ed elettroniche varie, in splendido equilibrio tra certo minimalismo sacro (Palestine, Gibson e Riley), il Battiato di “M.elle le Gladiator” e qualcosa di Stephen Scott. Musiche eternamente ascendenti nelle quali ci si perde con grande gusto.

Anche dei Radiodervish ho parlato spesso, il loro “Il sangre e il sal” (2018) conferma la loro cifra stilistica che ormai ha raggiunto la piena maturità. E se manca l’effetto sorpresa (le canzoni sono proprio come ci aspettiamo che debbano suonare) in compenso la vena compositiva è molto fresca e vivace e nel disco scorrono diversi brani tra i migliori della loro produzione. “Time for a coffee” e “Nuovi schiavi” sono i pezzi più coinvolgenti, ma tutto il disco conferma la bravura di un gruppo la cui lontananza dai riflettori del mainstream risulta sempre più inesplicabile.

Concludiamo con un pezzo di storia della musica. Karlheinz Stockhausen.
Normalmente si parla dei suoi brani storici, giustamenti considerati importanti e riusciti. Mi è capitato però di ascoltare questo relativamente recente “Elektronische musik mit tonszenen vom Freitag aus Licht” (1996), realizzato nella prima metà degli anni ’90, ed è un disco di musica elettronica non solo bello, ma molto sorprendente e terribilmente “avanti“. Il modo in cui Stockhausen gioca con i suoni, li modifica, li sposta nello spazio, è qualcosa di molto particolare capace di essere nuovo senza risultare indigesto. Considerate questo come un invito, a voi e a me stesso, ad approfondire le musiche composte da lui negli ultimi 15-20 anni della sua vita, è probabile che al loro interno ci siano delle perle rimaste immeritatamente nascoste.

Detto questo non resta che augurarvi

Buon Anno a tutti

 

5 antologie italiane di brani già editi

  • Cramps rec. Rock ’80” (1980)
  • Hi, Folks! records Acoustics in Italy” (1987)
  • Flyng recordsItalian posse – Rappamuffin d’azione” (1992)
  • Spittle recordsItalian records – The singles 7″ collection (1980-1984)” (2013)
  • StrutMutazione [Italian electronic & new wave underground 1980-1988]” (2013)

mutazione

IL MURO DEL CANTO, “Chi mistica mastica”, 2012, Goodfellas

Altro esempio di video estremamente curati anche se realizzati da gruppi lontani dal mainstream.

Loro si chiamano Il muro del canto e sono un gruppo post-Ardecore (del loro sorprendentemente seminale esordio vi parlai in questo post) che musicalmente tenta un singolare ponte tra la tradizione romana e musiche anglosassoni non tralasciando brani con lunghi talkin’ a metà tra Franco Califano e Remo Remotti.
Caratterizzati dal bel vocione di Daniele Coccia, l’uso del dialetto romanesco e un punto di vista sul mondo orgogliosamente sottoproletario e ferocemente anticlericale (come solo i romani sanno e possono essere), nel 2012 sono approdati al loro primo album di lunga durata “L’ammazzasette“.
A partire da questo disco hanno realizzato ben tre video, diretti da Carlo Roberti, di squisitissima fattura che compongono una trilogia in bianco e nero di ottima qualità.
Il primo video, “La spina“, utilizza il brano forse più bello dell’album (una canzone sull’amore che trasuda romanità da tutti i pori), per il secondo hanno invece puntato sulla drammatica “Cristo de legno“.

Ma il video più riuscito dei tre, a mio parere, è il terzo: “Chi mistica mastica“, e non solo per la presenza come ospite sotto i riflettori di Federico Guglielmi, quanto per l’essenzialità e la forza della storia narrata unita all’ottimo uso delle immagini.

p.s. Chi volesse vedere gli altri 2 video può cliccare qua per il primo o cliccare qua per il secondo.

ENZO AVITABILE “Black tarantella”, 2012, CNI

Vi avevo già parlato dell’interessante percorso musicale che sta compiendo Enzo Avitabile.
Partito tanto tempo fa con il progressive napoletano (area Osanna) e poi transitato a fianco di personaggi emblematici di quella città, quali Edoardo Bennato e Pino Daniele, era poi approdato ad una carriera solista all’insegna di un funky-pop nel quale Napoli guardava oltre oceano. Poi, nel nuovo millennio, la sua seconda incarnazione solista a fianco dei Bottari, gruppo di percussionisti particolarissimi, con i quali nel 2004 ha prodotto “Salvamm’o munno” disco di cui vi parlai in questo post ormai antico (al quale vi rimando per qualche dettaglio su questa originale formazione).

L’impressione è che dopo 8 anni questo progetto sia arrivato a piena maturità. “Black tarantella” è un lavoro nel quale, oltre all’assoluto stato di grazia di Avitabile in qualità di autore, si avverte come egli abbia perfettamente introiettato le possibilità delle ritmiche dei Bottari facendone un uso equilibrato e funzionale senza mai cadere nell’abuso delle stesse o nella loro presenza fine a se stessa. Attualmente Avitabile è perfettamente in grado di utilizzare le loro caratteristiche al meglio inserendole in qualunque tipo di canzone. Ha poi aggiunto una robusta sezione di ottoni che si sposano a meraviglia con le percussioni per realizzare un sound terrigno e dal groove caldissimo.

Negli ultimi anni, credo per causa di forza maggiore, sono aumentate a dismisura le collaborazioni tra artisti pop e questo disco sembrerebbe l’ennesima conferma di questo trend (accanto ad Avitabile ci sono una decina di special guests di assoluto spessore), in realtà credo di poter dire che Avitabile si renda conto di essere un discreto cantante e nulla più (nasce soprattutto come ottimo sassofonista) e che abbia colto l’occasione per far cantare (parte del)le sue canzoni ad artisti decisamente più capaci di lui nell’arte del canto donando ai suoi brani interpretazioni di primissimo livello.

E’ quello che si può ascoltare fin dalla prima traccia, la delicatissima “E’ ancora tiempo“, in cui duetta con Pino Daniele, anche alla chitarra, in quella che, come altri prima di me hanno scritto, è forse la (bella) canzone che Pino Daniele non riesce più a scrivere da oltre venti anni. Ma è tutto il disco a suonare benissimo e ad essere caratterizzato da una felice vena creativa.

Aizàmm’ na mana” è una classica tammurriata per le ritmiche trascinanti delle botti, tini e falci percosse dai Bottari, ma con la voce di Raiz (sempre più muezzin) a introdurla e le trombe della Scorribanda a sottolinearne la melodia principale. Il risultato è forse, per Avitabile, la canzone perfetta realizzata con questo gruppo. Sullo stesso piano di ritmi incessanti e ossessivi abbinati a ottoni potenti si muove “Mai cchiù” segnata dall’interessante collaborazione con i Co’ sang, la Napoli dei giorni nostri, il cui rap barricadero si sposa benissimo con questi ritmi antichi.

A seguire ci sono i mandolini di “Gerardo nuvola ‘e povere“, storia padano-partenopea di una morte bianca. Forse faccio un azzardo a dire quanto segue, ma mi sembra che da quando è morto De Andrè se c’è in Italia un artista che si è accollato il compito di narrare le storie degli ultimi, dei dimenticati, questi è proprio Enzo Avitabile. Sia nei dischi passati, sia in questo, sono tantissimi i brani dedicati a piccole tragedie quotidiane, storie di persone vissute, e spesso morte, ai margini della società (in questo disco li troviamo anche nelle disperazioni di “Elì Elì“, nelle piccole vite colpite da grandi tragedie di “Suonn’ a pastell‘”, nella intensa, quasi insostenibile, denuncia delle violenze effettuate ovunque nel nome di varie divinità cantata in “‘A nnomme ‘e Dio“, ottimamente adornata da un gran sax finale).

Nel narrare la storia di Gerardo, Avitabile, splendido nella parte recitata, è accompagnato dalla voce di Francesco Guccini che canta nel suo dialetto in un incrocio di lingue assai affascinante, mentre in “Elì Elì” sono le voci profumate di flamenco di Enrique e Solea Morente ad aggiungere intensità, e dramma, alla canzone e a gettare l’ennesimo ponte nel nostro Mediterraneo verso la penisola iberica. Altro episodio riuscito e quello con Franco Battiato, “No è no“, una morbida e orgogliosa ballata dal bellissimo contrasto tra la forza del testo e la dolcezza della musica

Ma nell’anima di Avitabile non c’è solo Napoli e il Mediterraneo, c’è anche un grande amore per il soul, per il funk, per l’Africa e lo troviamo in brani in cui tutto si miscela a meraviglia come “Mane e mane” (con Daby Tourè), o nel vertiginoso levare di “Nun è giusto” dove Bottari da un lato, gli ottoni dall’altro e il grandissimo Idir nel mezzo realizzano un mix musicale di grande originalità che viaggia da Napoli verso il Maghreb occhieggiando alla indimenticata, e internazionalista, canzone politica di inizio secolo scorso. La troviamo nella speranza-nonostante-tutto della quasi radiofonica “E ‘a Maronn’ accumparett’ in Africa“, nobilitata dalla presenza del grande vecchio David Crosby, e nel classico “Soul express” qui rivisitato con le magiche presenze della kora di Toumani Diabatè e della mandola+bouzouki di Mauro Pagani (ormai, meritatamente, mister prezzemolo della musica italiana).

Se volete ascoltare un disco di Enzo Avitabile è questo il lavoro che fa per voi.

Se volete ascoltare un gran bel disco è questo il lavoro che fa per voi.

MACINA+GANG “Cecilia”, 2004, Storie di Note

La musica di tradizione popolare è caratterizzata dal continuo interscambio tra interpreti e autori (senza che tra le due categorie ci sia una netta distinzione). Capita infatti spessissimo che nell’arco degli anni (e dei decenni, per non dire dei secoli) una determinata canzone subisca continue modifiche man mano che si sposta lungo il territorio (ovvero man mano che attraverso ignoti vettori la sua fama avanza per il paese) in quello che è un continuo intrecciatissimo prendere/rielaborare/divulgare.

Indipendentemente da colui che l’ha originata, la canzone, passando di mano in mano, viene continuamente modificata (nel testo come nella musica) producendo una (teoricamente anche infinita) serie di varianti più o meno somiglianti al prototipo iniziale.
Succede così non solo che di una determinata canzone si conoscano diverse versioni abbastanza simili, ma anche che su musiche diverse sia stata raccontata la medesima storia o che sulla stessa musica vengano appoggiati versi completamente differenti.

Un caso di questo tipo è quello di “Cecilia“.
Trattasi di un brano che ha gironzolato un po’ per tutta Italia e la storia, a volte raccontata meglio, a volte peggio, è sempre quella di questa donna il cui marito è stato incarcerato (si presuppone ingiustamente) dai locali rappresentanti del potere (generalmente incarnati da un ufficiale dell’esercito) e rischia l’esecuzione capitale. Cecilia va a chiedere la grazia per suo marito e riceve una vera e propria proposta indecente. Lei prende tempo e chiede l’assenso del marito che (inaspettatamente per l’etica del tempo che fu) arriva e decide quindi di sacrificare la sua virtù per amore del consorte.
Ma non bisogna mai fidarsi dei potenti, infatti dopo aver sottostato alle voglie del capitano Cecilia si affaccia dalla finestra e vede che il marito è stato appena impiccato in barba alle promesse fattegli. Distrutta dal dolore da quel momento non desidererà altro che aspettare la morte per poter finalmente ricongiungersi con il suo amato con l’unica speranza che i fiori sulle rispettive tombe ricordino il triste destino della coppia.

Questo brano l’avevo già incontrato in una versione piemontese eseguita da La ciapa rusa nell’ottimo cd “Aji e safràn“, più recentemente è stato recuperato nella sua forma romana dagli Ardecore (che a loro volta si sono rifatti alla versione che ne fece negli anni ’70 Gabriella Ferri, versione nella quale Cecilia si vendica uccidendo il capitano e finendo a sua volta in galera),
ma sono rimasto davvero molto affascinato da questa versione realizzata da La Macina (storico gruppo marchigiano di ricerca in ambito tradizionale) e dai Gang (tra i principali protagonisti del rock indipendente italiano nei primi anni ’90, autori di molti dischi interessanti e intelligenti) nella quale la ballata viene musicalmente trasformata in un rock-blues desertico e vagamente psichedelico nel quale la chitarra elettrica e l’organo creano una strano cortocircuito tra la storia cantata (decisamente antica) e l’atmosfera musicale (decisamente più moderna) rendendo il tutto meravigliosamente straniante. Gli inserti strumentali sono efficacissimi nel farci seguire il climax emotivo del pezzo e man mano che la tragedia si svolge è difficile rimanere indifferenti a ciò che viene raccontato.
Detto in sintesi: questo è un brano che emoziona, e molto.

La forza della canzone popolare.

p.s. Naturalmente la Cecilia della foto (siamo alla fine degli anni ’30) non è la protagonista della vicenda, ma solo una sua omonima che, come la Cecilia della storia popolare, è stata anche lei per un certo periodo privata della presenza del marito che fu tenuto prigioniero lontanissimo dal paese nativo ma, fortunatamente, solo per alcuni anni e senza finali così drammatici.

ELENA LEDDA “Amargura”, 2004, Marocco music

Questo disco sta alla musica del Tirreno (segnatamente alle musiche tradizionali di Sardegna, Campania e del resto del sud Italia) come “The mask and the mirror” sta alla musica celtica.

So che la matematica e le proporzioni mal si adattano alle questioni musicali, ma quando progetti diversi hanno finalità medesime credo sia il caso di sottolineare certe affinità.

Tutto nasce dall’inedita collaborazione tra Elena Ledda, la più importante interprete sarda della sua generazione, artista all’interno della quale convivono il presente ed il passato della cultura sarda, e Lino Cannavacciuolo qui in veste di autore di gran parte delle musiche e di sofisticatissimo arrangiatore.
L’unione di questi due artisti produce un disco che non contiene brani della tradizione (campana o sarda che sia), ma propone canzoni nuove che però sono pienamente immerse in entrambe le culture di appartenenza degli autori del progetto.
In buona sostanza si fa musica di oggi tenendo ben ferme le radici nella propria tradizione (intesa nel senso più ampio che possiate immaginare).

E già che c’erano i due si sono anche permessi il lusso di farsi accompagnare da valentissimi musicisti. Tra i tanti mi piace ricordare Mauro Palmas (polistrumentista sardo da sempre legato al percorso di Elena Ledda), Paolo Fresu (vi devo ricordare di chi si tratta ?) e poi alcuni dei tanti musicisti che hanno fatto grande Napoli negli ultimi decenni, tra questi l’indimenticato tastierista Joe Amoruso, Gigi De Rienzo, Tullio De Piscopo, Ernesto Vitolo, Giovanni Mauriello e, naturalmente, lo stesso Cannavacciuolo ai violini et similia.
Un progetto che già solo per la qualità e la quantità dei musicisti coinvolti dimostra le sue ambizioni.

E l’obiettivo è stato pienamente raggiunto: una scaletta formidabile piena di grandi canzoni, arrangiamenti lussureggianti, interpretazioni di primissimo ordine e grande originalità (così come fu nel disco di Loreena McKennitt citato all’inizio).

Tra le tracce particolarmente riuscite vi segnalo l’iniziale “Pesa“, dove subito si presentano assieme archi, benas, kemange e quartetto d’archi a costruire un corpo sonoro di intenso spessore con anche una vaga presenza mediorientale, l’inesorabile progressione di “Carinnius” con le percussioni a creare spazi enormi per il quartetto d’archi e il bouzouki di Paolo Del Vecchio (e la tromba di Fresu a ricamare e sottolineare), la passeggiata napoletana di “Palchì no torri ?” dal felicissimo ritornello all’odore di basilico e origano, la ballata notturna “Amargura” interpretata magicamente dalla Ledda, la divertita “Andu” persa per i vicoli di qualche città immaginaria con fisarmonica, violino e percussioni a menare le danze, le chitarre dolenti di “Sa lughe” (non lontane da certe atmosfere tipiche dei Madredeus), la turbo-taranta con mandolino frizzante ed echi N.C.C.P. di “Canticos“.

I testi (fortunatamente tradotti nel libretto del CD), scritti quasi tutti da Michele Pio Ledda, sono molto interessanti (e molto “sardi”), spesso venati di amarezza (non a caso è il titolo del disco) e sofferenza.

Due parole speciali le meritano le due cover presenti nel disco (entrambe virate in sardo, unica lingua utilizzata in questo progetto): “Nights in white satin” (da noi famosa anche nella versione che ne fecero i Nomadi, “Ho difeso il mio amore“) si tramuta in una ballata dolorosa dove la voce della Ledda e il violin zeta di Cannavacciuolo regalano pura emozione, mentre “Tre madri” di Fabrizio De Andrè, che cantata da una donna e interpretata con questa intensità e questa raffinatezza assume una forza e una drammaticità che non si riscontrano neanche nella versione originale, chiude il disco nel migliore dei modi possibili grazie anche ad un arrangiamento strappacuore (che recupera alcuni degli stilemi usati da Mauro Pagani nelle sue collaborazioni con De Andrè, e se c’è una figura italiana che possiamo avvicinare a questo disco è proprio quella di Pagani, anche lui capace di unire le sponde del Mediterraneo attraverso la sua lunga opera di musicista/autore/arrangiatore).

Musica di gran classe.

p.s. Lo so che non esiste nessuna “musica del Tirreno” così come non esiste nessuna “musica mediterranea”, ma, credetemi, se ascolterete questo lavoro scoprirete che, almeno per il tempo che dedicherete a queste canzoni questa musica esisterà e sarà straordinariamente reale.

CARLO SILIOTTO “Ondina”, 1979, Philips

Ho comprato il sesto cofanetto della serie “Universal Music Collection – Progressive Italia – gli anni ’70” perché al suo interno comparivano le primissime riedizioni digitali di “Cold nose” di Franco Falsini (chitarrista leader dei Sensation’s fix, qui in versione solista per un disco molto interessante al confine tra minimalismo rileyano e musica cosmica) e di “Movimenti nel cielo” di Maurizio Fabrizio (album dalle ambizioni oldfieldiane realizzato con tutta l’ottima “banda Branduardi” nel 1978 quando questo gruppo di musicisti era allo zenit della sua popolarità).
La grande sorpresa è stata invece questo disco di Carlo Siliotto che non conoscevo (se non di fama).

Alla fine degli anni ’70 molti dei musicisti italiani che si erano a lungo confrontati con le musiche tradizionali del nostro paese sembrarono sentire il bisogno di realizzare dischi nei quali tutto ciò che avevano imparato e scoperto riguardo la musica tradizionale dovesse integrarsi da un lato con la loro creatività e desiderio di esprimersi e dall’altro con tutte quelle altre musiche che in quegli anni li avevano appassionati.
Anche se oggi può sembrare strano nei grandi festival pop e raduni degli anni ’70 era consuetudine che suonassero di fronte al medesimo pubblico sia gruppi rock abbastanza canonici, sia musicisti più portati per la sperimentazione, sia musicisti affascinati dalla riscoperta di ritmi, melodie e strumenti tradizionali. Non c’era nessuna ragione per cui chi ascoltava la PFM non ascoltasse anche il Canzoniere del Lazio o la Nuova compagnia di canto popolare. Tutte queste musiche rientravano nel calderone ribollente che in quegli anni proponeva ovunque sonorità (fino a quel momento) inaudite.

Il risultato di tutto questo bailamme sono stati alcuni dischi belli e preziosi tra i quali non posso non segnalarvi, sia come esempio che come suggerimento, capolavori quali “Carnascialia” dell’omonimo collettivo e “Mauro Pagani” disco d’esordio solista dell’ex-violinista della Premiata Forneria Marconi.

Anche “Ondina” va inquadrato in questo momento storico e musicale e come i dischi di cui sopra cerca di unire elementi provenienti da diversi mondi (e diversi tempi) musicali.
Se la partenza è con la filastrocca “Filodiperle” (dalle parti del “Volta la cartadeandrèiano) è con il secondo brano, lo strumentale “Il mare salato“, che iniziamo a comprendere dove vuole portarci l’autore: chitarre e violini, e poi ottoni, a contrapporsi secondo arcaici ritmi mediterranei trasportati ai giorni nostri da qualche strana macchina del tempo (e qui il fantasma del grande Canzoniere del Lazio è più che una impressione…).
Si fanno anche molto apprezzare la veloce “Porto d’Oriente” dai colori mediorientali, i mandolini della sinuosa “C’è una donna” che nel finale si trasforma in una festa di percussioni sulla quale il violino di Siliotto fa meraviglie, i ritmi divertiti di “L’isola di Lamu” tra Caraibi e Mediterraneo, la conclusiva trascinante “Ondina” dalle ampie aperture armoniche con tanto di assolo finale (chitarra elettrica più tromba) da brividi.

Il difetto principale di questo lavoro è la voce di Siliotto che non sempre è all’altezza del contesto (del quale fanno parte, tra i tanti, eccellentissimi musicisti quali Edda Dall’Orso, Danilo Rea, Maria Nunzia Tambara, Marcello Vento, Giorgio Vivaldi…) tanto da ricordare i momenti meno brillanti di Mario Castelnuovo (ed è tutto dire…).

Uno dei tanti piccoli capolavori musicali lasciati ammuffire nei cassetti delle case discografiche per decenni.

MARIA CARTA “Umbras”, 1978, Polydor

Ci manca Maria Carta.

Ci manca il suo rigore, la sua voce cristallina, il suo saper essere popolare e mai populista, la sua capacità di coniugare la ricerca musicologica con una rara attitudine alla divulgazione, la sua paziente opera di innesto di rami nuovi sul grande albero della musica tradizionale.

Questo disco probabilmente non è il suo migliore e neanche il suo più importante, ma è uno dei pochissimi ad essere stato ristampato con un minimo di cura (discreta digitalizzazione, libretto completo di testi e informazioni, copertina abbastanza fedele all’originale, tre bonus tracks pescate da un album temporalmente prossimo) e, soprattutto, non è la solita antologia senza capo ne coda poverissima di informazioni sui materiali contenuti e dall’apparato iconografico ridicolo (e Dio solo sa quante ce ne sono in giro…).
E’ una delle pochissime edizioni digitali di materiali di Maria Carta che portino rispetto a questa straordinaria artista.

Le case discografiche sono bravissime a piangere miseria per il comportamento altrui (ah! i benedetti diritti d’autore), molto meno a stigmatizzare la maniera in cui l’opera di musicisti di assoluto valore viene smerciata da esse stesse (ah ! i diritti dell’autore).
Al solito si predica bene e si razzola male (e in questo, va detto, sono in buona compagnia).

Brava quindi la Universal a recuperare questi nastri e ben confezionarli.

Come indicato nelle note obiettivo di questo LP era quello di recuperare poesie di autori sardi risalenti ai secoli precedenti rivelandone una dimensione musicale che in qualche modo sarebbe intrinsecamente appartenente a questi versi. Dall’iniziale ed austera “Ave Maria catalana” (dal maestoso organo a canne) ci si sposta verso atmosfere più ballabili (“Ballada ogliastrina“, “Muttettu” con le gioiose launeddas di Mauro Palmas), o più intime (le chitarre di “No si poni resistì“, “Fiores pro una oghe“, “Non potho reposare“).

Come in tutti i lavori della Carta qui si può respirare un’aria dall’odore forte e definito: ascoltarla non significa solo godere di musiche belle ed intense, significa soprattutto riuscire ad entrare in un mondo di grande bellezza ricco e complesso. E lei è bravissima ad accompagnarci in un viaggio che non può non arricchirci.

Maria Carta non ci ha lasciato una discografia sterminata (alla fine credo abbia inciso meno di una ventina di dischi) e non ci dovrebbe voler molto a recuperare i master, digitalizzarli realizzando un cofanetto simile a quello recentemente fatto per Fabrizio De Andrè che li contenga tutti unitamente ad un librettone che contenga i materiali iconografici originali (eventualmente integrati con altre immagini o ulteriori testi esplicativi). Realizzare un’opera simile permetterebbe di preservare per i posteri un insieme di opere preziosissime, dargli la giusta dignità e soprattutto renderle nuovamente fruibili a tutti.

Non mi aspetto che le case discografiche realizzino un progetto del genere, ma la regione Sardegna, a mio parere, potrebbe destinare qualche fondo per recuperare un pezzetto di quell’anima sarda che tanto abbiamo amato e che tanto andrebbe divulgata prima che la si riduca ad un isola dalle due facce (entrambe false): la Costa Smeralda con i suoi bilionari da una parte, la terra abbandonata e le industrie dismesse dall’altra.

Esiste una fondazione dedicata a Maria Carta ma non mi sembra abbia la forza per ridare voce alla sua musica. Chi ha a cuore la bellezza della cultura sarda deve avere a cuore questi lavori e l’immensa caratura di questa musicista e interprete di prima grandezza.

Se non sappiamo conservare e coltivare queste eredità forse le generazioni precedenti hanno seminato invano.

La terza ChiaraStella

Ormai è tradizione. Il primo concerto dell’anno è con L’Orchestra Popolare Italiana diretta da Ambrogio Sparagna nella sua versione invernale (via il mandolino, dentro le zampogne). Serata sempre all’altezza (allietata dall’arrivo di Lorenzo, benvenuto tra noi ! 🙂 e dalla notizia di un nuovo cd a nome della OPI) con Maria Pia De Vito a fare da special guest vocale e la sala Sinopoli pienissima ad allargarci il cuore.

Questa volta mi piace soffermarmi rapidamente su alcuni dei tanti componenti (altri più stabili, altri stagionali) dell’OPI, i cui membri sono in ogni caso TUTTI di altissimo spessore musicale.

Da Clara Graziano (organetto di assoluta sensibilità e agilità), alle voci irruente e veracemente popolari di Eleonora Bordonaro e Gianni Aversano, a due polistrumentisti che fanno a gara a (ben) suonare gli strumenti più strani (Erasmo Treglia e Raffaello Simeoni) quali il violino a tromba (non-so-come-definirlo-meglio), la ghironda, ciaramelle et similia di tutte le foggie, il salterio (o forse era un dulcimer a martello ?), conchiglie, ocarine e quant’altro. E poi lo splendido sorriso e la fluente chioma di Valentina Ferraiuolo,puntualissima e infaticabile alle tammorre e alle percussioni, Orlando Mascìa e il suo gruppo di impressionanti suonatori di launeddas, fino alla chitarra perfetta di Cristiano Califano sempre umilissimo al servizio dell’Orchestra. Infine due parole speciali per la new-entry Federica Santoro alla intrigantissima lira (strumento ponte con il medio-oriente, quanto ne abbiamo bisogno di questi suoni…) e Alessia Tondo con la sua voce che continua a emozionarmi in maniera profondissima e unica.
Citando Sparagna (ieri sera, ma oggi si replica alle 18) “E’ questa l’Italia che ci piace, l’Italia delle zampogne“.

L’Italia che resiste.