ROBERTO CACCIAPAGLIA “Heimat”, 1986, Fonit Cetra

Generazioni del cielo” è un’opera/oratorio di Roberto Cacciapaglia che abbiamo amato, e amiamo, molto.
Pubblicata nel 1986, non immaginavamo che all’epoca, chissà per quale uso, fosse stato realizzato anche un video ufficiale (pensavano di passarlo su VideoMusic ?).

Con soli (quasi) 40 anni di ritardo, ma con grande piacere, ve lo proponiamo ora.
Riguarda una delle tracce più belle, “Heimat” (Patria in tedesco).
E, a dispetto del meritato successo degli ultimi lustri, pensiamo che il Cacciapaglia più interessante e valido sia da queste parti, e non tanto nei suoi dischi pianocentrici (nel senso di centrati sul pianoforte).

Italia – Germania (4 a 3)

Stare spesso a Berlino mi porta ad avere una particolare attenzione per la cultura (intesa in senso ampio) tedesca. Succede quindi che mi passa tra le mani (anzi, tra le orecchie) questa canzoncina di metà anni ’80, di un gruppo del quale nulla conosco, tali Höhner (nome traducibile forse come “coloro che ghignano“), intitolata “Pizza wundaba” (dove wundaba, che si pronuncia vundabà, altro non è che una volgarizzazione di wunderbar, meraviglioso/a).
Come potete ascoltare qua sotto, si tratta di un brano ironico-umoristico, che esalta la pizza e, nel farlo, utilizza nel suo testo molte parole italiane (usate più o meno a proposito).

Ho messo sopra un live televisivo, preferendolo al più asettico ascolto del solo audio (che, se preferite, potete provare cliccando qua).
Il brano non ha particolari aspirazioni artistiche, ma dei versi come:
Pizza, pizza per me! Pizza Carabinieri, buon appetito
immagino sarebbero stati invidiati da Ungaretti e ancor di più da Marinetti.
🙂

Ascoltare questo pezzo mi ha fatto venire in mente un’altra canzone, per molti aspetti simile, intitolata “Zuppa romana” portata al successo dagli Schrott nach 8 (sempre tedeschi) e che mi fece scoprire il sempre ottimo Maurizio “Inno”, amico e compagno di mille avventure.

Quest’ultima ha il testo integralmente in italiano, ed è una sorta di collage semi-casuale di parole quasi sempre in tema gastronomico.

A questo punto mi è partita una piccola, forse banale, riflessione. E’ evidente che se in Germania sono state prodotte canzoni siffatte è perché i tedeschi hanno familiarità con molte di queste parole nostrane (tanti anni di vacanze sull’Adriatico non sono passate invano). A questo, parlando più seriamente, si aggiunge la storica italiensehnsucht della quale sembrano soffrire, un legame con la cultura del nostro paese, specie quella più classica, sorprendentemente forte.
La domanda che mi sono posto a questo punto è se noi abbiamo mai realizzato qualcosa di simile: canzoni con all’interno parole tedesche, utilizzate proprio perché ben conosciute, scelte per dipingere una Germania, magari di cartapesta, come l’Italia di questa pizza meravigliosa, ma sempre espressione di una visione esterna.

Onestamente non mi sono venute in mente canzoni paragonabili a queste.
La spiegazione può essere che le parole tedesche con cui abbiamo familiarità sono pochissime. A livello gastronomico forse solo würstel e kartoffeln (troppo poco per farci una canzone), più alcuni residuati bellici, forse più noti agli over-50 che alle nuove generazioni (achtung, verboten, raus…).

Per quella che è la mia esperienza, direi invece che il tedesco lo abbiamo spesso utilizzato in ambito di musiche più di ricerca (elettronica, industrial, esoterica…).
Un esempio storico è questo brano di Battiato, datato 1973, con al suo interno un lungo recitato in tedesco.

Il recitato torna alcune volte, ad esempio lo trovate al minuto 1:53 per una cinquantina di secondi.

Un altro esempio può essere questo pezzo dei Kirlian Camera.

Sembrerebbe che l’uso del tedesco sia finalizzato ad esprimere un certo tipo di stato d’animo, come se rimandasse a qualcosa di serio e importante (forse un retaggio dei grandi filosofi tedeschi dell’Ottocento, chissà…).
Di sicuro c’è una importante differenza in come vengono rispettivamente usate le due lingue all’interno delle canzoni e della musica in generale.
E tutto sembrerebbe confermare quel famigerato detto che reciterebbe: “I tedeschi amano gli italiani, ma non li stimano. Gli italiani stimano i tedeschi, ma non li amano“.


p.s.
Altri due esempi a conforto di quanto scritto sopra.
Un brano dei sempre grandi Gronge, con un lungo recitato nella parte iniziale.

E un Battiato targato 1995 in cui, dal minuto 2:36, parte un altro lungo recitato in tedesco (testo originale di Manlio Sgalambro,  in italiano, tradotto in tedesco per l’occasione…)

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Altri due anni sono passati, ed è arrivata la diciottesima antologia, distillato dei miei ascolti.
Partiamo dal titolo “Diese tage (questi giorni)“.

Sono stati anni e giorni complicati, per ragioni personali, chi mi conosce lo sa, sia per questioni, diciamo così, di pubblico dominio. Ma “questi giorni” sono emersi anche nelle canzoni capitate in questa antologia: giorni di maggio che scivolano via, giorni dorati degli anni ’20 (no, non QUESTI anni ’20, ma quelli del secolo precedente), giorni estivi in Liguria, giorni recenti che ci hanno scosso in profondità. Il titolo in tedesco sottolinea come diverse di queste canzoni siano interpretata in questa lingua ritenuta ostica per le canzoni (e forse non a torto, ma cantare in tedesco si può, eccome se si può…).

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Musicalmente invece questa è una antologia dai contrasti molto forti, specie nelle atmosfere e nelle attitudini. A volte è davvero straniante passare da un pezzo all’altro, e questo la rende davvero speciale.
I brani sono tutti bellissimi (ça va sans dire): troviamo un paio di arie da opere barocche (l’avevo minacciato in precedenti post), un paio di inediti clamorosi (uno di un noto collaboratore di Battiato, l’altro di un progetto genovese che non conoscete, ma adoro alla follia, e del quale è riemerso dall’oblìo, il progetto si è sciolto quasi 20 anni fa, un pezzo sopraffino), un paio di pezzi di un cantautore di nuova generazione (chi dice che ascolto solo musica antica ?) uno dei quali strepitoso e tra le cose migliori in assoluto prodotte in questi ultimi due anni. Tra gli altri ingredienti anche un pizzico di romanità, qualcosa di giapponese, qualcosa di pop-elettronico contemporaneo, qualcosa da vecchi vinili mai digitalizzati, qualcosa da Berlino e qualcosa di abbastanza noto.

In tutto 19 brani conturbanti e impegnativi.

p.s. come sapete queste mie antologie non sono più distribuibili, per varie ragioni, per cui considerate questo post un semplice pezzetto di diario personale. 

La gioia della musica

Torniamo a parlare di programmi RAi dedicati alla musica, ma questa volta ci riferiamo ad un programma televisivo, “La gioia della musica“, arrivato alla sua seconda stagione su RAI3 per un totale di quasi 50 puntate da 20 minuti circa l’una.

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Presentata dal sempre ottimo Corrado Augias, ogni puntata parla di una specifica composizione di musica classica (un’opera, un concerto, una sinfonia…) e si conclude con l’esecuzione di un frammento dell’opera stessa eseguito dall’Orchestra Nazionale della RAI di Torino.

Chiarisco subito che, a differenza di quest’altra trasmissione RAI, questo programma mi trova in disaccordo su molte delle sue scelte.
Non condivido la selezione delle opere presentate (troppo italocentrica, troppa opera lirica, mancanza di autori enormi, ad esempio mi sembra che non sia stato trasmesso nulla di Handel, troppa ricerca del brano o dell’aria famosa, facile scorciatoia per recuperare audience) e nemmeno condivido l’approccio della trasmissione alla descrizione/narrazione delle opere e degli autori presentati.
Se vanno bene alcune pillole biografiche, utili a contestualizzare il brano, e sono sempre ben accette le parti in cui Augias parla del contesto, storico, politico, culturale, nel quale è stata pensata l’opera, trovo davvero disarmante l’approccio continuamente elogiativo nei confronti degli autori (grandioso, mirabile, straordinario…). Non che non meritino questi aggettivi (almeno quasi sempre), ma trovo fuori luogo questo eccesso di complimenti verso autori che già sono ampiamente celebrati nella cultura (popolare e non) nostrana. Non è necessario che ogni passaggio, ogni accordo scritto da costoro, venga fatto apparire ogni volta come un assoluta meraviglia. Non è lì il punto legato alle composizioni analizzate, non ne parliamo per ribadirci quanto erano bravi quei compositori. Appare sempre (anche) come un auto-complimento dei presenti che sembrano dirci quanto sono bravi loro ad apprezzare queste musiche.
Trovo poi particolarmente fastidioso il riferirsi alla musica di cui si parla in termini di mimesi o di espressività. Davvero pensiamo che il fatto che quel certo arpeggio richiamerebbe il rumore dell’acqua, o che quei certi accordi rimanderebbero ad un certo stato d’animo, sia significativo (oltre che vero) ? Davvero questo meravigliarsi perché il compositore attraverso certe scelte si sarebbe sforzato di evocare qualcosa rende quella musica più comprensibile o più bella ? Io, come sapete, continuo a preferire la musica che non esprime altro che se stessa (da Bach a Reich) e trovo che quella espressionista sia una deriva della musica di cui avrei fatto ampiamente a meno, ma, in ogni caso, non credo che la grandezza di una composizione sia nell’evocare ruscelli o uccellini, ma nella sua forma più pura e nell’ascolto più libero possibile.
Trovo, infine, anche terribile che dopo 15-16 minuti di chiacchiere e discussioni sulla composizione ne venga presentato un minuscolo frammento. A volte, nel caso di qualche aria d’opera, si riesce ad ascoltarla per intero, ma quando si parla di concerti o sinfonie ecco che non hanno nemmeno la forza di eseguire magari un solo movimento, ma integrale. No, la tendenza è a selezionare un pezzettino di un movimento e far ascoltare davvero troppo poco di un opera che, poco prima, veniva magnificata come straordinaria. Un po’ di rispetto per l’integrità dell’arte sarebbe sempre necessario (qualcuno avrebbe il coraggio di parlare per un quarto d’ora della Cappella Sistina per poi mostrarne agli auditori un solo metro quadro negandone la visione complessiva ? Ma si sa, la musica è sempre troppo lunga e troppo noiosa per la televisione).

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Ma a dispetto di quanto scritto sopra, trovo che questa sia una trasmissione assolutamente necessaria e sono felice che la RAI l’abbia fatta e poi addirittura approvata per una seconda stagione. Perché queste acque devono essere smosse, il Servizio Pubblico deve avere il coraggio di osare in territori che sulle reti private sono negati, deve farsi forte della qualità della sua proposta per sfidare l’Auditel e realizzare materiali di qualità che tocchino certi argomenti, materiali che possono anche essere oggetto di eterne repliche sempre attuali (vedi anche l’ottima esperienza di “Passato e presente” su RAI Storia).
Comunque la si pensi su questo prodotto, migliorabile come tutto ciò che è fatto da umani, è importante che la RAI si abitui, e abitui i suoi telespettatori, a proporre anche in prima serata (e dintorni) qualcosa che vada oltre il chiacchiericcio vuoto dei talk show o le fiction autoprodotte condite con quintali di volemose bene e viva l’amore.

E quindi, al netto di tutte le mie critiche: che vengano altre stagioni e altre ancora dedicate alla gioia della musica.


(su RAIplay trovate tutte le puntate)

Potsdamer platz 1920-1934 Berlin (Sounds of an era)

Da qualche tempo sto ascoltando, sono circa a metà, l’ennesimo cofanettone, dedicato questa volta alle canzoni della swinging Berlin degli anni 20 (e dintorni), un box dal ricco contenuto (10 CD per 200 canzoni) e dal lungo titolo (che dà il nome a questo post).

Chi mi conosce sa quanto ritenga interessanti, memorabili e stimolanti, artisticamente parlando, ma non solo, gli anni che seguirono la conclusione della Prima Guerra Mondiale, e, innamorato di Berlino quale sono, non potevo esimermi dal provare ad annusare l’aria che si respirava in quegli anni.

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A dispetto di quanto mi aspettassi ho trovato grosse similutudini con la coeva musica italiana (tipo questa, o quest’altra, ma con stili più spesso vicini a Rodolfo De Angelis che al Trio Lescano), ho ascoltato musicisti di primissimo livello, orchestre e interpreti raffinati, musiche mediamente più distanti da Kurt Weil di quanto fosse lecito ipotizzare, e, in generale, ho percepito come Berlino fosse attraversata da una incredibile voglia di divertimento e di allegria in anni, lo voglio sottolineare, davvero complicati. La sconfitta nella Grande Guerra, i tantissimi morti al fronte, le decisioni prese nella Conferenza di Parigi, la conseguente crisi economica, le conflittualità legate a Weimar, le repressioni a sinistra, la progressiva ascesa del nazismo… tutto spingeva per giorni in cui si dovesse stringere la cinghia e avere cautela e invece, grazie anche al boom mondiale della radiofonia, nei locali notturni berlinesi ci si lasciava andare a balli travolgenti (tanzmusik !), canzoni umoristiche e atmosfere ridanciane e peccaminose spesso ricche di esotismi evocativi.

Ma la ragione per cui sto scrivendo questo post va oltre tutto questo.

Non conoscendo il tedesco, tendo ad ascoltare soprattutto la musica e a non concedere particolare attenzione ai testi, ma, ogni tanto, capita di avere l’impressione di riuscire a cogliere dei significati e, se incuriosito, vado in rete a cercare informazioni sul testo di qualche canzone.

Mi è successo una prima volta con “Die Großstadt-infanterie“, cantata da Kurt Gerron. Il testo parla (e un po’ l’avevo azzeccato) dei rischi che correvano i pedoni nella Berlino di quegli anni, continuamente a rischio di essere investiti dalle indisciplinatissime auto circolanti (pare incredibile, ma evidentemente passeggiare lungo le strade in quei giorni esponeva a discreti rischi).

Sempre più incuriosito sono andato a cercare notizie su Gerron, una specie di Aldo Fabrizi tedesco, attore e cantante al tempo stesso, come si usava in quello che noi chiamavamo “varietà“, ma anche regista cinematografico. Vengo così a sapere che, in quanto ebreo, dovette interrompere la sua carriera di artista, fuggire in Francia prima e in Olanda poi, ma, ciò nonostante, finire comunque nel campo di Theresienstad per poi morire ad Auschwitz, poche ore dopo esserci arrivato e poco prima che il lager venisse abbandonato dai nazisti.

Qualche tempo dopo mi incuriosisco per un altro brano, intitolato “Das ist Berlin auf der Tauentzien” perché, come da titolo, mi sembra parlare di una zona berlinese famosa per lo shopping ancora oggi.

Anche qui cerco informazioni, ma non riesco a trovare il testo, non sempre in rete si trova tutto, cerco allora di sapere qualcosa di più sul suo interprete, Willy Rosen, e scopro che ha avuto un destino praticamente identico a quello di Gerron.


A questo punto continuo gli ascolti, ma qualcosa è cambiato.

Perché già suonava strana tutta questa allegria relazionata al recente passato e al presente, sia di chi scriveva e cantava questi brani, sia di chi li ascoltava, ma a questo ora si sovrappone anche la consapevolezza che, pochi anni dopo, molti di loro cadranno nel dramma della persecuzione razziale, altri diventeranno dei carnefici, altri cercheranno di rimanere nel mezzo e dovranno vivere in una Berlino bombardata giorno e notte.

Perché una delle cose che amo di Berlino è proprio la compresenza di tratti così discordanti: amore e odio, bellezza e orrore, arte e violenza, natura e tecnologia, Storia e storie.

E anche in queste canzoni che avevano il solo obiettivo di regalare qualche istante di buonumore e allegria, c’è qualcosa di più di quello che ci sarebbe dovuto essere.

A Berlino non sono mai solo canzonette.

p.s. Per chi fosse curioso sulla Berlino durante Weimar, consiglio la serie televisiva “Babylon Berlin” che prova a raccontarla in maniera dettagliata e, a mio parere, efficace.

Archiv Produktion 1947-2013

Qualcuno di voi ricorderà il mio entusiasmo per i “cofanettoni” di musica classica (e non solo) comparsi sul mercato discografico negli ultimi lustri (ad esempio ne ho parlato qua e qua).
Economici, qualitativamente spesso eccelsi, rappresentano un modo interessante per approfondire la musica cosiddetta classica.

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Ho comprato, ascoltato (ci ho messo 5 anni esatti…) e approfondito uno di questi oggetti, con una soddisfazione difficile da comunicare. Si intitola “Archiv Produktion 1947 – 2013” e, come intuirete, festeggia i 55 anni di attività di questa prestigiosa etichetta attraverso 55 CD che hanno il compito di celebrare e riassumere le produzioni di questa sussidiaria della Deutsche Grammophon.
Il sottotitolo del cofanetto “A celebration of artistic excellence from the home of early music” riassume benissimo il senso dell’operazione. Grazie ad alcuni sconti l’ho pagato poco meno di 65 euri, fate voi i conti di quanto possa essere economica una simile concentrazione di capolavori.

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Ascoltare questi dischi significa effettuare una molteplicità di viaggi, uno più bello dell’altro. Provo a riassumerli.

1) Il primo viaggio, il più ovvio, è quello nell’universo della musica antica e barocca. La Archiv fin dal suo nascere si è specializzata in quel periodo che, grosso modo, va dalle prime tracce pervenute di musica antica (dal XIII secolo) proseguendo attraverso il canto Gregoriano e via via fino al barocco e le sue ultimissime propaggini (diciamo fino a Beethoven). In questo viaggio si incontrano musicisti iper-famosi e celebrati (Bach, Handel, Palestrina, Monteverdi, Vivaldi, Corelli, Purcell), altri un po’ meno famosi dei quali avevo ascoltato poche cose (Telemann, De Machaut, Haydn, Rameau) e altri ancora dei quali ignoravo tutto (Zelenka, Rebel, Ockeghem, Muffat, De Victoria, il sorprendentissimo Myslivecek…). E’ splendido lasciarsi guidare dai curatori del catalogo all’interno di un universo che contiene moltissime perle (a me) sconosciute in un viaggio che è fatto di pura bellezza, del navigare in un oceano immenso affidandosi alle rotte tracciate da chi ha speso una vita a identificare cosa sia meritevole di attenzione. Ed è bello farlo attraverso lo strumento dei CD, l’oggetto fisico che ci “costringe” ad ascoltare l’opera dall’inizio alla fine, senza (troppe) distrazioni (a differenza dello streaming, dove la tentazione di andare nevroticamente altrove è sempre presente).

A posteriori appare anche evidente come ci sia un enorme differenza tra i suggerimenti dell’intelligenza digitale (“chi ha ascoltato questo ha anche apprezzato quest’altro“, “se ti è piaciuto questo allora prova quest’altro“…) che spesso incontriamo sulle varie piattaforme dedicate all’ascolto in streaming e un percorso vero e proprio strutturato da qualcuno che di certe cose ha grande competenza. E’ anche chiarissimo come, per quanto ampia, anche questa antologia non possa non avere delle mancanze che a me appaiono gravi (tanto per dire: davvero non c’era spazio, o una incisione soddisfacente, per Pergolesi ?), ma la cosa che emerge a valle dell’ascolto è comunque una sensazione di completezza e piena immersione in un mondo di straordinario fascino che poi nessuno ci vieta di approfondire ulteriormente.

2) Il secondo viaggio è quello all’interno delle scelte e delle logiche dell’etichetta. Oggi, che abbiamo a disposizione immediatamente enormi quantità di musica, è difficile immaginare come, nel primissimo dopoguerra, i curatori di un etichetta che si era data il compito di documentare alcuni secoli di storia della musica colta europea, dovessero decidere a quali autori e, ancor di più, a quali opere dare spazio, quali fossero le priorità, le composizioni che proprio non potevano mancare dal loro catalogo. Uno sforzo di sintesi e di valutazione dell’importanza storica e artistica che appare titanico: i Concerti Brandeburghesi di Bach o la sua Messa in Si Minore ? i lavori per organo o quelli per altri strumenti ? e i concerti grossi di Corelli ? quali scegliere ? quali oratori di Handel privilegiare ? e così via. Non è solo un dato storico-statistico e un affascinante percorso di selezione: si tratta di calarsi nei loro panni e costringersi a scegliere, cosa che, in un mondo dove “tutto e subito” sembra naturale, abbiamo dimenticato e non sappiamo più fare. E non è stato un bene.

3) Il terzo viaggio è quello attraverso i musicisti selezionati per suonare. La Archiv dovette anche decidere a chi affidare le interpretazioni e, negli anni, ha dato modo ad eccellenti musicisti di affermarsi spesso con incisioni considerate dagli esperti come dei riferimenti assoluti. Qualche nome tra i tanti: il Gabrieli consort, Musica Antiqua Köln con il suo direttore Reinhard Goebel, The English concert diretto da Trevor Pinnock, il Monteverdi Choir, The English baroque soloists diretto da John Eliot Gardiner, The Early Music Consort of London, il Concentus Musicus Wien diretto da Nikolaus Harnoncourt, i Berliner Philarmoniker, l’Accademia Bizantina di Ottavio Dantone. Tra i tantissimi solisti mi piace segnalare Dietrich Fischer-Dieskau, baritono che non avevo mai sentito nominare (so di essere ignorantissimo in materia di musica classica) e la cui voce mi si è rivelata come una incredibile meraviglia d’altri tempi. Perché è giusto apprezzare i nostri contemporanei, ormai spesso ridotti al ruolo di ultra-divi e costretti a pose e immagini degni di una qualunque velina televisiva, ma è bello riscoprire un mondo meno iper-prodotto e, in qualche modo, più a misura d’uomo e di artista. Parallelamente mi sono deliziato per le performance, molto più recenti, ma altrettanto eccellenti, delle soprano Anna Prohaska e Joyce DiDonato, per me due assolute sconosciute (lo ripeto, sono un novizio in questi campi), ma capaci di interpretazioni strabilianti.

4) Il quarto viaggio è quello nell’esoterico universo delle tecniche di incisione. Obiettivo di questa raccoltona è anche quello di narrare la storia in maniera equilibrata, quindi, partendo dai primi CD (caratterizzati da esecuzioni presentate per la prima volta in digitale) incontriamo registrazioni monofoniche risalenti alla fine degli anni ’40 e ai primi ’50, per poi, piano piano, incontrare registrazioni sempre più sofisticate al seguito di una tecnologia sempre più sviluppata e a conoscenze tecniche sempre più approfondite. Forse il vero top della qualità è stata quella degli anni ’80 quando l’opulenza del mercato rendeva possibile investire parecchio denaro nei macchinari e nella cura delle incisioni, ma l’orecchio attento può seguire in questo cofanetto l’evoluzione delle tecniche di registrazione e farsi una idea di come siamo arrivati fino ad oggi (ovvero ad ascoltare la musica con le sconcertanti cuffiettine senza fili o le cassettine del PC…).

Tra i tanti benefici effetti stimolati dall’ascolto di questo cofanetto, segnalo una enorme curiosità per le opere barocche (sono presenti “Israele in Egitto” e la bellissima “Alcina“, entrambe di Handel) che già era sorta in me, ma che ora è diventata una mia personale priorità (e viene il sospetto che, oltre ad Handel, forse l’artista più rappresentato nel cofanetto, avrebbero dovuto trovar posto anche a qualche opera di Vivaldi o dello stesso Mozart, per quanto più tardo).

Tutto questo quindi, non solo per suggerirvi di aprirvi alla musica classica, ma anche per stimolare una riflessione sulle modalità attraverso le quali esplorare mondi artistici a voi sconosciuti. Perché anche il metodo fa la differenza e la bulimia contemporanea va tenuta strettamente a bada.


E beccatevi pure il trailer ! 🙂

Musiche meravigliose che non dovrebbero mancare in nessuna casa.

Lezioni di musica

Molto spesso, quando si parla della RAI, si mostra un diffuso sentimento di insofferenza. Nella vulgata dominante la RAI è un carrozzone che utilizza male i soldi del canone, produce, sostanzialmente, le stesse cose della TV privata e via dicendo.
Chi si abbevera al fiume di questa retorica utilizza come esempi le trasmissioni dei canali generalisti della RAI e, nella sua pigrizia mentale, raramente guarda oltre la siepe. Se lo facesse magari scoprirebbe un ricchissimo palinsesto ricco di chicche e produzioni interessanti e validissime.

In questa occasione parleremo di un gioiellino della radio pubblica, e di RAI Radio 3 in particolare. Si chiama “Lezioni di musica” e va in onda, di norma, due volte alla settimana la mattina.

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Come si può evincere dal titolo, questo programma, di una scarsa mezzoretta, si occupa di un’opera musicale (un concerto, una sinfonia, una sonata…), il conduttore (sono diversi e tutti molto bravi e preparati) cerca di illustrare le caratteristiche dell’opera sia contestualizzandola all’interno della vita privata e della storia personale del suo autore, sia collegandola alle altre sue opere, sia analizzandone la struttura formale, sia cogliendone gli aspetti innovativi o più significativi.
Per fare questo il conduttore si appoggia sia al pianoforte, accennando i temi e i frammenti musicali dei quali sta parlando, sia proponendo un ascolto (sempre parziale) dell’opera sul quale interviene per sottolineare ciò che ritiene importante.

Il risultato è un prodotto divulgativo di altissima qualità, che permette anche ad ascoltatori non particolarmente ferrati in queste materie di penetrare nel profondo l’anima di queste composizioni (spesso) immortali. Qualcosa che dovrebbe entrare di diritto nelle scuole medie e superiori, se appena appena qualcuno fosse interessato alla formazione musicale dei nostri giovani.

Ve ne parlo anche perché, fortunatamente, è possibile ascoltare queste puntate in streaming sull’apposito sito della RAI e, chi vorrà, potrà selezionare nel vastissimo elenco le cose che più lo incuriosiscono.

Sono conservate ed accedibili (al momento in cui scrivo) le stagioni dal 2012 ad oggi (!), e all’interno di questa serie ci troverete di tutto: da Mozart a Bach, da Beethoven a Brahms, da Debussy a Monteverdi, ma anche cose meno prevedibili  e contemporanee come alcune puntate su minimalismo e post-minimalismo, opere di Maderna, Castaldi, Berio, Stockhausen, Glass, Reich, Riley, Pärt, Feldman e tanti altri. Non mancano, infine, anche artisti (relativamente) minori come Frogerber, Carissimi, Gastoldi, Willaert

Decine di trasmissioni su decine di opere di decine di artisti di tutti i tempi. Uno scrigno ricchissimo di gioielli che merita assolutamente l’attenzione degli appassionati di musica.

Peccato che, nella recente ristrutturazione del sito, abbiano eliminato la possibilità di scaricare liberamente le trasmissioni per conservarle e/o ascoltarle quando non si ha la connessione. Trattandosi di servizio pubblico sarebbe stato bello conservare questa possibilità.

Ma resta il fatto che questa trasmissione rappresenta la più pura essenza del servizio pubblico, qualcosa che i privati non faranno mai. Sono trasmissioni come queste che giustificano (eccome !) il pagamento del canone, anche se i tromboni che si lamentano della qualità dei programmi RAI non le degneranno di attenzione, buoni solo a lamentarsi.

TITO RINESI “Dargah”, 2020

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Secondo post dedicato a quegli artisti, a me cari, che hanno realizzato dischi durante la pandemia e che, in mancanza di concerti, possiamo sostenere solo attraverso l’acquisto dei loro lavori.
Questa volta parliamo di un nuovo lavoro di Tito Rinesi (vi ho parlato di lui in passato in questo post e in quest’altro post) intitolato “Dargah” e molto chiaramente sottotitolato “musiche e canti Sufi“.
Rinesi rivolge la propria attenzione all’universo delle musiche sufi senza limiti geografici e temporali, raccogliendo 12 brani dei quali propone versioni decisamente fedeli alla linea, senza arrangiamenti moderni o modernisti, ma cercando di rimanere vicino allo spirito dei brani originali. Non a caso la strumentazione vede esattamente gli strumenti che vi dovreste aspettare, a partire dall’immancabile ney, passando per oud, tar e strumenti classicamente vicini alla tradizione sufi. A questi si aggiungono, ma molto rispettosamente, strumenti meno abituali per queste musiche (viola, fisarmonica, violino, bouzouki…) per una serie di tracce nei quali lo spirito ecumenico di Rinesi si confronta con delicatezza e cura estreme con il corpus di interpretazioni che questi brani hanno avuto negli anni.
Come accennato sopra nella scelta dei brani non ci si è limitati alla tradizione turca, ma si è guardato anche molto più lontano, vedi la versione di “Allah hu“, classicone portato alla notorietà in Occidente, direttamente dal Pakistan, dal compianto Nusrat Fateh Ali Khan.

Spicca in tutti i brani l’uso delle voce fatta da Rinesi, voce solista in tutti i brani. E’, credo, la prima volta che nei suoi lavori la sua voce ha tutto questo spazio, ed è una lieta e interessante novità, così come spicca la traccia 8 “O amore“, unico brano cantato in italiano (testo tratto da una poesia di Rumi e musica che, unico caso nel disco, è farina del sacco di Rinesi).
Insomma: un disco che non può mancare nelle case di chi ama certa musica.

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Se siete interessati a questo disco potete acquistare il CD fisico (CD vero, non masterizzato, sia chiaro) con una eccellente copertina ed un libretto assai esaustivo, rivolgendovi direttamente a Tito Rinesi (lo potete contattare su Facebook o alla mail info@titorinesi.com)
Sarà lui a dirvi come pagare il CD tramite Paypal per poi riceverlo direttamente a casa. Faccio notare che da lui potete comprare, sempre in una edizione fisica, anche i due dischi linkati sopra (“Meetings“, con introduzione di Franco Battiato, e “Verso Levante“) e che il prezzo dei dischi, comprensivo dei costi di spedizione, è decisamente accettabile (fidatevi).

In alternativa (molto meno consigliata, perché, come sapete, agli artisti arrivano pochissimi soldi) potete ascoltarlo in streaming, ad esempio su Spotify.

Potete anche acquistarlo, in versione liquida, su vari store digitali, ad esempio Amazon.
Lo trovate anche, ma non è così banale rintracciarlo, su YouTube.
Qui sotto la traccia di apertura.

Concludo ribadendo l’invito a sostenere la musica che amate in questi momenti economicamente, e non solo, estremamente complicati.

SoundScapeS vol.17

Sono anni strani questi, anche per quanto riguarda i miei ascolti (e forse anche i vostri).

La pochezza del nostro presente musicale (o quella che appare A ME come pochezza),
l’incredibile, mostruosa, quantità di dischi prodotti mensilmente,
il fatto che, anche quando sono di buona qualità, sembrino emergere dal chiuso di una cameretta e mai far parte di una scena, di un’idea condivisa di musica, di un mondo, di una cultura,
il confronto col passato, oggi più che mai facile ed immediato, unito alla possibilità di venire a sapere di musiche un tempo difficili da scovare,
tutte queste cose, e forse molte altre, fanno sì che la mia periodica antologia rappresentativa dei miei ascolti negli ultimi due anni, si caratterizzi per materiali che quasi mai emergono dalla pietra fondativa del mondo della musica pubblicata (l’album), ma che provengano da piccoli reperti collaterali, minori, dimenticati e considerati dimenticabili.
Da qui il titolo della raccolta, “Effimeri“, proprio ad indicare non incisioni nei quali l’autore credeva, ma cose accantonate, pubblicate a latere et similia.

Ma, in concreto, di cosa stiamo parlando ?
Provo ad elencare:

  • due demo provenienti dagli anni ’70, che, pur bellissimi, furono inizialmente scartati dagli album in cui dovevano comparire e recuperati solo molti anni dopo
  • due remix, usciti su singoloni, che, se non sono più belli degli originali, sono sicuramente almeno al loro stesso livello e meritano una chance
  • tre live televisivi recuperati con qualche fatica e dall’audio non sempre adeguato, con arrangiamenti però molto molto sfiziosi e intriganti, MAI riproposti nei live ufficiali
  • alcuni brani provenienti da cassette o album legati al mondo dei Centri Sociali Autogestiti di inizio anni ’90, cose dimenticate da tutti eppure di una qualità e di una profondità degne di una riscoperta
  • il dimenticatissimo, a dir poco, lato B di un 45 giri degli anni ’60 pensato per i bambini, nel quale gli esecutori mostrano una fantasia negli arrangiamenti e nella scrittura musicali insieme a una abilità tecnica (un professionismo, oserei dire) che oggi, purtroppo, suona come una bestemmia
  • un brano eccellente, e recente, eppure pubblicato SOLO su YouTube (O tempora, o mores)
  • il recupero di un gioiellino tra i tanti che gli Hare Krishna hanno divulgato porta a porta in giro per l’Italia (ne abbiamo parlato spesso da queste parti)

A queste chicche si aggiungono un paio di brani cileni, che in Italia nessuno vi farà mai conoscere e poco altro (tra il quale anche un breve brano di musica classica, famoso e poco noto al tempo stesso).

In tutto 17 brani per i consueti 80 minuti di godimento (almeno per le mie orecchie).

p.s. come sapete queste mie antologie non sono più distribuibili, per varie ragioni, per cui considerate questo post un po’ delirante come una semplice testimonianza o, al massimo, un piccolo stimolo per indirizzare i vostri ascolti anche verso materiali, appunto, effimeri, ma non per questo da dimenticare

Disfunzioni Musicali (il documentario)

C’è molta retorica in giro sui negozi di dischi, di come fossero veicoli e promotori di cultura più o meno alta. In realtà moltissimi di questi negozi non erano sostanzialmente differenti da una macelleria o da un negozio che vendesse autoricambi.

Ma c’erano delle eccezioni, a volte clamorose.
A Roma, in particolare, c’era Disfunzioni Musicali, un negozio che è sempre stato molto di più di un luogo dove si vendevano dischi. Per molti aspetti fu un faro nella notte per tanti ragazzi che erano divorati dalla curiosità e che cercavano musiche altre.

Di tutto questo parla questo breve, ma meritorio, video.
Non ve lo propongo come sterile nostalgia canaglia di un passato che non tornerà, ma come un doveroso omaggio a chi rese quel luogo quello che era.

Un pensiero particolare va a Sante, che all’epoca fu un eccellente suggeritore di acquisti per il sottoscritto.